Francesco Forti si racconta dopo l’infortunio: “Il sogno era vicino, ora voglio riprovarci”

Il tennis dà tanto, ma chiede tutto, e quando per un anno sei costretto a fermarti, ti rendi conto che quello che resta, spesso, non è un punto in classifica ma le persone che ti stanno accanto. Francesco Forti è ripartito da lì: dalla famiglia, dagli amici. Perché nel periodo lontano dai campi, ha avuto modo di recuperare qualcosa che il tennis gli aveva tolto: il tempo dell’adolescenza, i momenti condivisi, la vita fuori dal rettangolo di gioco.

Romagnolo, classe 1999, cresciuto nei campi di Cesenatico, ha cominciato a giocare per divertimento. La svolta è arrivata dopo il primo anno di liceo, quando ha lasciato casa per trasferirsi a Foligno, in uno dei centri federali periferici. Allenamenti seri, costanza, nuove regole. È lì che ha imparato la professionalità. Poi, attorno ai 17 anni, la chiamata di Tirrenia. Poco dopo, il debutto nei tabelloni degli Slam Junior. Lì è cambiato tutto. Francesco ha iniziato a credere di poter diventare un giocatore vero.

Tirrenia lo ha formato, ma anche messo alla prova: un posto dove si lavora tanto, si sogna tanto, ma si vive poco la “normalità”. È il prezzo da pagare quando si sceglie questa strada. Nel 2023 è arrivato vicino al suo sogno ovvero le qualificazioni Slam, con il best ranking di numero 303 del mondo. Il sogno non era mai stato così vicino, mai così concreto. Poi il lungo stop: un doppio edema osseo ai piedi lo ha tenuto fuori dai campi per mesi. Ha pensato di mollare, ha guardato oltre, si è messo in discussione. Ma in quel periodo di pausa ha capito una cosa: l’unica cosa che ama davvero fare è giocare a tennis. Nel 2025 è tornato. Ha vinto un torneo, ha ritrovato buone sensazioni, ha voglia di ricominciare. E di riprendersi quel sogno che oggi, anche se più lontano, sente di nuovo possibile.

Come ti sei avvicinato al tennis, e cosa ti ha fatto innamorare di questo sport?
“Mi sono avvicinato al tennis in modo un po’ particolare, in Romagna si gioca tantissimo a beach tennis, poi un giorno con mio padre siamo andati al circolo a Cesenatico e provai. Avevo 4/5 anni, giocavo perché mi divertiva. Poi sono cominciati i primi tornei, non ero tra i più forti, giocavo bene, ma c’erano ragazzi molto più avanti. La svolta è arrivata dopo il primo anno di liceo, quando la Federazione mi ha offerto l’opportunità di andare a Foligno in uno dei centri periferici, da quel momento è iniziato un percorso diverso: allenamenti più seri, più costanti, più professionali. È lì che è cambiato tutto.”

Quando hai capito che il tennis poteva diventare il tuo lavoro, la tua strada?
“Probabilmente il momento in cui ho capito che poteva diventare qualcosa di più di una passione è stato all’età di 17-18 anni, quando sono riuscito a giocare in tabellone in tutti e quattro gli Slam Juniores. Lì ho capito che qualcosina di buono potevo farla. In quel periodo c’è stato un altro cambiamento verso l’alto, da Foligno sono passato a Tirrenia. È lì che ho capito davvero di voler fare del tennis il mio lavoro. Nei due anni successivi sono arrivati anche i primi risultati: a livello ITF, qualche vittoria a livello Challenger e ho iniziato a essere consapevole di poter diventare un giocatore.”

Hai parlato di Tirrenia, un capitolo fondamentale per te. Cosa ti porti dietro da quell’esperienza, sia come giocatore che come persona?
“È stata un’esperienza molto interessante. Non ho mai trovato un altro posto dove ci si possa allenare in quel modo. Hai tutto: campi in più superfici, palestra, preparatori atletici, allenatori, psicologo, fisioterapisti. È il luogo perfetto per migliorare sotto ogni punto di vista, con uno staff qualificato che ti supporta ogni giorno. L’unico aspetto critico, soprattutto in fase adolescenziale, è che Tirrenia è leggermente isolata. Poco svago, ci si distrae poco, tutto è concentrato sull’allenamento e sulla performance. Però mi porto a casa un’ottima esperienza e ottimi ricordi. Soprattutto per le persone che mi hanno seguito, e per le amicizie che sono nate lì, alcune delle quali durano ancora oggi. E quella è una cosa molto bella.”

Hai lavorato negli anni con diversi allenatori, in contesti diversi. Quali sono gli insegnamenti più importanti che ti hanno lasciato?
“Penso che ogni allenatore, a modo suo, lasci sempre qualcosa dentro un giocatore. Ognuno ha il suo stile, il suo modo di pensare. I primi quattro anni, a Foligno, ho lavorato con Antonio Canavacciuolo, mi rattrista molto che oggi purtroppo non c’è più, grazie a lui ho imparato cosa vuol dire essere professionali. Non avevo idea di come si gestisse davvero la vita da atleta: dalla giornata tipo, all’alimentazione, a tutto ciò che serve per stare bene e rendere. Poi ho lavorato con Claudio Galoppini e successivamente con Gabrio Castrichella. Quelli sono stati forse gli anni più importanti dal punto di vista dei risultati e delle esperienze: ho giocato tantissimo, sono passato dagli ITF ai Challenger, ho vinto i miei primi titoli, anche in doppio. Era tutto più concreto. Con Gabrio c’era anche un bel rapporto fuori dal campo: condividevamo tante passioni. Sono cose che vanno oltre il tennis e che rendono più bello e piacevole girare insieme. Quando un allenatore ti segue per 20 settimane l’anno, diventa quasi una figura genitoriale. Ti lascia pensieri, idee, un’eredità personale. E questo, secondo me, vale più di tante altre cose. Se guardo indietro, forse l’unico rimpianto vero è legato proprio a quel periodo a Tirrenia. Nonostante io sia sempre stato uno che dà il massimo in tutto, penso anche che avrei potuto fare di più. Soprattutto negli ultimi anni con Gabrio sentivo di avere il livello per salire ancora, ma sono stato frenato da blocchi mentali miei. Giocavo bene, ma ho raccolto troppo poco.”

Il 2022, è stata una fase di transizione. Ti sei staccato da Tirrenia, sei tornato vicino casa e hai ricominciato da lì.
“Sì, il 2022 è stato un anno particolare, di cambiamento. I progetti federali stavano cambiando, e il mio percorso a Tirrenia era giunto al termine, duro lasciare una realtà che mi dava forza e che conoscevo benissimo, per di più ero reduce anche da due infortuni: uno alle costole, ad inizio anno che mi ha tenuto fermo qualche mese, e poi, una lesione alla cartilagine del polso giocando il doppio con Flavio Cobolli al Foro Italico. Così mi sono avvicinato a casa, a Cattolica, alla Galimberti Tennis Academy. Mi sono trovato subito bene, e ho deciso di trasferirmi lì.”

Nel 2023 è arrivata la risalita, con il tuo best ranking. Come hai vissuto quel periodo?
“Ero partito da circa 500 Atp. Ero felice: avevo ritrovato casa, gli amici, la mia ragazza, la mia famiglia. Dopo tanti anni fuori, avevo ritrovato un po’ di serenità. E quello mi ha aiutato tanto. Sicuramente il contesto più familiare a Cattolica mi ha fatto bene. Ho trovato un ambiente diverso, meno rigido, più vicino a me. E da lì sono arrivati i risultati. Ho iniziato la stagione subito bene, con una vittoria in singolare, e pian piano sono risalito. A livello Challenger ho fatto il mio miglior risultato in carriera: quarti a Olbia, in un 125. Il 2023 è stato l’anno del best ranking, 303. Il mio obiettivo era avvicinarmi alle qualificazioni Slam, che non ho mai giocato. Ci ero molto vicino, bastava forse un altro buon risultato.”

Poi è arrivato l’infortunio ai piedi. Ti chiedo di raccontarmi nel dettaglio cosa è successo.
“È accaduto nel mio momento migliore. Avevo finito il 2023 super carico, sereno, positivo. Ero al best ranking, giocavo bene. Però negli ultimi mesi dell’anno avevo giocato tanti tornei su cemento e questo ha provocato un sovraccarico su entrambi i piedi. Mi è uscito un edema osseo, su due ossicini sotto al primo metatarso dell’alluce. Il problema per vari motivi è stato inizialmente sottovalutato ma progressivamente il dolore è aumentato sempre di più, fino a diventare insopportabile. Ho rifatto esami, risonanze, e alla fine ho scoperto di avere edemi ossei sotto entrambi i piedi il cui recupero può durare tanto. Mi sono sottoposto a ogni tipo di terapia: magnetoterapia, infiltrazioni TRT, antidolorifici, camera iperbarica, cambi di plantari e scarpe. A un certo punto ho capito che dovevo fermarmi davvero. Ho smesso a luglio 2024, cercando di scaricare il peso dalla zona dolorante. Il plantare ha aiutato, e con il riposo le cose sono migliorate. Ogni tanto mi illudevo, stavo meglio, un giorno in allenamento con Luca Nardi pensavo di esserci. Poi il lunedì successivo ho risentito il dolore fortissimo. E lì ho cominciato a dubitare davvero. Avevo già fatto tutto: riposo, terapie e non era cambiato nulla. Giacomo Dambrosi, un giocatore del 2001 molto forte che ha lo stesso problema, non è mai riuscito a rientrare del tutto. In quel momento avevo perso tutto quello che avevo costruito: i punti, il ranking, le certezze. Dovevo ripartire da zero, di nuovo, per la seconda volta, è stato difficile. A 26 anni, le chance iniziano a ridursi. E fa male pensare che il sogno di giocare gli Slam da pro potesse naufragare. Adesso sto meglio, ogni tanto sento ancora fastidio, ma gestibile. Allo stesso tempo, però, in quel periodo ho riscoperto tante cose. Gli amici, la mia fidanzata, i nonni, la famiglia. Sono stato tanto a casa, facevo cose semplici che mi mettevano tranquillità ed allegria. Dentro di me, sapevo che prima o poi l’occasione di rientrare sarebbe tornata.”

Restando sulla famiglia, quanto hanno contato i tuoi genitori nel tuo percorso, sia come atleta che come persona?
“I miei genitori sono stati fondamentali. Senza di loro non avrei mai potuto giocare a tennis, quindi devo loro davvero tanto. Ho la fortuna di avere due genitori che si sono sempre messi in disparte dal punto di vista tennistico. Non sono mai stati invadenti, non hanno mai cercato di controllare la mia carriera o di intromettersi. Hanno sempre avuto fiducia nel mio percorso, e questo per me ha fatto la differenza. Poi, a livello personale, se oggi sono quello che sono è grazie a loro. Mi hanno trasmesso valori forti: rispetto, gratitudine, educazione. Hanno sempre cercato di insegnarmi prima a essere una brava persona, poi un atleta. E spero di esserlo diventato.”

Parlando con Jacopo Berrettini, mi ha detto una cosa molto forte: che era felice di stare a casa con la famiglia, ma sapeva che loro, pur contenti di averlo vicino, leggevano nei suoi occhi che non era davvero felice. Perché sapevano che era lì per obbligo, non per scelta. Ti ci rivedi? Hai vissuto qualcosa di simile?
“Sì, assolutamente. Mi ricordo tanti discorsi con mia madre, che ovviamente non mi vedeva sempre sereno, perché non erano più abituati ad avermi così tanto in casa. Dopo anni in cui sei sempre in giro, da solo, con i tuoi spazi, tornare a vivere a casa tutti i giorni non è facile. Si creano anche delle piccole tensioni. Ma al di là di tutto, quando una persona non sta bene, lo vedi negli occhi. E loro lo vedevano bene. Alla mia età, se puoi, stai in giro per il mondo a inseguire il tuo sogno. Stare fermo a casa per un anno, a non fare niente, non per scelta ma per necessità, è pesante.”

Nel 2025 finalmente sei tornato. Come stai? Come stanno andando questi primi mesi?
“Devo dire che ho iniziato con tanto entusiasmo, tanta voglia di giocare. All’inizio non è stato semplice, per ora non posso più allenarmi come facevo prima: devo limitare molto la parte atletica, soprattutto negli spostamenti. Nonostante questo, ho cominciato subito con un buon livello di gioco cosa che onestamente non mi aspettavo. Già dopo i primi tornei sentivo che il tennis che giocavo due anni fa stava tornando. Quello che ancora mi manca è la costanza fisica, quella che mi ha sempre contraddistinto. Però sono contento, ho vinto un ITF 15.000$ in Austria, e ora ho deciso di cominciare a usare il ranking protetto nei Challenger. Me ne rimane ancora qualcuno da sfruttare, e provo a riprendere da dove avevo lasciato. Adesso vediamo come si evolve l’estate. L’obiettivo è vincere più partite possibile, risalire in classifica e costruire le basi per un buon 2026.”

Hai parlato spesso del doppio: può diventare una strada?
“Ho sempre giocato bene in doppio perché mi piace. Nel 2023 ero arrivato a una buona classifica, 203, Atp. Anche con il doppio si può guadagnare bene e penso di avere le caratteristiche giuste: sono più tranquillo, si dividono emozioni e paure, ci sono meno scambi, si gioca tutto in pochi colpi e pochi secondi. Cercherò di mantenere insieme le due specialità e poi vediamo, non escudo questa soluzione se le cose non dovessero andare bene in singolare.”

Se potessi tornare indietro, cosa diresti al Francesco bambino che sognava di fare il tennista?
“Di andare a giocare a calcio! (ride). Perché per quanto sia bello, il tennis è uno sport pesante. Sei sempre da solo in campo, ed è molto più logorante rispetto a uno sport di squadra, dove ci si aiuta, dove ci sono i cambi. Nel tennis non puoi scappare: esci dal campo solo quando hai fatto l’ultimo punto, o vinci o perdi, ma finché sei lì, sei da solo con le tue emozioni e tutto ciò che ti circonda, il tennis ti mette proprio a nudo. Sei sempre costretto a un dialogo interiore continuo, sembra che parli da solo. A volte ci sentiamo tutti pazzi.”

Dove ti vedi tra due o tre anni, se tutto va come speri?
“Se tutto va come spero, senza infortuni vari, tra due o tre anni mi vedo nei primi 300 del mondo a lottare per una qualificazione slam. Sono abbastanza sicuro di questa cosa, perché so di avere quel livello lì e so di poter dare di più di quello che ho fatto fino ad adesso. Ho capito certe cose che ho sbagliato in passato e potrei cercare di non ripetere gli stessi errori, di cambiare un po’ la mentalità in certi momenti della partita e della stagione. Se invece torneranno i problemi fisici, valuterò altre strade.”

Un giorno, si spera il più lontano possibile, dovessi smettere di giocare, hai già pensato a cosa ti piacerebbe fare dopo?
“Sì, mi piacerebbe restare nel tennis, magari con un altro ruolo. Mi sono reso conto che mi piace il punto di vista dell’allenatore. Probabilmente ho sempre visto meglio il tennis da fuori che da dentro: quando gioco sono molto più condizionato da emozioni, mentre da fuori riesco a essere più obiettivo. Per questo ho deciso di iscrivermi al corso da maestro, è un percorso che sto portando avanti. Mi piacerebbe poter contribuire alla crescita di qualche giocatore, sarebbe bello trasmettere ciò che ho imparato.”

Come stai oggi, non solo come atleta ma soprattutto come persona?
“Oggi, onestamente, sto bene. Mi sono reso conto che nell’ultimo anno mi sono circondato di persone belle, credo che questa sia la cosa più importante: avere vicino persone che vogliono il tuo bene, che ti fanno stare bene. Perché alla fine, al di là del ranking, che tu sia numero 100, 500 o 1000 al mondo, quello che ti rimane davvero, quando smetti di giocare, è quello che ti sei costruito intorno. È stato molto bello, per esempio, che dopo la vittoria dell’ultimo torneo mi abbiano scritto in tanti, anche solo per un messaggio. Dopo tutto quel tempo fermo, ha significato tanto.”

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