Rafa c’è… ma non si vede!

Lo avevamo lasciato a Washington, cinque mesi fa. Dopo aver impiegato oltre tre ore per piegare la strenua resistenza di Jack Sock, Rafa Nadal si lasciava scavalcare da un mellifluo pallonetto del sudafricano Harris prima di fermarsi e pagare il conto a quel fisico che difficilmente ha occhi di riguardo. Per nessuno. Con la morte nel cuore aveva rinunciato a Wimbledon e ai Giochi Olimpici, con il dichiarato obiettivo di “allungare la stagione sul cemento americano di una settimana”. Si riparte? Neanche per sogno. Il piede sinistro non dà tregua. Altro giro, altra conferenza. “Non è la notizia che volevo dare ma ho un dolore che non mi consente di gareggiare. Non posso giocare come vorrei, non posso lottare”. Addio, Toronto. Anzi. Addio 2021.

Rafa torna a Manacor. Terapie, impegni istituzionali con sponsor e accademia, giri in barca nelle sue amate Baleari. Se c’è una cosa che negli anni allo spagnolo non è mai mancata è la capacità di saper accettare i momenti bui. Quando era piccolo, zio Toni gli diceva sempre: “Gli ace dell’avversario sono come la pioggia, non puoi farci nulla. Prima o poi, passano”. Nadal manda giù anche questo stop. Gli allenamenti riprendono, un passo dopo l’altro. Il piede fa male ma meno che ad agosto. Al rientro del torneo-esibizione di Abu Dhabi, come se non bastasse, anche la positività al maledetto Covid-19. Qualche giorno più tardi eccolo, il post su Instagram. Una foto sorridente sulla Rod Laver Arena accompagnata dalla frase: “Non ditelo a nessuno, sono qui”.

Nadal c’è… ma non si vede! Da qualche giorno tiene banco il caso Djokovic, un pastrocchio dove è quasi impossibile individuare colpevoli e innocenti. Si susseguono comunicati, visti concessi e revocati, una guerra tra fazioni che con lo sport a poco a che fare. E che fa male a tutti. Nel 2015 lo spagnolo aprì la stagione sul veloce di Doha, perdendo in tre set con il tedesco Michael Berrer. Da allora non ha più mancato alcun appuntamento con “la prima”, ripetendosi all’inizio del mese con il lituano Berankis. Se è vero, come è vero, che il termometro del gioco del maiorchino è la profondità del dritto allora non ci siamo. Comprensibile. Arrivano altre vittorie in due set: in semifinale con il finlandese Ruusuvuori e in finale con Maxime Cressy, una delle più belle sorprese di questi primi scampoli dell’anno. Sono 89, Rafa. Almeno uno in diciannove stagioni diverse. Uno in più di Roger Federer e Andre Agassi, fermi a diciotto. “Vincere è sempre speciale, qualunque sia il titolo. In fin dei conti è un altro tassello per il mio Curriculum Vitae”.

Iniziano gli Australian Open. Non c’è Novak Djokovic, costretto al ritorno in patria. Medvedev fa la voce grossa. Anisimova, fresca di collaborazione con Darren Cahill, sorprende Bencic e si regala Osaka. Zverev avanza a testa bassa, così come l’uragano Badosa. E Rafa? Bene, grazie. All’esordio 6-1 6-4 6-2 a Marcos Giron, poi 6-2 6-3 6-4 al tedesco Hanfmann al secondo turno. Ora c’è Khachanov. La reattività non è, e probabilmente non sarà più, quella dei tempi d’oro. Quella del 2009, per capirci, quando su questi campi collezionava oltre nove ore in tre giorni regalando spettacolo con il connazionale Fernando Verdasco e con Roger Federer in finale. Il tennis cambia, si evolve e anche i mostri sacri prima o poi devono arrendersi alla teoria di Darwin. L’antropologo britannico non faceva ‘serve & volley’ ma quanto a capacità di adattamento la sapeva lunga. Sarà un anno intenso per Rafa, con tornei da selezionare ed energie da centellinare. Dal suo primo ed unico major “down under” sono passati tredici anni. Cosa è successo, nel frattempo, lo sappiamo. Attenzione, allora. Perché sebbene se ne parli poco, Nadal c’è. Non si vede, ma c’è.

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