La seconda vita di Ryan Harrison


Le Wetlands della Louisiana sono un gigantesco intrico di canali, paludi e foreste di palme e cipressi che si estende attorno e ben oltre il grande estuario del Mississippi. Bayou, il nome creolo delle wetlands, vuol dire “tortuoso”. Da quelle parti, precisamente a Shreverport, il 7 maggio 1992 nasceva Ryan Harrison, uno che sui sentieri tortuosi potrebbe scriverci un’enciclopedia. Oggi. A soli 24 anni.
Da buon enfant prodige è partito di corsa, è esploso, si è fermato, ha ribaltato tutto e tutti, è ripartito e ha vinto. Lo ha fatto a Memphis, la scorsa settimana. Il suo primo titolo ATP.
Ha 3 anni quando per la prima volta stringe fra le mani una racchetta giocattolo e una pallina di spugna. Regalo di papà Pat, ex discreto giocatore a livello Challenger e primo allenatore del piccolo Ryan. Nel 2005 la famiglia si trasferisce a New Braunfels, in Texas, dove “Harry” continua ad allenarsi presso la John Newcombe’s Tennis Academy prima di compiere il grande passo, tre anni dopo, raggiungendo Bollettieri in Florida. La carriera juniores dura un attimo, giusto il tempo di issarsi alla posizione numero 7 del ranking e di raggiungere le semifinali agli Open di Australia nel gennaio del 2008. Si perché appena qualche mese dopo, sulla terra battuta di Huston, Ryan Harrison diventa il decimo giocatore nella storia del circuito (il terzo dal 1990 dopo Richard Gasquet e Rafael Nadal) a vincere un match ATP prima di aver compiuto 16 anni. Chiude la stagione da numero 742 e la chiude con la luce dei riflettori addosso. Quella dei riflettori americani, però, è una luce subdola. Fioca all’inizio, poi accecante all’improvviso. Non il miglior viatico all’inizio di un percorso, specie se tortuoso.
Alla fine del 2009, anno in cui si aggiudica il suo primo Future, è numero 364 del mondo.
Nel 2010 arriva la prima vittoria in un torneo dello Slam. Il primo turno degli Us Open è l’occasione giusta per prendersi la rivincita sul croato Ivan Ljubicic, che lo aveva battuto pochi mesi prima sul cemento californiano di Indian Wells. A Flushing Meadows Harrison sfodera le sue armi migliori in mondovisione: servizi bomba e dritti al fulmicotone. Troppo anche per Ljubo, costretto a cedere in quattro set (6-3 6-7 6-3 6-4). I paragoni con le grandi leggende del tennis a stelle e strisce ora si sprecano e uno come lui, nei panni dell’erede designato, inizia a starci stretto. L’anno successivo, ad Atlanta, raggiunge la sua prima semifinale ATP, perdendo da Mardy Fish. Il muro della top 100 è finalmente abbattuto e a fine anno, dopo la sconfitta con Djokovic a Cincinnati e due importanti vittorie con Hanescu e Troicki entra nei primi ottanta giocatori del mondo.
A luglio del 2012 è best ranking (n.43) e si inizia a parlare di processo di maturazione completato. Troppo facile, per chi viene dalle wetlands. Da lì in poi, infatti, è un crollo totale con solo due buone prestazioni nella parte finale dell’anno. Le stagioni 2013 e 2014 si rivelano decisamente al di sotto delle aspettative, con 34 sconfitte e sole 16 vittorie nel circuito maggiore, oltre alla separazione dal suo storico coach Grant Doyle (una rottura pacifica, legata non tanto a problemi di risultati, quanto al fatto che Doyle avesse ricevuto un’offerta irrinunciabile) e l’inizio di un rapporto professionale con la USTA e Jay Berger. Lo stesso Harrison ricorda la sconfitta al secondo turno del Sony Open di Miami con Benjamin Becker (7-6 al terzo) come il punto più basso di questo periodo: “Ero troppo insicuro di me stesso, della mia carriera, mi preoccupavo del giudizio altrui, dei media, di tutte quella cose che non procedevano in una giusta direzione. Invece di leggere tutti gli articoli positivi, mi concentravo sull’unico negativo e quella critica riusciva ad influenzarmi talmente tanto da farmi cadere in preda al panico”. Ah, i riflettori americani. Basta perdere qualche match di troppo o sbagliare una stagione per ritrovarsi contro tutti e passare dal trono al banco degli imputati. E la Corte Suprema dello Zio Sam ha la mano pesante. Nell’indagine sui reali limiti di Harrison, molti hanno puntato il dito su una cattiva gestione da parte dell’USTA (e la conseguente mancanza di un coach fisso), accusa che Harrison ha sempre rispedito al mittente: “La USTA e Jay Berger hanno fatto tutto il possibile per aiutarmi. Stava a me migliorare”. E’ del novembre del 2014 la scelta di tornare in Texas e di circondarsi del suo vecchio entourage con l’aggiunta di un nuovo, fondamentale componente: Andy Roddick. E’ stato l’ex kid del Nebraska a consigliare ad un sempre più sfiduciato Harrison di riassumere Doyle e di prepararsi ancor più duramente nell’off-season. I frutti del lavoro del nuovo Harrison 2.0 si fanno sentire e la semifinale di Acapulco, dopo avere sconfitto giocatori del calibro di Donald Young, Ivo Karlovic e soprattutto Grigor Dimitrov (prima vittoria su un top 10 dopo ben 22 sconfitte consecutive) sembra finalmente aver riconsegnato al mondo del tennis, soprattutto quello americano, la giovane promessa in cui tutti avevano riposto le loro speranze. Ancora una volta, però, tutto questo non è bastato. Serviva una nuova caduta, oltre alla maledetta sensazione di accarezzare un nuovo fallimento prima di riuscire a tornare a galla. La scorsa estate, lontano dai primi 150 al mondo e fuori alle qualificazioni a ‘s-Hertogenbosh e Wimbledon (pur essendo l’erba la sua superficie preferita), l’idea era quella di fermarsi fino al termine della stagione. Nossignore. Il suo nuovo coach, Peter Lucassen, non glielo ha permesso. Ancora una volta si doveva reagire, lottare e lavorare. Due vittorie a Washington, due a Toronto e altre due agli US Open (cinque, considerando anche i tre match di qualificazione) dove è arrivata la sua miglior vittoria in carriera contro Milos Raonic. Braccio e testa hanno ricominciato a girare. La vittoria al challenger di Dallas, insieme al primo storico successo nell’ATP 250 di Memphis sono tutte figlie dell’Harrison 3.0, un ragazzo che è ripartito da se stesso resettando tutto ed eliminando definitivamente il cocktail letale di pensieri negativi. “Ho imparato ad accettare di non essere dove vorrei, ma di poterci arrivare. I risultati ottenuti da giovanissimo avevano iniziato a pesarmi, ma le persone che mi stanno attorno mi hanno aiutato a vedere quelle esperienze in maniera positiva, e la mia mentalità è cambiata. Ora voglio concentrarmi giorno dopo giorno e continuare a vincere”. Lucassen (e il nostro Davide Sanguinetti) dovranno darsi da fare per cercare di trovare un piano B, alternativo al più classico dei “servizio e dritto”. Difficile che un solo titolo riesca a cambiare le cose, ma a questo Harrison non si può non dare fiducia. In un vecchio bar nella periferia di Shreverport, dove la musica di un sassofonista solitario può cambiare il senso di una giornata, qualcuno ha ricominciato a suonare. E questa volta sembra davvero non avere alcuna intenzione di smettere.

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