Quando l’estate sul cemento Usa…

Pete Sampras e Andre Agassi

di Marco Mazzoni

Pete SamprasCielo grigio, estate scappata altrove. Il tempo a casa non scorre, e le ferie già volate via. Optare per un flashback di oltre 20 anni potrebbe apparire un’operazione nostalgia fine a se stessa, una perdita di tempo. Non sempre è così. Ricordare a volte è piacevole, e fa riflettere. Il navigare tra i ricordi in questi giorni finisce inesorabilmente per portarmi agli anni spensierati dello studio, quando alla mattina il riaprire i libri per preparare il prossimo esame dell’università era faticoso perché buona parte della notte la si era spesa di fronte alla tv. Birra fresca, qualche stuzzichino e tennis a go go, grazie ai tornei sul cemento USA. Una vera manna dal cielo, non solo per alimentare la fame perenne di tennis, ma anche perché la stagione sul “duro” americano era forse la più elettrizzante. Di tutte.

Parlo di fine anni 80, fino a tutti i ruggenti 90s. Anni in cui i grandi tennisti yankee dominavano il circuito, tanti e diversi, a dare il loro meglio proprio nei vari eventi casalinghi che si susseguivano senza soluzione di continuità per tutta l’estate. Un grande tennis, vario ed altamente spettacolare, nobilitato da enormi differenze portate in campo da campioni immortali (ed altri ottimi giocatori). Si andava dagli Ace e classe di Sampras alle risposte ed anticipi mortali di Agassi, passando per la sostanza di Big Jim Courier, la corsa e sapienza di Chang, le botte di Wheaton, il “vincere sporco” di Brad Gilbert, gli ultimi assalti di Jimbo Connors e di Super McEnroe. Pure qualche scorribanda dei vari Rostagno, Reneberg, Arias, Scott, incluse le ultime cartucce di “gentleman” Tim Mayotte. Anni in cui il ranking ATP era dominato dagli statunitensi, come certifica una classifica presa a caso del 29/7/91: 18 tennisti USA nei top 100, 10 nei primi 22, con il dominio di Sampras ed Agassi che stava solo per arrivare. Guardando come è messo oggi il gigante americano nel nostro sport viene più di un brivido…

Andre Agassi

Ma brividi veri mi travolgono se penso alle emozioni pazzesche che torneo dopo torneo ho provato in quelle bellissime estati e nottate di tennis. Oltre agli US Open, evento da sempre top, quasi tutti i  tornei “minori” come Washington, Los Angeles o New Haven, come gli oggi Master 1000 di Cincinnati e Open del Canada erano quasi sempre tra i migliori eventi della stagione per qualità pura del tennis prodotto; e soprattutto per quantità di emozioni. Dai primi turni alle finali pochi erano i match davvero scontati. C’era enorme competizione, con tantissimi protagonisti capaci di affacciarsi e provare il colpaccio. Anche qua, senza mettersi a comporre una statistica complessa e completa, basta scrutare a casaccio gli albi d’oro dei tornei USA di quel periodo d’oro per rendersene conto. Pescando a caso, nel 1988 da luglio a settembre si giocano negli USA oltre 10 tornei, e solo un giovanissimo Agassi riuscì a vincerne due, con altri successi di Muster, Lendl, Wilander, Becker, Connors… Tanta roba.

Il canovaccio non cambia negli altri anni: spettacolo a non finire, tanti i protagonisti in evidenza, tutti i migliori di fatto e qualità media dei match altissima. A cavallo tra fine ’80 e inizio ’90 ci furono grandi successi estivi per Edberg (che proprio sul duro USA divenne n.1 nel 1990), Chang, Sampras, Agassi, Korda, Krajicek, Ferreira, e molti altri. Dal 1993 in poi gli americani presero in parte il sopravvento in questo momento della stagione, nel pieno della loro magica epopea, ma spazio per altri ci fu sempre. Grandi tornei e grandi match grazie ad un grandissimo tennis, oserei dire mediamente il picco massimo di qualità mai toccata nell’era moderna del gioco.

Come fu possibile tutto questo? Semplice: il tennis era ancora uno sport “diseguale”. Il tour era animato da giocatori tra di loro assai diversi. Dai grandi battitori a chi rispondeva; dai serve & volley ai veri pedalatori del rosso, acerrimi pallettari capaci di sfinirti palla dopo palla, inclusi giocatori a tutto campo e picchiatori da dietro. Giocatori dotati di tecnica e fisici assai diversi, con attitudini diverse. Wimbledon chiudeva la breve stagione su erba, spesso fin troppo dominata da servizi bomba e grandi volleatori (ma quasi sempre con grande tocco di palla); appena prima si era chiusa la parte più consistente del tennis sul rosso, “sangue e area”, battaglie infinite all’ultima palla e battaglie eroiche. Sui prati troppo favoriti gli attaccanti/battitori; sul rosso troppo avvantaggiati i giocatori potenti/consistenti. Ecco che dopo Wimbledon arrivava il cemento americano, veloce sì ma non come i tappeti indoor o l’erba. Il “duro” di quegli anni era una superficie che il grande Rino Tommasi definiva giustamente “onesta”: non premiava troppo i battitori/volleatori, nemmeno deprimeva in modo eccessivo i grandi contrattaccanti. Con le condizioni di allora (incluso palle e corde) era forse la superficie ideale per garantire a tutti una chance di giocare al proprio meglio. Questo creava ogni settimana un mix spettacolarmente esplosivo di qualità, a produrre centinaia di match di qualità Patrick Raftersuperlativa e con grande spettacolo. Ce n’era veramente per tutti: da chi amava il S&V puro a chi invece si esaltava per le rincorse più disperate a castigare con lob e passanti gli spericolati artisti di volo. Difficile elencare i match più belli, ne ho vissuti troppi e farei un torto non citandone abbastanza… Ve ne lascio solo una manciata, i primi che mi vengono in mente: la finale pazzesca di US Open 1988, quando Mats Wilander andò oltre i propri limiti attaccando per 5 set un fortissimo Lendl, battendolo nel suo torneo e diventando n.1 del mondo; il susseguirsi continuo di emozioni nella semifinale ’91 a Los Angeles, dove Gilbert si impose sul n.1 del mondo Edberg; la finale di eccezionale qualità tra Krajicek e Agassi a New Haven, con un contrasto di stili perfetto, o sempre nel ’95 tra Agassi ed Edberg a Washington; la vittoria di Rafter su Sampras nel ’98 a Cincinnati… Quanti ricordi, quante emozioni e che tennis! Rasoiate in back seguite a rete, passanti e lob perfetti, dritti in corsa a pizzicare l’angolo, risposte subito vincenti… di tutto e di più. Impossibile non divertirsi.

Perché ad inizio articolo parlavo di nostalgia? Non solo per “l’effetto passato”, per lo scorrere del tempo che si accompagna con l’umana debolezza del guardarsi indietro e del pensare che “prima era meglio”… No. Oggettivamente da qualche tempo la stagione sul cemento USA non offre più quella valanga di grande tennis ed emozioni. Resta un bel momento in calendario, ma non più il clou per qualità pura di gioco e spettacolo. Ogni anno vanno in scena buoni tornei (con alti e bassi notevoli) conditi da emozioni varie, ma il tutto si è decisamente appiattito. Colpa forse dalla mancanza di grandi giocatori USA, che dalla dipartita di Roddick sono praticamente estinti al massimo livello. Colpa di come nel calendario i veri tornei importanti in America sono diventati solo 3. Ma soprattutto colpa del gioco, che è stato mutato troppo nelle sue condizioni nei primi anni 2000. Troppo rallentato tra palle e campi, con il maligno effetto combinato di corde e telai ad acuire il tutto. Un mutamento che è stato amplificato dalla nuova generazione di giocatori, lontanissimi dai giganti battitori dei 90s (che troppo spaventarono i potenti del gioco, allora poco lungimiranti…) e invece atleti più potenti, più veloci, estremamente completi e resistenti. Condizioni più lente + grande atletismo = tennis consistente, esageratamente sbilanciato sul piano della continuità di prestazione con enorme agonismo. Una tendenza a tratti irrefrenabile che ha creato una serie di giocatori troppo uguali a se stessi sul piano tecnico e tattico per creare delle differenze, dei contrasti. Proprio quello che oggi manca (o si vede ben poco…) e che in quei ruggenti 90s invece sul duro creò le condizioni ideali a produrre uno spettacolo tennistico superiore.

Con questo spaccato di nostalgia non voglio forzare la mano, affermando che da qua a settembre vedremo “brutto tennis”. Questa settimana in quel di Washington per esempio le condizioni non paiono così lente (o almeno non terribilmente lente…) e sarà quindi la qualità dei tennisti a determinare spettacolo o meno. Una cosa è certa: per chi (come il sottoscritto) amava tanto la varietà, rimpiange non poco quelle calde estati di una ventina di anni fa. Non solo perché si era più giovani e spensierati, ma perché ogni notte si andava a letto carichi di adrenalina ed emozioni tennistiche importanti. Cose che da qualche estate sono sempre più rare.

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