Laura Golarsa: “Non amo i compromessi”


di Gianfilippo Maiga
Laura Golarsa è come ce la ricordavamo in televisione: una ragazza, (sì, sembra che il tempo non sia passato), molto carina, una rarità allora in mezzo a fenomeni di androginia, cosce ipertrofiche e pance flaccide, un po’minuta, o forse solo normotipo, al punto che ci domandavamo come facesse a impegnare e spesso battere più di un donnone, e tosta. Sul fatto che sia ancora carina fidatevi di me. Sul fatto che sia tosta emerge chiaramente dal suo racconto.
Oltre al raggiungimento dei quarti di finale a Wimbledon nel 1989, sei stata un’atleta capace di arrivare diverse volte al terzo turno di Wimbledon e degli US Open e particolarmente negli ultimi anni della tua carriera (1998 e 1999), interrottasi in pratica nel 2000. Hai raggiunto un best ranking di 39 al mondo, ovviamente un grande risultato: visto per esempio il tuo comportamento in questi tornei del Grande Slam pensi che avresti potuto fare meglio o ritieni di aver conseguito la posizione che ti spettava? Cosa rifaresti e cosa cambieresti nel tuo percorso da giocatrice?
In effetti, con il senno di poi, un po’ di rimpianto c`è, anche se non posso rimproverarmi di molto. Il mio rimpianto è piuttosto “generazionale”. La mia, infatti, è la generazione di mezzo fra il tennis più amatoriale, se mi si passa il termine, che si giocava negli anni ’60, e quello pienamente professionistico di oggi. Noi, e parlo in particolar modo delle giocatrici (e anche giocatori) italiane, eravamo un po’ come dilettanti allo sbaraglio, mentre altre realtà – quella statunitense in primis – erano più avanti. Per capirci meglio, nessuno ci seguiva ai tornei: giravamo da sole, sostenendoci l’un l’altra, mentre altre rivali potevano contare o su metodiche già avanzate di allenamento, quando non su veri e propri staff a supporto, o di un forte sostegno familiare, proprio anche da un punto di vista tecnico. Per fare un esempio illuminante sulla situazione, ricordo che si approfittava delle apparizioni di Mc Enroe al torneo di Milano per copiarne gli esercizi, che poi venivano adottati in allenamento, invece della solita diagonale di dritto e rovescio. Non c`è confronto fra come mi allenavo io e come può lavorare una giocatrice pur con elevate doti come Francesca Schiavone, che può contare su uno staff a sua disposizione. Purtroppo, oltretutto, sulla scena tennistica si affacciava un gruppo di fenomeni, tutte in grado di aspirare alla prima posizione mondiale (10-15 giocatrici come la Sanchez, la Seles, la Graf, ecc.) molte delle quali potevano comunque anche contare, oltre che sulle doti naturali, sul sostegno di una visione più professionistica del tennis. A prescindere da questo aspetto di fondo e nonostante un handicap così grave, avevo capito di potermela giocare con tutte: me lo dimostrano sia le vittorie da me ottenute con molte grandi giocatrici, sia effettivamente i risultati conseguiti proprio nei tornei del Grande Slam, sia infine la mia capacità di mantenere un livello alto e di ritrovarlo anche dopo un infortunio, (purtroppo ne ho avuti molti). Ho subito 3 operazioni in 7 anni, ma ogni volta ho ricominciato ad alto livello e questo mi ha permesso di giocare 13 volte di fila Wimbledon nel tabellone principale, anche partendo dalle quali: per dire quali erano le mie condizioni, sottolineo che una volta, reduce da un intervento, ho servito dal basso! Infine, come sempre in questi casi, un pizzico di fortuna in più non avrebbe guastato. Ho “beccato” molto male ai primi turni un po’ troppo spesso. Nella mia carriera ho comunque incontrato – talvolta vinto , certamente sempre lottato – giocatrici come Chris Evert, Martina Navratilova, Pam Shriver, Marie Pierce, Zina Garrison. Posso quindi dire che, se avessi evitato certi errori dovuti ad inesperienza, mi sarei cavata non poche soddisfazioni in più.
Il match che rimane nella memoria degli appassionati è senz’altro quello con Chris Evert a Wimbledon, quando sei stata a due punti dal match e dalle semifinali. Cosa ricordi a freddo di quella partita? Ci sono altri incontri o episodi che ti hanno lasciato un ricordo indelebile?
In effetti quella è “la partita”, non solo per l’importanza del traguardo, se si considera che l’ultima italiana che aveva raggiunto la stessa meta era Lucia Valerio, nella notte dei tempi. Ho rivisto quel match mille volte e ancora oggi mi domando come ho fatto a perderlo. Ero 5-3, 30-0 e servizio, palle nuove. Io giocavo serve and volley e la Evert mi ha fregato con tre passanti incredibili. In quella partita sono stata 7 volte a due punti dal match! Non l’ho persa per emozione: giocare sul centrale mi galvanizzava, non mi spaventava. Quella partita è il mio tormentone, dato anche che viene carinamente ricordata ad ogni piè sospinto dal grande duo Tommasi/Clerici. Non è stata però l’unica, naturalmente, cui io sono legata. Ricordo un incontro al terzo con la Navratilova (Eastbourne) e con Mary Joe Fernandez (Australian Open); non posso dimenticare una mia vittoria agli ottavi a Wimbledon (6-4 al terzo) contro la Novotna (1989), che l’anno dopo ho avuto la sfortuna di trovare al primo turno, questa volta perdendo al terzo, mentre lei in quel torneo è arrivata ai quarti (sconfitta dalla n.1 Graf) e poi ha raggiunto la quarta posizione mondiale.
Nel doppio hai ottenuto risultati importanti, tra cui una semifinale a Wimbledon. Che importanza ha avuto per te questa specialità?
Poiché ero una giocatrice serve and volley, il doppio mi riusciva facile e mi divertiva. Ho davvero dei bei ricordi: nel doppio femminile in cui, fra tanti tornei giocati e fra diversi partners, sceglierei Lory McNeil, ma soprattutto in quello misto con Van Rensburg, con la semifinale raggiunta a Wimbledon nel 1996. In particolare, ripenso volentieri a quella partita. Si giocò straordinariamente di lunedi, dopo la finale del singolare, a causa della pioggia che aveva allungato il torneo. Le porte erano aperte e gli ingressi gratuiti e c’èra il tutto esaurito: una situazione indimenticabile! Fatta questa premessa, io mi sentivo più singolarista e ho sempre sacrificato il doppio agli impegni in singolare.
Di quel periodo e di quell’ambiente che ricordi conservi? Per un paio d’anni sei stata anche eletta quale membro del Board delle tenniste professioniste. Parlaci di quell’esperienza.
L’ambiente di allora era certamente diverso. Ho già accennato al maggiore “dilettantismo” dell’epoca. Questo vuol anche dire che si è fatta molta più comunella tra di noi. Io poi ho sempre avuto un buon rapporto con le mie colleghe, grandissime giocatrici incluse. Forse a mio favore ha giocato un istintivo rispetto che veniva dai confronti sul campo: molte di loro sapevano che, a dispetto di una classifica inferiore, ero in grado di competere, nella singola partita, ai massimi livelli. Il mio rapporto più amichevole era con la Evert e la Navratilova, o la Sabatini: mi capita abbastanza di incrociare le ultime due ancora oggi, mentre Chris Evert è quasi inarrivabile. Avevo un bel rapporto anche con Steffi Graf, anche se lei oggi, come un po’ allora, fa vita a sé. La mia esperienza nel Board è stata molto interessante, anche se è durata poco. La sfida, credo vinta, è stata quella di trasformare il tennis professionistico da sport strutturato in modo da favorire le giocatrici di vertice a sport in grado invece di accettare e quasi promuovere i ricambi generazionali. Il ruolo era però inconciliabile con quello di giocatrice. Era molto time consuming e mi è capitato di dover scendere in campo a pochi minuti da una discussione, con tanti saluti alla concentrazione, per cui dopo 2 anni ho rassegnato le dimissioni.
Il tennis femminile, forse più ancora di quello maschile, ha conosciuto negli ultimi 10 anni una profonda evoluzione. Che analisi si può fare in proposito? In che misura l’Italia del tennis (femminile) come movimento nel suo complesso ha seguito questa evoluzione, risultati di Fed Cup, di Schiavone e Pennetta, ecc. a parte.
Un grande cambiamento, che si situa proprio ai miei tempi, è stato il passaggio da un calcolo di punti basato sulla media dei risultati alla somma dei punteggi effettivi realizzati in ogni torneo, sulla scia di quanto già praticato dall’ATP. Il mutamento è da considerarsi epocale: in precedenza le giocatrici più talentuose potevano “amministrarsi”, giocando un numero al limite ridotto di tornei, qualora negli stessi avessero ottenuto brillanti risultati. Con il nuovo sistema, occorreva aggiungere ai risultati la quantità, quindi essere dotati anche fisicamente e mentalmente per performare in ogni torneo e disputarne il più possibile per prevalere nel ranking mondiale. Come ogni rivoluzione, ha portato con sé pro e contro: da un lato una maggiore apertura delle classifiche ai personaggi emergenti o comunque dotati non solo di “braccio”, ma completi; dall’altro ha probabilmente sacrificato un po’ la qualità dei migliori a beneficio delle doti fisiche e questo può forse spiegare le classifiche mondiali di oggi, che vedono spesso eccellere non i fenomeni tecnici, ma giocatrici dotate soprattutto di grande consistenza atletica, come – ma certamente non solo – la Wozniacki. Quanto al movimento italiano, occorre osservare due cose. Non è vero che solo oggi abbiamo delle punte di eccellenza: non dimentichiamo che Reggi e Cecchini sono state nelle prime 15 WTA e Farina 11. Nel tennis femminile l’Italia ha sempre avuto una grande tradizione. È forse vero che oggi non intravvediamo già le eredi di Pennetta e Schiavone, ma mi domando chi avrebbe scommesso, all’inizio della loro carriera, che le due azzurre sarebbero arrivate a questi livelli. Quanto all’attualità, a mio avviso ci sono 2 o 3 ragazze di ottimo potenziale; lasciamole crescere e solo il futuro ci dirà se la stoffa di cui sono fatte è da top ten. Non abbiamo in casa la nuova Seles, nel senso della precocità e dell’essere predestinati, ma mi pare che questo valga un po’ per tutti, in questo momento.
Sia come giocatrice sia, oggi, come allenatrice, sei conosciuta per la tua personalità molto forte e decisa, qualcuno dice provocatoriamente un po’ “talebana”. Vorrei che tu raccogliessi questa provocazione e parlassi di te, della tua filosofia sportiva e, in definitiva, di vita.
In un mondo senza regole, mi piace poter dire che sono stata educata ad una cultura diversa e, per questa ragione, amo poco i compromessi. Chi vuole intraprendere la dura carriera del tennista, deve rispettare una serie di principi, (dal fair play a una certa disciplina in campo e fuori), cui non deve venir meno, pena il fallimento. Sotto questo profilo sì, se si vuole accetto il termine di “talebana”. Ritengo di avere la responsabilità di insegnare queste regole ai miei allievi. Per il resto sono piuttosto elastica. I ragazzi che seguo si allenano probabilmente un po’ meno degli altri e per loro prevedo vacanze in agosto, cosa che nessuno fa. In campo però, come diceva la canzone, “nessuna pietà”.
Un particolare che ti contraddistingue rispetto ad altre allenatrici è che oggi sei il coach di un gruppo di ragazzi: Bega e Molina, che hai “tirato su” sin da quando erano bambini, Sinicropi e Della Tommasina. È ovvio che l’esperimento sta riuscendo: in un mondo a dir poco fluido e volubile come il tennis i primi due sono con te da una vita e intorno a te si è aggregato proprio in questi ultimi anni un gruppetto qualificato di speranze del tennis italiano. È però vero che da donna, sia pur con un pedigree importante, imporsi su un ambiente maschile e su ragazzi in crescita deve a volte presentare qualche complicazione in più. Cosa ne pensi? Dacci inoltre brevemente un tuo profilo di ciascuno dei ragazzi e delle tue aspettative per ognuno di loro.
Ho sempre amato il tennis maschile, il modo in cui lo sport maschile si esprime nel tennis. E ho sempre amato il carattere dei maschi, che nello sport ha meno “orpelli” ed è meno problematico di quello femminile. Ho da subito desiderato di mettere la mia esperienza a disposizione dei giovani: proprio il mio vissuto e gli errori commessi mi hanno fatto desiderare di trasmettere le mie conoscenze a chi voleva percorrere la mia strada. Premetto che si tratta di passione: non ho “bisogno” di allenare, non lo faccio per vivere, ma perché mi piace. Un’altra premessa è che per me questa avventura vale la pena di essere vissuta se l’obiettivo è entrare nei primi 100. Una mia forte convinzione è che chiunque, se ha certi requisiti minimi, fisici e morali, che non gli si possono trasmettere, lavorando in un certo modo può puntare a quell’obbiettivo. Un esempio che mi piace ripetere è quello delle sorelle Maleeva, allenate dalla madre: giocatrici non particolarmente dotate, ma che hanno avuto un grande successo. Il caso mi ha permesso di coronare il mio desiderio. Ho trovato anni fa due ragazzi (Alessandro Bega e Emanuele Molina) che avevano quei famosi requisiti e li ho “allevati”. A loro si è aggiunto da un paio d’anni Riccardo Sinicropi. A problemi scolastici esauriti, ho pensato di aggiungere un quarto elemento come Davide della Tommasina, che doveva lasciare Tirrenia per limiti di età. Non sono sorpresa dei loro buoni risultati: Bega ha un grande timing sulla palla e un diritto molto veloce, che sa tirare da tutte le posizioni. In campo, poi, è molto intelligente. Della Tommasina ha un DNA di sangue blu, come dimostrano i suoi trascorsi da junior. Questo DNA non si perde, anche se gli ultimi anni sono stati complicati e io vorrei aiutarlo a ritrovarlo. Molina ha un picco altissimo e deve ancora esprimere tutte le sue potenzialità: è un problema di maturità complessiva da raggiungere. Sinicropi è un giocatore completo: inoltre ha una gran mano ed è rapidissimo.
In verità hai seguito per un po’ anche una promessa femminile: Corinna Dentoni. A un certo punto il rapporto si è interrotto. Puoi parlarne e raccontare la tua esperienza con lei?
Corinna era 800 al mondo, quando è arrivata da me. Era in difficoltà, dopo i successi da junior (vittoria nell’Avvenire e semifinali al Bonfiglio), perché la sua classifica era di gran lunga inferiore al suo potenziale e non riusciva a “schiodarsi” dal suo impasse. Avere Corinna voleva dire raccogliere una sfida e assumersi una grande responsabilità: la Dentoni era un progetto della Federazione Italiana ed era considerata un patrimonio da non sperperare. Ho deciso di accettare. Mi inducevano a questa scelta non certo interessi economici, (sono una ”stipendiata” del Tennis Milano e nulla cambia se io alleno Federer o uno sconosciuto), ma altri fattori: oltre alla mia passionaccia e all’ambizione di misurarmi con un compito non facile, la comprensione delle enormi potenzialità di questa giovane tennista. Posso ben dire che, in tanti anni, molto raramente ho trovato una giocatrice con una palla così pesante come quella di Corinna, forse la Davenport (!) giocava così. Valeva davvero la pena di tentare, anche se ero consapevole che il mio compito avrebbe comportato una dedizione al 100% del mio tempo e delle mie energie. Il piano, condiviso con la Federazione, era di portare entro due anni la Dentoni tra le prime 100. Abbiamo quindi programmato la sua attività in funzione di questo obiettivo, oltre che della necessità di un recupero anche sul piano fisico (noie al tendine rotuleo). Credo che si sia riusciti nell’intento: Corinna era 220 dopo un anno e 137 al termine del secondo, pronta a fare il salto definitivo. Questo salto finale a 19 anni le avrebbe permesso di recuperare il gap accumulato con le sue peers di pari età: la Wozniacki e la Cornet, solo per fare un esempio. Le avevo affiancato uno sparring, che aveva anche il compito di accompagnarla ai tornei, visto che io non posso girare, un ottimo “seconda”. I due si sono innamorati. Non ho ovviamente alcuna obiezione a questo. Ritenevo però – e ritengo tuttora – che un’implicazione sentimentale fosse difficilmente conciliabile con quel clima di neutralità e rigore che deve esistere fra lo sportivo e chi lo accompagna con compiti tecnici, specie a 19 anni. Si profilava inoltre una potenziale sovrapposizione con il mio ruolo di coach e quindi di dualismo nella guida tecnica, che io ritenevo pregiudizialmente dannoso per la carriera della ragazza. Il caso di Silvia Farina è a questo riguardo ben diverso: Elia era un coach con esperienze professionali alle spalle, inoltre Silvia aveva 24 anni ed era già matura. Ho quindi posto come condizione, perche’ io continuassi ad allenarla, che il fidanzato facesse il fidanzato e che il mio interlocutore ai tornei fosse un altro mio collaboratore. Di fronte al desiderio di continuare nello status quo, ho detto a Corinna che non mi sentivo più di allenarla e ho ribadito questo concetto quando, in un momento successivo, ci siamo sentite e lei mi ha chiesto di riconsiderare la mia posizione. Mi spiace vederla ancora al di sotto delle sue possibilità e resto convinta che, anche senza fare un grandissimo sforzo, presto vedremo Corinna a ridosso delle prime 50 WTA.
Tu operi all’interno di un circolo storico come il Tennis Club Milano Bonacossa. Una grande struttura, con molti campi, ma pur sempre un circolo e non un erogatore di servizi, come per esempio è l’Harbour di Milano, quindi un ambiente che deve in qualche modo riconciliare le esigenze degli agonisti, (soprattutto quelli che lo fanno di mestiere) e quelle dei soci. Questo aspetto è condizionante o in definitiva l’”appartenenza” ad un circolo si rivela al contrario un fattore di sostegno?
In Italia, è noto, abbiamo difficoltà a disporre di strutture adatte a chi concepisce agonisticamente il tennis o addirittura ne fa un mestiere, rispetto per esempio alla Florida. Non mi sento di stabilire una graduatoria fra circoli e altri tipi di strutture, poiché in entrambe c’è gente che paga e ha le sue esigenze che, certamente, in qualche modo risultano condizionanti. Anche chi volesse o potesse disporre di una struttura propria, inoltre, si troverebbe confrontato con dei costi di gestione molto alti, che lo obbligherebbero a dei compromessi. In conclusione, chiunque alleni deve cercare di ottenere il massimo dall’ambiente cui si appoggia, eventualmente integrando con l’utilizzo di altre strutture eventuali carenze con cui si misurasse.
Quanto è importante la tua attività di commentatrice televisiva per Sky? È solo un accessorio rispetto alla tua attività principale o può diventare qualcosa di più in futuro?
E’ vero che la mia attività di commentatrice è “di nicchia”, rispetto al lavoro di allenatrice, ma la giudico molto importante, per non dire essenziale, e vorrei vederla crescere. Stare a contatto con il tennis che conta vuol dire essere aggiornati e capirne l’evoluzione, confrontarsi ogni giorno con il meglio che c’è essendo costretti a seguirlo criticamente. È interessante l’osservazione fatta da Filippo Volandri, che ha brevemente fatto la stessa esperienza: ha confessato che non aveva mai avuto occasione di vedere così tanto e così spesso Federer e Nadal e che questo gli era servito moltissimo. La vicinanza ad un giornalista sperimentato come Tommasi mi permette di crescere, non solo per le sue conoscenze, ma anche perché ho accesso ai notevoli mezzi di cui un giornalista dispone per analizzare il gioco. Estremizzando, vorrei dire che il miglior coach è quello che assomma le esperienze di allenatore con quelle di ex-giocatore e giornalista e viceversa il miglior giornalista è quello che ha giocato e allena.
Alcuni coach italiani (Piatti e Pistolesi, per esempio) sono stati scelti da grandi campioni stranieri per essere allenati, a riprova che anche in Italia esistono importanti competenze tennistiche. A quando un passo analogo per una donna, (al di là dei vincoli familiari, che esistono però anche per gli uomini). Ci sono allenatrici di livello in Italia?
“C’è poco da dire: è proprio la famiglia l’ostacolo più condizionante per una donna, e secondo me più di quanto avvenga per un uomo. Non so trovare un’altra ragione per cui le nostre ragazze non siano diventate coach internazionali. Poi ci sono altri fattori che trascendono la situazione italiana. Il tennis è un ambiente maschile e maschile è considerato il tennis di punta, checché si dica. Non è facile per una donna accreditarsi, soprattutto se si vogliono allenare dei maschi. Le competenze esistono e donne che allenano non ce ne sono molte, ma ce ne sono (di primo acchito penso, oltre a me, a Barbara Rossi, a Silvia Farina e la stessa Raffaella Reggi, per quanto ne so, ha progetti in merito). Peraltro per me è complicato dare un giudizio anche perché la mia generazione, al femminile e al maschile, questo è vero, si è un po’ persa…”

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