Le memorie dello Scriba

Gianni Clerici è un classico, come lo può essere l’Iliade, o la Divina Commedia, o l’Ulisse di Joyce. Forse non li leggerai mai, magari non rientrano negli orizzonti dei tuoi gusti o dei tuoi interessi, ma non è possibile trovare argomenti solidi per discuterne il valore. La similitudine letteraria con cui ho voluto iniziare questa recensione su Quello del tennis. Storia della mia vita e di uomini più noti di me non è casuale, perché la letteratura è un filo rosso che percorre tutto il volume, direi anzi che ne è la vera protagonista, prima ancora del tennis. Perché leggendo la sua storia capiamo davvero che è stato ed è, prima ancora che tennista e giornalista, scrittore, o meglio, come ebbe modo di dire Italo Calvino, “uno scrittore in prestito allo sport”. E non scopro nulla di nuovo -cosa d’altra parte pressoché impossibile nel caso dei classici- dicendo che la sua è una penna privilegiata, che si muove in souplesse sulle pagina bianche così come lo poteva fare la Divina Suzanne Lenglen sui campi verdi di Wimbledon.

Uno dei primi a capirlo fu Mario Soldati che, nel suo ruolo di mentore, lo aiutò ad abbandonare la scia del padre commerciante o le sirene borghesi dell’avvocatura, e a dare voce al suo talento e al “suo” modo di scrivere. “Per ragioni misteriose -gli disse solennemente una volta- ti è toccato in dono di essere uno scrittore. Piccolo o grande non so. Ma sicuramente scrittore. È una benedizione, una maledizione, non lo so. So soltanto che tu sarai sempre diverso, anche se cercherai di dimenticarlo […]. E insomma, se non scriverai sarai infelicissimo, perché non avrai seguito il volere degli dèi”. In queste parole sono racchiusi un talento ed un destino (forse lui, esperto in storia delle religioni, preferirebbe la parola karma) che Clerici ha avuto la saggezza di seguire e l’abilità di capitalizzare; diventando romanziere, commediografo, poeta, ma soprattutto uno dei grandi artefici della nobilitazione della scrittura giornalistica che, anche grazie a lui, ha superato una sorta di complesso d’inferiorità nei confronti della Letteratura. Perché scrivere bene è un atto trasversale, che supera i generi e i canoni stilistici. Richiede ritmo ed eleganza, cultura e sensibilità, intelligena e ironia, ma soprattutto la capacità creativa di manipolare la lingua come farebbe un prestigiatore, di modellarla come farebbe uno scultore, creando trucchi e figure sempre nuovi. Gianni Clerici, erede della tradizione del maestro e collega Gianni Brera (uno dei primi e più grandi innovatori del linguaggio giornalistico sportivo) è stato in questo senso un mago ed un artista, un grande coniatore di metafore sorprendenti e di brillanti neologismi, ormai entrati a pieno dirittto nel gergo tennistico.

Oltre a parlare profusamente di letteratura, di libri, di letture, di amicizie e incontri con altri scrittori (da Arbasino a Bassani, da Hesse a Hemingway), Quello del tennis è anche un testo letterario oltre che un resoconto esistenziale, nel senso che il biografo (o meglio l’autobiografo) lascia spesso e volentieri spazio allo scrittore, cosicché arriva un momento in cui il lettore non sa più distinguere fra realtà e finzione. Non lo dico di certo nel senso che alcune delle gustosissime storie raccontate possano parere false o spurie, ma nel senso che il modo di narrarle supera la cronaca per diventare, appunto, letteratura. Ancora una volta non c’è confine fra i generi, non importa se leggiamo un romanzo o una biografia o una cronaca, quello che leggiamo è semplicemente un “testo” molto ben scritto e, pertanto, molto avvincente.

Poi, al di là delle questioni letterarie, chi cerca solo memorie (o storie?) tennistiche, ne troverà naturalmente a bizzeffe. A cominciare dalla sua esperienza come giocatore, dotato di talento e tecnica, ma con una salute fragile e soprattutto con una sensibilità incompatibile con il corpo a corpo che spesso esigono le battaglie sul campo. In un’intervista rilasciata a Repubblica nel 2000 (e riportata in appendice al volume), alla domanda di Antonio Gnoli “Le pesa dover ammettere che quello che lei immaginava di fare non si è realizzato per limiti tecnici?”, Clerici risponde: “Non tecnici, umani […] Tecnicamente sono stato un buonissimo giocatore, ma non avevo l’animo, diciamo la forza, la convinzione. Ero inadatto alla vittoria, perché la vittoria implica un atteggiamento bellico. Lo sport è, parafrasando von Clausewitz, la continuazione della guerra con altri mezzi”. Ecco, appunto.

Nonostante una carriera come giocatore non ineguagliabile, anche perché forzosamente interrotta anzitempo, il tennis è rimasto il filo conduttore della sua esistenza, come giornalista (o columnist, come lui stesso ama definirsi), come telecronista (nei panni del mitico “dottor Divago”, in tandem con Rino Tommasi), come autore di bellissimi libri (a cominciare dal quella straordinaria pietra miliare che è 500 anni di tennis), come collezionista, come membro privilegiato (unico italiano insieme a Pietrangeli), dell’ International Tennis Hall of Fame, ma soprattutto come prezioso testimone di varie generazioni di persone vincolate al mondo del tennis. Se, come diceva Alberto Moravia, ogni scrittore ha la sua chiave per interpretare il mondo, quella di Clerici è stata ed è senza dubbio il tennis, “un gioco del tutto internazionale, utilissimo per aprire gli occhi su costumi diversi, per riconoscere affinità, comunicare in tre o quattro lingue, insomma per smammarsi e arrivare a considerare il mondo come un intero villaggio”.

Il sottotitolo del libro è Storia della mia vita e di uomini più noti di me. Forse si potrebbe pensare a falsa modestia, al piccolo vezzo di un grande, ma non lo è. Gianni Clerici è ben cosciente dell’importanza che ha il suo nome nella storia del tennis (il che non sembra affatto dispiacergli), ma dimostra sempre di non prendersi del tutto sul serio, di saper vedere la realtà attraverso il prisma dell’ironia e, soprattutto, dell’autoironia. Come tutte le persone davvero intelligenti.

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