Novak Djokovic, il dolce e l’amaro

Novak Djokovic
(Novak Djokovic – Foto Ray Giubilo)

di Federico Mariani

“Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta” una filosofia applicata allo sport che deve i natali a Giampiero Boniperti e che la Juventus ha rispolverato recentemente al punto da iscriverlo all’interno delle proprie divise da gioco. In un mondo selvaggiamente famelico come quello dello sport, il pensiero del presidente bianconero è concettualmente ineccepibile in tutto il suo cinismo.

Un diktat che, tuttavia, pare aver perso di significato nel tennis mondiale, o almeno nella sua declinazione maschile. Novak Djokovic vince, sempre, contro chiunque e su qualunque superficie, ma tale magnificenza sembra non bastare per scrollarsi di dosso presunte colpe che, di fatto, non ha e che si ripropongono fastidiosamente ad ogni vittoria.

Il dolce sapore di ogni successo, di ogni record distrutto è mitigato dall’amaro della noia, di avversari non all’altezza, di un film il cui finale scontato fa perdere l’appeal di una trama magistralmente ordita. Il dito è puntato verso l’inconsistenza di quelli che hanno popolato l’elitario club dei Fab Four e che, per motivi diversi, non sono più tanto fantastici e di sicuro non sono più quattro; ma anche verso una generazione – quella dei nati tra il 1989 ed il 1992 per intenderci – che ha disatteso le aspettative rimanendo ai margini senza mai incidere veramente ai massimi livelli. Accuse dirette, quindi, ad altri ma che inevitabilmente minano Djokovic ed i suoi trionfi in una sorta di processo mediatico che sa, francamente, di ingiustizia.

Non dev’essere facile per chi ha negli occhi le folgoranti carriere di Federer e Nadal ammettere la possibilità che sia un terzo giocatore, loro contemporaneo, a superarli nel palmares. E’ semplicemente incredibile ciò che il ragazzo di Belgrado sta generando nell’immaginario collettivo: con le ultime stagioni di pura tirannia, Djokovic ha seminato dubbi in quelle che parevano ormai assodate certezze. Nella penombra, ha ridisegnato record, ha puntato lo sguardo verso obiettivi nuovi, fino a ieri utopici. Ha elevato il Gioco ad un livello superiore per sagacia tattica e capacità atletiche esplorando una nuova dimensione dove, al momento, solo lui può esistere ed il resto della compagnia non può che restare inerme, sperando in qualche(assai improbabile) scivolone.

E’ chiaramente impossibile comparare giocatori diversi al top della forma. Cercare di capire se quel Federer di tale anno avrebbe battuto questo Djokovic è un esercizio tanto difficile quanto privo di utilità. Ed a chi pensa che l’attuale congiunzione generazionale stia spianando la strada del serbo, sarebbe interessante rispondere se non fosse invece vero il contrario. Il tennis, tuttavia, è uno sport che vive di individualità di epoche diverse che possono essere verosimilmente relazionate solo in base alla quantità e, soprattutto, la qualità della bacheca dei trofei. Vale la pena, a tal riguardo, ricordare che in qualsiasi sport praticato ai massimi livelli vincere non è mai facile neanche se sei il più forte del mondo, che confermarsi è tremendamente difficile, e che dominare è una vera e propria impresa.

E’ forse pleonastico ricordare che Djokovic nello swing nordamericano Djokovic ha firmato per la terza volta la doppietta Indian Wells-Miami, che col sesto successo in Florida (tanti quanti Agassi) ha raggiunto quota 28 nei Masters 1000 diventando primatista di categoria con sorpasso a Nadal, che dall’inizio dell’anno ha perso una sola partita contro Lopez e, più che altro, la congiuntivite, che è più difficile immaginare come possa perdere una partita rispetto a come possa vincerne altre ventuno (tante quante ne mancano al Grande Slam).  Tutti questi numeri e molti altri verranno trasmessi ai libri di storia, mentre per ora è sufficiente ammirare come il serbo riesca a dominare tutti facendo una leggera pressione sull’acceleratore, senza pigiare al massimo come chi vuole gestirsi e preservarsi per qualcosa di importante, di più alto.

“Djokovic non ha avversari all’altezza” è il mantra recitato da tutti fino allo sfinimento. Molto probabilmente è vero, mentre non è altrettanto chiaro dove finiscono i demeriti altrui e dove iniziano i meriti del serbo. Del resto, a voler essere pignoli, tolto per motivi anagrafici Federer, Nadal ha un solo anno più di lui (con due anni in più di permanenza sul circuito, ma con un chilometraggio sostanzialmente identico) mentre Murray è addirittura suo coetaneo. E’, invece, prassi indicare nel nome dei due svizzeri gli unici avversari, per motivi diversi, che possono creare crepe in un meccanismo  baciato da un’apparente perfezione. Roger Federer è l’avversario che più regolarmente ha battuto Djokovic anche nelle ultime stagioni monstre, mentre Stan Wawrinka è colui che è stato in grado di fermarlo nella stregata Parigi lo scorso anno impedendo (con ogni probabilità) il Grande Slam, ma solo grazie ad un pomeriggio di pura magia con 60 colpi vincenti. Un pomeriggio, francamente, irripetibile, così come è irripetibile un colpo di coda di Roger in un Major dove una sua vittoria con Nole manca da quattro anni e, con 35 candeline su cui soffiare ad agosto, resterà l’ultima.

La domanda che circola è la medesima da un paio d’anni a questa parte: chi può fermarlo? E le risposte, se possibile, continuano a diminuire. Forse la terra, o meglio, forse Parigi ed una maledizione che potrebbe trasformarsi in ossessione. Quell’ipotetica ossessione che, vista dall’altra parte della barricata, potrebbe diventare speranza. In attesa dell’esame più importante, Djokovic continua a vincere anche se vincere pare non essere più l’unica cosa che conta, o almeno non per lui.

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