Alberto Tagliapietra: “Vi racconto com’è nato e cos’è il progetto “Atleti al tuo fianco”


Quando parliamo di sport, diamo sempre per scontato che stiamo parlando allo stesso tempo anche di salute e benessere. Nel momento in cui purtroppo la salute viene meno, curare anche l’aspetto psicologico della malattia è fondamentale per attraversare con coraggio il delicato percorso verso la guarigione. Ecco che in supporto dei pazienti e dei loro famigliari arriva il sostegno di medici come il dottor Alberto Tagliapietra, specialista in Psiconcologia e mente del progetto Atleti al tuo fianco, che da un anno raccoglie le testimonianze di sportivi professionisti, tra cui numerosi tennisti, chiamati a raccontare come reagiscono in campo davanti a sfide e avversità o di come si superano gli inevitabili momenti difficili durante la carriera.
Il progetto, patrocinato dall’associazione Anrebì Onlus, oltre a fornire un importante sostegno psicologico ai pazienti oncologici attraverso le storie di campioni dello sport, mira a far parlare di cancro e a diffondere la campagna sociale di prevenzione.
Alberto, ti sei laureato in Medicina e Chirurgia all’Università di Brescia, poi hai scelto di completare i tuoi studi con il diploma di Alta Formazione in Psiconcologia presso l’ospedale S. Camillo-Forlanini a Roma. Cosa ti ha spinto a intraprendere questo percorso un po’ meno usuale rispetto al solito?
“Tutto è cominciato quando al terzo anno di medicina ho intrapreso i tirocini obbligatori nei diversi reparti degli Spedali Civili di Brescia. Ho avuto la fortuna di trovarmi davanti grandi esempi di medici che mi hanno mostrato quanto fosse importante in un ricovero sia la competenza medica sia la cura della relazione con il paziente. Quest’ultimo aspetto mi colpì particolarmente perché, prima ancora che da studente, in ospedale ci ero già stato nel ruolo di paziente, alcune volte anche come parente, e mi sono sempre ricordato quanto tendessi a fidarmi e ad affidarmi con più serenità nelle mani di un medico che mi facesse sentire compreso anche sul piano umano, oltre che curato su quello clinico. Completato il percorso di studi a Brescia ho deciso così di dedicare tutta la mia formazione professionale alla relazione con il paziente e il suo nucleo familiare nel momento in cui si trovino ad affrontare una diagnosi di tumore, perché possano disporre di un professionista che si prenda cura di loro sotto l’aspetto emotivo partendo da competenze mediche attestate”.
A proposito, che cos’è esattamente la Psiconcologia?
“Cercherò di rispondere utilizzando un’immagine: quando in una famiglia una persona riceve una diagnosi di cancro, nelle menti delle persone coinvolte si spegne la luce. Improvvisamente nella testa vi è solo buio, con una conseguente sensazione di perdita di ogni capacità decisionale e operativa. La psiconcologia è la disciplina che, attuata da un operatore medico o psicologo adeguatamente formato e abilitato, aiuta le persone ad orientarsi nel buio per individuare ogni interruttore che, riattivato, restituisca una mente via via re-illuminata, strumento indispensabile per affrontare un percorso clinicamente serio in maniera lucida, costruttiva e dominante”.
Parliamo del progetto “Atleti al tuo fianco” da te creato: quando e come è nato, come si è sviluppato, quali atleti ha coinvolto fino adesso?
“Atleti al tuo fianco nasce nel maggio 2016, poco prima degli Internazionali BNL d’Italia. Già l’anno precedente molti tennisti si erano prestati ad un video di incoraggiamento per Filippo, un ragazzo appassionato di tennis che seguivo perché colpito da una forma molto rara e grave di leucemia. Nel corso dell’anno successivo pensai che si dovesse trovare una più ampia forma di interazione fra lo sport e chi lo segue mentre combatte il cancro. Partii quindi per il Foro Italico con l’idea di Atleti al tuo fianco: raccontare agli sportivi le difficoltà quotidiane di chi combatte un tumore e farli riflettere e dialogare in maniera serena delle proprie difficoltà sportive, senza soffermarsi troppo sulle analogie e, soprattutto, differenze fra i due ambiti ma concentrandosi su come essi le affrontino e, soprattutto, reagiscano. L’obiettivo era parlare di cancro, in maniera serena, poco clinica e molto orientata alla vita quotidiana. Al Foro incontrai Lea Pericoli e Nicola Pietrangeli: esposi loro il mio progetto e, in tutta risposta, mi invitarono a cena per continuare a parlarne. Nacque così la prima testimonianza, quella di Lea e Nicola, nella quale mi incoraggiarono tantissimo a perseguire gli obiettivi che mi ero prefissato: entrambi parlavano sia da ex atleti sia da sopravvissuti al cancro e trovarono da subito vincente la formula dell’iniziativa. Da allora i partecipanti sono stati davvero tantissimi: nel tennis hanno già aderito prestando la propria testimonianza Corrado Barazzutti, Diego Nargiso, Tathiana Garbin, Thomas Fabbiano, Luca Vanni, Karin Knapp, Stefano Travaglia, Lorenzo Giustino, Martina Di Giuseppe, Flavio Cipolla, Matteo e Jacopo Berrettini, Alberta Brianti, Salvo Caruso, Vincenzo Santopadre, Nastassja Burnett, Beatrice Lombardo, Marco Chiudinelli, Lorenzo Sonego, Alice Balducci, Filippo Volandri, Umberto Rianna, Anastasia Grimalska, Laurynas Grigelis, Andrea Vavassori, Federica Di Sarra, Gianluca Di Nicola, Riccardo Rosolin, Marco Cecchinato, Riccardo Ghedin, Alberto Paris, Stefania Rubini, Andrea Arnaboldi, Tommy Robredo, Federico Gaio e una menzione specialissima per Paola e Francesca Luzzi che hanno accettato di partecipare ricordando il compianto figlio e fratello Federico Luzzi. Anche dagli altri sport gli atleti hanno risposto presente, solo per citarne alcuni Emiliano Viviano, Nicolas Burdisso, Samuele Papi, Manuela Leggeri, Dario Hubner, Alberto Cisolla, Francesco Magnanelli, Simona Gioli, Matteo Soragna. E giorno dopo giorno, questa grande squadra sta continuando la sua missione con nuove persone e nuove testimonianze. Ah, Filippo, il ragazzo del video di incoraggiamento, oggi sta bene ed è ancora profondamente grato a tutti i tennisti che gli sono stati vicini nel 2015”.
Qual è l’obiettivo principale che vuoi perseguire con questo progetto e che risposta hai avuto da parte degli atleti?
“L’obiettivo principale è parlare di cancro: chi ha un tumore o lo sta vivendo accanto ad un familiare, deve sapere che non è solo. Anche se il tumore prova a rapirti dalla vita, dalla socialità, dalla relazione con il mondo, non sei da solo, non sei isolato, non sei evitato. Ne parliamo perché in Italia tre milioni di persone hanno o hanno avuto il cancro. E se andassimo ad indagare quante persone sono e sono state coinvolte intorno a queste tre milioni di diagnosi, ci accorgeremmo che stiamo parlando di noi stessi: tutti conosciamo qualcuno che lo ha affrontato o lo sta affrontando. Il cancro non è solo un argomento medico: il cancro è un tema sociale, per cui noi ne parliamo. E proprio perché è argomento sociale, ne discutiamo mentre, contemporaneamente, parliamo anche di sport. Entrambi sono aspetti che fanno parte della vita, dell’Italia, di noi, di qualcuno come noi. Gli atleti, in tutto questo, stanno rispondendo in maniera encomiabile: partecipano, si emozionano, si mettono in gioco fino in fondo per raccontare le proprie emozioni”.
È un progetto che porti avanti da solo o ti avvali di un team per realizzare le interviste e tenere sempre aggiornato il sito e i social?
“Lavorando quotidianamente con i pazienti come ogni medico, se fossi da solo questa iniziativa non potrebbe in alcun modo essere portata avanti con questa intensità. L’ideazione e realizzazione delle interviste è opera mia e cerco di studiarle il più possibile sull’individualità agonistica dell’atleta, cercando di cogliere cosa possa avvicinarlo in maniera personale a chi sta affrontando un percorso oncologico. Si può dire che, oltre alla riorganizzazione e approvazione finale, il mio compito si limiti a questo. Il progetto gode del patrocinio nominale di Arenbì Onlus, associazione che possiede una grande esperienza nella relazione tra sport e attività di beneficenza: loro mi aiutano, attraverso i propri soci e volontari, nella divulgazione, nel miglioramento delle immagini (sono un pessimo fotografo e a loro tocca fare miracoli), nella creazione dei loghi abbinati all’iniziativa e anche nella relazione con i testimonial. Inoltre tutta la parte tecnica e grafica del sito on-line è curata dai professionisti di Plat1.it. Infine un instancabile Fabrizio Migliorati, che in realtà è un titolato esperto d’arte ma al tempo stesso una persona con una generosità enorme, trascrive pazientemente ogni singola intervista. Se ogni singola intervista arriva ad aiutare e migliorare le condizioni di chi sta vivendo difficoltà emotive in una battaglia contro il cancro, il merito va condiviso con loro”.
Hai coinvolto in questa bellissima iniziativa tanti tennisti professionisti. Indubbiamente il tennis come sport individuale per eccellenza si presta bene all’analisi dell’atteggiamento mentale in campo e fuori, ma questa attenzione particolare nasce da una tua passione per questo sport?
“Senza dubbio il tennis è lo sport che più amo guardare. La sorgente del tutto, come sempre, credo possa essere trovata nella mia infanzia: quando avevo sette anni, desideravo tanto giocare a calcio, così i miei genitori mi iscrissero a tennis. Non ricordo bene come si verificò questo piccolo equivoco, ma da persone generose quali sono sempre state e tuttora sono, mamma e papà quel giorno mi fecero due regali straordinari in un colpo solo, perché il calcio diventò il mio gioco e il tennis il mio sport. Dalla natura ho ricevuto il dono di non avere il minimo talento per diventare un tennista, il che mi ha obbligato a fare il doppio degli allenamenti dei miei coetanei, il doppio dei cesti, il doppio delle sedute di atletica. Nonostante tutto questo, ero un pessimo doppista. Eppure in campo spesso vincevo, o meglio, portavo il mio avversario a perdere. Per sopravvivere e raccogliere qualche gioia nei tornei di quarta categoria, livello oltre il quale non mi sono mai spinto, ho comunque dovuto faticare molto più di altri, ma quella fatica mi ha portato a conoscere ed analizzare molto bene alcuni aspetti del tennis, che oggi cerco di riutilizzare in questa iniziativa unendoli alle competenze mediche e psico-oncologiche acquisite”.
Tu affronti un tema delicatissimo quale l’attesa e l’incertezza della propria condizione vissute dai pazienti malati di cancro e dai loro familiari. La scelta di far parlare gli sportivi delle loro esperienze e di come superano i momenti di difficoltà immagino sia un veicolo per aiutare anche i pazienti a parlare a loro volta. Perché secondo te si ha paura, in particolare in Italia, di nominare anche solo la parola cancro?
“Dobbiamo essere bravi e riuscire a tenere distinti due concetti che rischiano di sovrapporsi: la paura del cancro e la paura di parlare di cancro. Il primo è un concetto normale: il cancro fa paura perché avere un tumore è una cosa maledettamente seria. Mi impegno profondamente ogni giorno per aiutare le persone a ricondurre la propria vita ad un livello qualitativo soddisfacente mentre affrontano un tumore e so che è possibile avere una buona qualità della vita mentre si combatte il cancro, ma vi garantisco che è molto più facile riuscirci senza un tumore di mezzo. Quindi, il timore del cancro è un concetto comprensibile. La paura di parlare di cancro, invece, è un grandissimo tranello: un tumore maligno ha infatti la capacità di creare immediate barriere di isolamento verso gli altri, verso il mondo esterno, sia in chi riceve la diagnosi, sia in chi la vive come parente. Non parlare di cancro rinforza queste barriere inasprendo la sensazione di isolamento, di impotenza e di solitudine. Parlare di cancro è la forma più potente per abbattere queste barriere, perché si crea un dialogo, una relazione diadica tra chi parla e chi ascolta, tra chi scrive e chi legge, che supera le barriere annientando l’isolamento. Ed è importante parlarne con conoscenza, è fondamentale che le persone sappiano che ad oggi 2017 in Italia, di 100 persone che ricevono la diagnosi di tumore maligno, 70 sopravvivono. Il cancro non è una sentenza, è una lotta, costante. Parlarne, anche fra di noi, è un aiuto per chi lo sta vivendo”.
“Atleti al tuo fianco” è un progetto pubblico, poiché viene divulgato attraverso il sito www.albertotagliapietra.com e i social network. Ti arrivano storie e testimonianze spontanee, suscitate dalla lettura delle interviste?
“Sì, arrivano dei messaggi molto belli e toccanti allo stesso tempo, alcune volte anche semplicemente ringraziamenti rapidi, soprattutto sulla pagina ufficiale di Facebook “Atleti al tuo fianco”. Fanno sempre grande piacere e incoraggiano a proseguire sulla strada intrapresa”.
E dall’altra parte ritieni che questo progetto aiuti anche a sensibilizzare soprattutto i giovani verso un altro tema importantissimo come la prevenzione?
“Fare cultura non significa per forza condividere nozioni: è importante lavorare sull’idea che di cancro si possa tranquillamente parlare. La divulgazione di interviste con gli sportivi è proprio finalizzata a questo, e se si può parlare di tumori possiamo discutere e confrontarci serenamente anche di prevenzione ai tumori. Attraverso questo tragitto arriviamo alla cultura intesa come conoscenza e condivisione di nozioni: è un percorso più lungo ma che aiuta ad avvicinarsi in modo più sereno e integrato con la propria quotidianità. Trovo sbagliato il confronto con la propria salute e il proprio corpo con il medico solo ed esclusivamente in ambulatorio o in ospedale, la tutela della salute è la porta d’ingresso della qualità della vita: quale momento migliore della vita stessa per parlarne?”
Pensi che a loro volta gli sportivi professionisti coinvolti riescano a giovare di questa esperienza, ad esempio ricordandosi che si possano affrontare momenti difficili che sembrano invece insuperabili con un adeguato sostegno psicologico?
“Io credo che ciò che più coinvolga un atleta sotto il profilo emotivo in questa esperienza sia rendersi conto che tutti gli sforzi, i sacrifici, le delusioni e le gioie messi lentamente in fila nel corso della propria vita sportiva, oltre ad aver creato un percorso agonistico, hanno un enorme potere sociale. E questa capacità di aiuto in chi sta soffrendo, in Atleti al tuo fianco non è data dal tuo essere “tennista famoso”, ma dal tuo essere Marco, Thomas, Karin o Lea. Le domande vertono sulla tua storia individuale e sulle tue personalissime emozioni: sei tu, essere umano, che stai aiutando uno, cento, mille altri esseri umani raccontando i tuoi pensieri, le tue paure, i tuoi fallimenti, le tue reazioni. E questo alla tua vita fa bene, al di là che poi domani tu possa giocare le qualificazioni di un futures o la finale del Roland Garros. Questa è la mia sensazione a riguardo, sicuramente è poi una domanda che andrebbe posta agli atleti stessi”.
Dal 2015 sei anche insegnante di Psiconcologia. Come ti trovi in questa nuova veste di professore?
“Amo profondamente il mio lavoro di docente al Corso d’Alta Formazione in Psiconcologia di Roma, entrare ogni anno in contatto con studenti desiderosi di dedicare la propria vita all’aspetto emotivo di chi sta affrontando un tumore è una grandissima fortuna e uno stimolo enorme per me. Aiutare dei ragazzi a crescere attraverso la ricerca della conoscenza trovo sia un grandissimo privilegio per ogni insegnante, che a mio parere resta tra le professioni che più possono cambiare il mondo”.
Prevedi in futuro degli eventi o delle iniziative che coinvolgano direttamente gli atleti e i pazienti?
“Il progetto è giovane se pensiamo che tutto è iniziato nel 2016 ma ci sono già numeri e contenuti così abbondanti da poter elaborare nuove situazioni, come ad esempio il contatto diretto tra l’atleta e le persone coinvolte nella battaglia contro un tumore. Questa è una situazione che mi viene spesso richiesta dagli atleti, credo che vada valorizzato il loro impatto territoriale, magari facendoli incontrare con le persone della loro città di origine o in luoghi in cui hanno segnato la storia sportiva della città. Ci stiamo lavorando e sono aperto ad ogni proposta possa venire per incentivare la divulgazione. Intanto il 17 settembre sarò presente a Brescia per parlare di Atleti al tuo fianco ad un convegno organizzato da Afadoc, associazione che si occupa di disturbi della crescita. Cercherò di mettere in luce i principi di questa iniziativa, di come lo sport possa diventare ponte tra la società e le famiglie che affrontano un disagio clinico, a prescindere dalla malattia”.
L’immagine che incornicia ogni intervista è una foto del testimone che sorride mentre stringe insieme le mani. Sei stato tu l’ideatore di questo forte messaggio simbolico?
“Sì: le mani che si uniscono rappresentano la vicinanza fisica, il sorriso simboleggia la vicinanza emotiva. Questi due elementi non devono mai mancare nei confronti di alcun paziente e delle loro famiglie, in primis da parte di noi medici. Alcune volte per le persone in fase terminale qualcuno azzarda una frase: “Non c’è più niente da fare”. Errore, molto grave. C’è tantissimo da fare proprio perché è in fase terminale, per il paziente e per la sua famiglia: le mani unite e il sorriso ce lo devono ricordare”.

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