Bene Donati e Napolitano… e Quinzi?

Quinzi

di Alessandro Mastroluca

Kokkinakis fa impazzire Melbourne. E Quinzi? Coric batte Nadal a Basilea. E Quinzi? Nishioka e Rublev vincono il primo match ATP in carriera a Delray Beach. E Quinzi? Chung firma il suo primo successo ATP a Miami. E Quinzi, che pure l’ha battuto nella finale di junior a Wimbledon?

A ogni risultato di un qualche rilievo delle “young guns”, dei giovani talenti del tennis mondiale, a ogni prestazione che riporti all’attenzione i big attesi di domani, compresi Kozlov, Kyrgios, Zverev, la domanda dei tifosi e degli appassionati torna come un riflesso pavloviano: e Quinzi dov’è? È il più classico segno della deprivazione relativa, di quel senso di delusione per i risultati in questo caso del proprio beniamino, ma non per i risultati in sé, quanto per il confronto con i traguardi raggiunti dai rivali cui è stato accostato nella sua fascia d’età. E’ il segno di quegli opposti estremismi cui facilmente la passione sportiva induce, della facile esaltazione per ogni vittoria e dell’eccesso di critica per ogni sconfitta.

Se, però, il refrain ossessivo, che rimbalza sui social network fino a diventare stucchevole, fosse solo la spia dell’impazienza del tifoso, sarebbe ben poca cosa. È in realtà il sintomo fenomenologico dell’attuale momento del marchigiano, numero 373 del mondo che ha tolto un set a De Bakker, anche lui ex campione junior, nelle qualificazioni a Miami. Il sintomo fenomenologico di un giocatore a metà di un guado che si spiega solo parzialmente con l’infortunio al polso e da cui fatica a tirarsi fuori.

Da un punto di vista mentale vedere che gli altri vanno avanti potrebbe essere un peso” ha spiegato a Cristian Sonzogni, per il suo blog sul sito della Gazzetta dello Sport, Fabio Gorietti, coach di Vanni e Fabbiano, il tecnico del Tennis Training Villa Candida di Foligno dove Quinzi si allena quando torna in Italia. “È anche vero che i risultati a questa età sono frutto di un periodo in cui le cose vanno bene e ti fanno fare il salto di qualità, poi tutto scorre più facilmente. Deve però avvenire in tempi non troppo lunghi, perché poi i dubbi cominciano a diventare certezze in negativo. Di sicuro lui è un competitivo e diventerà uno stimolo avere i vari Kyrgios, Zverev e Coric come riferimenti. Bisogna che riesca a programmare i suoi tornei per fare il salto di qualità, prendere fiducia e vincere ma esprimendo tennis di livello più alto”.

La competitività è certamente un elemento a suo favore. Ma, come sottolineava Monachesi, i tempi non devono essere lunghi, e forse son già diventati troppo lunghi. Perché l’aspetto che più dovrebbe preoccupare i suoi tifosi non è il livello dei risultati. È l’assenza di un significativo progresso tecnico dai tempi della finale junior di Wimbledon. Quinzi non è un giocatore dal tennis strategicamente complesso, non è un Simon che fa leva sulle sottigliezze e sulla varietà. Non è nemmeno il talento creativo alla McEnroe o alla Federer che ha bisogno di più tempo per comporre il suo puzzle e imparare a scegliere la cosa giusta da fare. È un giocatore benedetto da un fisico già precoce e strutturato, con cui ha fatto la differenza da junior, ma ha bisogno di aggiungere scioltezza, di velocità, soprattutto di piedi e caviglie, per ottenere il massimo dal suo timing, che rimane una sua grande qualità. E migliorare l’efficienza del servizio, soprattutto.

Con quel fisico, e con la competitività che ha sempre avuto, e che l’ha portato a scegliere di confrontarsi costantemente con i più grandi, ha firmato la serie di successi che l’hanno portato ad essere tra i migliori junior al mondo, a debuttare nel circuito ITF già nel 2010, a tentare la strada dell’accademia Bollettieri e alla wild card a Miami. È stato il suo bene e il suo male. Tutto questo, infatti, non ha fatto altro che alimentare le aspettative. E il combinato disposto di attese etero-indotte, e ad oggi sovra-dimensionate, hanno causato uno scarto tra lo standard richiesto e la qualità espressa in campo che ha generato dubbi, insicurezze, che ha scatenato una spirale che si autoalimenta in cui il gioco non migliora, la differenza con lo standard aumenta e i dubbi crescono. E i tanti, troppi, cambi di coach non aiutano: con Medica, che l’ha seguito fino allo scorso aprile, sono arrivati i risultati migliori, ora Monachesi, che già ha allenato Guillermo Coria, Guillermo Cañas, Agustín Calleri, Juan Ignacio Chela, Mariano Zabaleta e Tommy Robredo, ha fissato programma e ambizioni. “Ha bisogno di trovare la maturità per potersi tranquillizzare, iniziare a vincere le partite, ad avere fiducia in se stesso e questo non è semplice. Non è facile essere il numero 1 del mondo, o vincere Wimbledon, e stare in un paese come l’Italia, che è un paese latino, molto sanguigno. L’Italia non ha una giovane promessa da molto tempo, però lo osservo e vedo che è un gran lavoratore e mi sembra un grande giocatore” ha detto a Ubitennis. “Se non lo vedessi come un potenziale top-50, non lo allenerei”.

La deprivazione relativa spiega anche perché il quarto di finale di Matteo Donati a Drummondville sia stato accolto in maniera largamente positiva. Premesso che il risultato è una buona notizia, che aver battuto Gombos, numero 117 del mondo, e affrontato alla pari un avversario dal tennis complesso come Frank Dancevic è un’indicazione di maturità che può generare solo ottimismo, come ho già avuto modo di sostenere, Donati ha un anno più di Quinzi e lo precede di sole 17 posizioni in classifica. Più vicini di quanto sia apparso questa settimana, più vicini di quanto le sovrastrutture intorno alle rispettive carriere facciano trapelare.

Non avere i riflettori puntati addosso, ne era convinto anche il suo coach Massimo Puci, gli è stato di aiuto per sviluppare il suo tennis a tutto campo, tendenzialmente offensivo. Ha migliorato servizio e dritto, continua a cercare il vincente con insistenza, a manifestare un tennis proattivo, mai interlocutorio o passivo, nemmeno contro avversari più esperti. Al contrario di Quinzi, il fisico è ancora troppo leggero, anche per questo non sono arrivati i grandi risultati da junior che l’avrebbero spinto prima sotto i riflettori.

È cresciuto col suo passo, coi suoi tempi, anche Stefano Napolitano, classe 1995 anche lui come Donati, diventato a Herzlia, in Israele, il primo biellese a vincere un titolo ITF al maschile (in passato, a livello femminile, c’era riuscita solo Silvia Disderi, best ranking di numero 329 Wta). Sembrava quello più in ritardo sulla tabella di marcia, l’allievo del papà-coach Cosimo, invece adesso si è rimesso in linea con le promesse della sua età. E in Bahrain ha continuato sulla buona strada: è in semifinale dopo aver battuto in tre set Matteo Marfia nei quarti. In attesa che anche Filippo Baldi recuperi terreno, l’orizzonte dei giovani italiani sembra un po’ più azzurro.

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