Jared Donaldson: il tennis USTA dal volto umano

Jared Donaldson
di Salvatore Greco

Il sole della Florida, batterie di ragazzini con il berretto sparsi su dozzine di campi in cemento a colpire palline da fondocampo, allenatori in occhiali da sole che osservano, insegnano e correggono, un anziano uomo abbronzato che guarda da una finestra o si aggira per i campi. Può darsi che la biografia di Andre Agassi abbia un po’ condizionato l’immaginazione collettiva degli appassionati di tennis, ma quando si parla di giovani tennisti americani è quasi inevitabile che nella mente di molti di noi si prospettino immagini del genere; e in fondo la realtà non è così distante da un simile quadretto: la crescita di un ragazzo che ambisce a fare il tennista negli States di solito parte da lì, dalle prestigiose Academy che allenano i ragazzi, li introducono nel vischioso mondo dei tornei juniores USTA e li preparano al college dove un buon curriculum sportivo è spesso il miglior viatico per l’ammissione e dove, chi ne ha le carte, può mitigare nelle squadre universitarie il passaggio al professionismo. Esiste insomma una sorta di solco segnato, un manuale della formazione tennistica a stelle e strisce quasi esclusivo, come se la via dei pro’ passi per forza da lì, academy-college-professionismo.

Eppure uno dei più promettenti ragazzi statunitensi, numero 174 delle classifiche ATP e quarto in una virtuale classifica mondiale dei classe ’96 dietro solo Coric, Chung e Kokkinakis, è un giovane tennista che il percorso dell’Academy l’ha tentato da giovanissimo, salvo rinunciare subito perché non faceva per lui e al college ha scelto coraggiosamente di rinunciare per concentrarsi sul professionismo da subito al cento per cento, consapevole di tutti i rischi che la cosa avrebbe comportato. Il suo nome? Jared Donaldson.

Jared DonaldsonI più attenti ai giovani rampanti dei circuiti pro’ lo avranno notato come trionfatore nel challenger hawaijano di Maui di due settimane fa, altri magari si ricorderanno di lui per averlo visto esordire da wild card  allo scorso US Open con una sconfitta al primo turno (comprensibilmente) netta da Gael Monfils. Spinti da questi exploit mediatici e da qualche segnale di storia accattivante sulla rete, siamo andati a cercarlo per fargli qualche domanda sulla sua storia e il suo approccio al tennis. Nessun mito fondativo da salvatore della patria tennistica né padri baciati dal sacro fuoco per Donaldson, che ci racconta di come il tennis nella sua vita ci è entrato quasi per caso: “L’estate dei miei quattro anni andavo ogni giorno in un villaggio vacanze, io e mia sorella andavamo a giocare in piscina mentre i nostri genitori si rilassavano, un giorno mi avvicinai ai campi da tennis e scoprii che c’erano gruppi di bambini che giocavano in vari turni, mi fecero provare e rimasi lì per quattro ore di fila e il giorno dopo lo stesso. Alla fine della settimana mia madre notò che chiedevo di andarci ogni giorno e che quando un gruppo finiva per andare in piscina io restavo per continuare anche con gli altri due, così capì che mi piaceva davvero ed è iniziato tutto così”. Ed era forse inevitabile che iniziasse tutto così, casualmente, visto che la famiglia Donaldson vive da sempre lontana dagli assolati paradisi del tennis americano, centinaia di chilometri a nord da quella Florida dove pare si trovi un campo da tennis in ogni quartiere, vale a dire nel piccolo stato del Rhode Island, famoso per gli splendidi colori del suo autunno, tanto poetico quanto poco adatto, nel suo clima rigido, alle attività all’aperto.

Il percorso tennistico “ribelle” di Jared parte proprio da lì, dai campi coperti del freddo nord-est  dove lo sport più amato –per capirci- è l’hockey, e continua con scelte coraggiose che danno il segno dell’intelligenza e della determinazione del ragazzo che già da giovanissimo dimostrava una certa lungimiranza: “Per anni ho giocato quasi sempre indoor sviluppando un gioco molto offensivo. Quindi avevo bisogno di migliorare il mio gioco di difesa, i miei movimenti e l’abilità di giocare da fondo e tenere gli scambi lunghi. Ho provato a frequentare un’Academy in Florida quando avevo 13 anni, ma non sembrava darmi l’attenzione al gioco di cui avevo bisogno e quindi ho rinunciato presto.  Il mio coach in Rhode Island veniva dalla Colombia  e un giorno, mentre eravamo all’Orange Bowl, abbiamo incontrato un ragazzo colombiano che conosceva, che si stava allenando in Argentina e che mi ha raccontato di come si trovava bene. Poi ho conosciuto un altro coach al mio club che veniva dall’Argentina e ha dato a mio padre alcuni contatti e così, una cosa tira l’altra, un mese dopo ero in viaggio per Buenos Aires”.  Cambiare stato e lingua sarebbe coraggioso per qualsiasi quattordicenne, a maggior ragione per un ragazzo cresciuto, letteralmente, nel cuore del mondo culturalmente egemone, ma dalle parole di Donaldson si intuisce una significativa maturità nel focalizzare gli obiettivi: “È stata una grande esperienza. Lì c’è una grande cultura tennistica e quindi è stato facile ambientarsi per giocare. Ci sono molti circoli e tennisti a Buenos Aires quindi pure trovare qualcuno con cui giocare era sempre facile. Ho lavorato lì con un coach, Pablo Bianchi, per due anni e mezzo da quando ne avevo 14 fino ai 16 e mezzo. È stato divertente, ho conosciuto un sacco di gente interessante e imparato molto sul tennis da terra battuta. Il cambio di superficie ha aiutato molto il mio gioco e mi ha reso un giocatore molto più completo”.

Il salto dei classici circuiti USTA gli è stato decisamente utile a livello di preparazione tecnica tanto che, rientrato negli Stati Uniti nell’estate del 2013, omaggiato di una wild-card per i campionati nazionali americani under-18 a Kalamazoo, il sedicenne Donaldson si è spinto fino alla finale, poi persa contro Collin Altamirano (per la cronaca, oggi n.750 ATP) all’inizio di un’estate coronata dalla partecipazione al tabellone di qualificazioni allo US Open con il main draw mancato di un soffio e prestazioni sufficienti a impressionare, e non poco, alcuni spettatori di spicco tra cui Brad Gilbert e, soprattutto, Taylor Dent. “Sono tornato negli Stati Uniti principalmente perché mi mancavano la mia famiglia e i miei amici” racconta con sincerità “ma anche perché volevo riprendere a lavorare sul servizio e migliorare i colpi di chiusura a rete. Per cui nel novembre del 2013 mio padre ha preso contatti con Taylor Dent che mi ha proposto una prova per un mese, da lì è andato tutto molto bene e siamo rimasti assieme, è un aiuto prezioso per me; lavoro Taylor Dent, Jared Donaldson, Roger Federer e Severin Luthicontemporaneamente anche con Alejandro Kon, il coach che mi segue dall’Argentina e che viaggia con me per i tornei. È un buon team, sono molto contento”. La ciliegina sulla torta del suo 2013 è poi arrivata a dicembre quando, grazie alla fresca collaborazione con Dent, è arrivata la possibilità di allenarsi per tre settimane a Dubai assieme a Roger Federer, un’esperienza che Donaldson racconta così: “È stata un’esperienza incredibile, ero molto nervoso, Taylor era venuto con me e ricordo che il primo giorno abbiamo dovuto aspettare un po’ il suo arrivo, mi sono riscaldato bene con Taylor per essere pronto quando sarebbe arrivato. Non so bene cosa mi aspettavo, ma quando l’ho visto arrivare e salutare mi sono sentito molto rilassato. Roger ha una grande personalità, ma è anche molto facile parlarci, è un tipo amichevole. Mentre ci allenavamo era  esattamente come l’ho visto agli US Open le volte che ci sono potuto andare, concentratissimo, ma durante le pause o dopo l’allenamento era una persona molto alla mano, ci potevo scherzare e parlare di tutto. Ho anche imparato molto guardandolo giocare. Non c’è nessuna attesa nel suo gioco, se ha l’opportunità di fare un punto, prende il controllo e ti schiaccia. A quel livello il tennis è molto aggressivo e devi essere pronto e reattivo se non vuoi finire annichilito dal gioco dell’avversario. Quelle tre settimane mi hanno aiutato molto e ora sto provando a giocare in quel modo, ma non è facile, Roger colpisce la palla così in anticipo che è difficile giocare i punti con lui e come lui. È davvero il tennista più grande di tutti i tempi oltre che una persona splendida”.

Il 2014 per Donaldson è stato l’anno della svolta, un’annata di buoni risultati a livello ITF e una costante crescita del livello di gioco che l’ha portato in estate a vincere tre titoli Futures di fila (Turchia F19, USA F15 e USA F17) e alla decisione –difficile, ma consapevole- di non andare al college: “Sono convinto che sia stata la decisione giusta per me, anche se mi rendo conto che altri potrebbero non pensarla così. Io e la mia famiglia abbiamo deciso assieme che avremmo valutato tutte le opzioni fino al momento di dover scegliere. Fino alla scorsa estate pensavo che sarei andato al college almeno un anno, avevo ricevuto diverse offerte da alcune squadre proprio con l’opzione di un solo anno dopo di che avrei potuto lasciare per andare a giocare da professionista e tornare poi per finire liberamente gli studi. Era un’offerta molto buona, ma il tennis professionistico è sempre stato il mio vero sogno. Così ho parlato con mio padre e abbiamo valutato che, essendo già oltre il livello dei Futures, ero pronto per passare professionista e avrei potuto saltare il college. Non avrebbe avuto senso giocare a livello universitario anche solo per un breve periodo. L’anno scorso ho vinto tre tornei Futures, due settimane dopo gli US Open ho raggiunto la semifinale in un Challenger (a Napa, sconfitto da Smyczek in tre set n.d.r.) e avevo ancora un anno di scuola superiore davanti così abbiamo deciso di fare in questo modo.  Adesso sto completando il liceo e da giugno mi dedicherò al tennis a tempo pieno, penso che sia la cosa  più giusta da fare”.

Jared Donaldson e Stefan KozlovUna scelta coraggiosa e soprattutto condivisa con la famiglia che ha portato altri frutti, come il torneo Challenger di Maui conquistato la scorsa settimana, in doppio con l’altro astro nascente del tennis USA Stefan Kozlov, ma anche in singolare. Esperienza significativa per lui anche se emotivamente difficile da comparare all’esordio in uno slam:  “Quella di Maui è stata una grande settimana per me, sento di avere il livello giusto adesso, ma avevo lavorato su così tante cose che non ero sicuro che tutto sarebbe andato a posto. È stata una bella soddisfazione vincere il torneo, ma giocare con Gael nella sessione serale sul Grandstand di New York sotto gli occhi di 7.000 persone è stata una cosa mai provata prima. L’energia che viene da quell’atmosfera era una cosa che non avevo mai nemmeno immaginato, ma ora voglio lavorare duro per poterla provare di nuovo. È davvero indescrivibile. Ho perso ovviamente, ma ho sentito di aver giocato bene, ho sentito di non essere ancora a quel livello –certo- ma che potrò arrivarci un giorno. Mi ha dato l’ispirazione a lavorare duro e fare le cose giuste per tornarci.  Per cui Maui è stato certamente più fruttuoso, ma giocare un torneo del grande slam è stato eccitante e mi ha fatto assaporare quello che sarà in futuro”.

Parole che sembrano dire molto sulla solidità mentale di un ragazzo che ha chiari i suoi obiettivi, se un esordio slam con batosta porta con sé entusiasmo più che paura e frustrazione, vuol dire che la forzaSul piano tecnico il ragazzo appare molto ordinato, ma non spicca per qualche colpo particolare “amo molto il rovescio lungolinea, anche se il colpo che mi riesce meglio probabilmente il diritto incrociato in corsa” e la sua preparazione eclettica fa sì che sia in grado di adattarsi alle diverse condizioni di gioco, lenti o veloci che siano i campi su cui si confronta. “La terra è ovviamente la superficie con cui ho più confidenza, ci ho giocato per due anni e mezzo, ma non voglio pensare di sentirmi migliore sui campi in terra, voglio entrare nella condizione mentale di poter essere competitivo su tutte le superfici, un gioco vincente dev’esserlo su terra, cemento ed erba, senza esclusione.

Mentre scrivo, Jared Donaldson è tornato in California per allenarsi in vista dei tornei di Indian Wells di Acapulco dove tenterà le qualificazioni dopo aver perso al primo turno di quelle del torneo di Delray Beach e con un occhio ancora più lontano. “Potrebbe sembrare una cosa banale da dire, ma voglio vincere ogni partita che giocherò e potrò farlo solo lavorando sul mio tennis e cercando di imporlo match dopo match, per me ora è importante non pensare troppo al ranking. Devo consolidare ancora molte cose e l’essenziale è avere sempre gli occhi sulla pallina e la mente fissa sulla mia evoluzione. Penso che mi serviranno almeno quattro anni perché risulti davvero vincente. È dura perché quando cambio qualcosa o provo un colpo diverso durante una partita è rischioso, ma alla lunga distanza questa strategia pagherà. Per ora cercherò di alternare tornei Challenger e qualificazioni dei tornei ATP, ovviamente quelle in cui riuscirò a entrare con la mia classifica, ma spero di poter giocare quelle dei tornei dello slam. Comunque dopo Indian Wells ho in programma tre challenger su terra in America e poi mi sposterò in Europa”.

Dimostra intelligenza da vendere questo diciottenne del Rhode Island, e le sue parole suonano sincere e decise, tipiche di un ragazzo giovane e che vede il mondo davanti a sé come una terra di conquista, ma anche ben consapevole delle difficoltà  che incontrerà e del lavoro che servirà per raggiungere i suoi obiettivi. La lucidità di Donaldson e la sua attenzione mirata su quello che ancora dovrà fare e non su quello che ha già fatto potranno essergli preziose. Se diventerà un campione, non credere di esserlo già adesso sarà una componente importante per questo processo. Questa serenità la dimostra anche nelle cose semplici che ama, Jared, che nel tempo libero esce con gli amici, con la ragazza o con altri tennisti e raggiunge quando può la sorella minore, a cui è molto legato,  che pratica equitazione e quindi è anche lei spesso in giro per competizioni ed esibizioni. E ci tiene a sottolineare che la figura a cui si ispira “è Muhammad Alì. Ha lavorato duro, è stato un vincente e ha ottenuto il massimo, c’è una sua frase che amo molto e che dice ‘Una persona che vede la vita a 50 anni come la vedeva a 20 ha perso trent’anni della sua esistenza’”. Un motto curioso per un diciottenne, ma -a maggior ragione- se saprà gestire la sua crescita sempre con questa consapevolezza, di Jared Donaldson sentiremo parlare a lungo.

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