Hai presente il tennis a mandorla? (1/2)

di Sergio Pastena

Le chiamano ondate. Cos’è un’ondata nello sport? L’ondata è quando il movimento di un paese produce un numero di atleti di talento sensibilmente superiore alla sua media abituale, e già qui capiamo quanto la cosa sia relativa: quattro top 100 per gli Stati Uniti sono un fallimento, per il Portogallo sono un’ondata. Il Giappone, nel tennis, di ondate ne ha avute due e la prima la conoscono in pochi. Andiamo a parlare un po’ del tennis nel Sol Levante con questo speciale in due parti.

Quasi cent’anni fa…

Ichiya Kumagae e Zenzo Shimizu

Siamo negli anni ’20 del secolo scorso e il Giappone, in buona sostanza, nel tennis è quanto di più vicino ci sia allo zero assoluto. Nessuno li conosce, i pochi che fanno apparizioni negli Slam sono declassati a fenomeno folcloristico e quando qualcuno di loro vince una partita più che merito suo è colpa dell’avversario che, evidentemente, non ha saputo opporsi a un tennista mediocre. Mediocre per definizione, perché giapponese.

Il nome da cui partiamo è quello di Zenzo Shimizu anche se, come vedremo, avremmo potuto tranquillamente scegliere qualcun altro. Shimizu, però, ha due caratteristiche che lo inseriscono di diritto nella storia del tennis giapponese: è stato l’unico a raggiungere la finale dei candidati in uno Slam ed inoltre ha guidato i nipponici alla grande impresa di Davis del 1921.

La finale Slam di cui parliamo è quella di Wimbledon 1920: ricordiamo che all’epoca c’era un torneo dei candidati e poi il vincente sfidava il detentore dell’anno precedente. C’era Shimizu e la gente se lo filava il necessario, anche quando battè un britannico sconosciuto al primo turno: il secondo prevedeva Gordon Lowe, vincitore degli Australian Open 1915, e doveva essere un’esecuzione. Sì, di quello sbagliato: Shimizu si impose 6-2 6-2 6-8 6-2 e volò al turno successivo contro Andrè Gobert, francese, due Roland Garros in bacheca. Dopo una partenza sprint del nipponico ci fu la rimonta del francese e si finì al quinto, dove a spuntarla fu proprio Shimizu clamorosamente. Un giapponese agli ottavi. Pazienza, non è che gli inglesi gradissero troppo l’idea di essere vendicati da un francese, tanto.

La rabbia, tuttavia, dovette tornare prepotente quando Shimizu, dopo aver fatto fuori l’ex campione olimpico Augustinos Zerlendis, greco, tornò a prendersela coi britannici lasciando prima la miseria di tre games a Neville Willford e poi un set (ma se games negli altri tre) all’ultimo inglese rimasto in gara, Theodore Mavrogordato. Finale tra Shimizu e Tilden, americano. Ad attendere il detentore Gerald Patterson, australiano. Per la prima volta nessun inglese in finale da quanto Wimbledon esisteva. Umiliazione totale.

Tilden per Shimizu era troppo e il giapponese perse in tre set nonostante una stoica resistenza nel terzo. Ma non finisce qui. Dicevamo della storica impresa del 1921, ricordate?

La Davis che non era Davis

Il grande Bill Tilden

Si chiamava “International Lawn Tennis Challenge” ma era a tutti gli effetti l’embrione della Coppa Davis. Nel 1920 partecipavano 12 team più i detentori statunitensi, un vero e proprio record: i giapponesi si ritrovarono in finale e secondo molti la cosa era stata abbastanza casuale. Prima due ritiri, di Filippine e Belgio, poi una semifinale “morbida” contro gli indiani, che al turno precedente avevano sconfitto la “Francia B”. Gli australiani? Uno scoglio troppo duro, a detta di tutti.

Non a detta dei giapponesi, però: sulla sacra erba di Newport Zenzo Shimizu e Ichiya Kumagae portarono a casa tutti e quattro i singolari, lasciando solo il doppio ai frastornati canguri. Finale con gli Usa, quella sì oggettivamente troppo dura, ma che importa quando la storia l’hai già scritta?

Eppure proprio in quella finale Shimizu stava per riscriverla ancora una volta, quando portò via i primi due set a Bill Tilden e lo impegnò a dismisura nel terzo. Alla fine fu 5-0 per gli americani, ma che impresa!

E gli altri?

All’inizio abbiamo scritto che, descrivendo la prima ondata giapponese, saremmo potuti partire tranquillamente da qualcun altro.

Vero: prendiamo l’appena citato Ichiya Kumagae. Lui era stato numero 7 al mondo, Shimizu numero 4 e la cosa va spiegata: all’epoca non esisteva il ranking e le classifiche erano compilate dai giornalisti specializzati, spessissimo inglesi. Funzionasse oggi così, avremmo otto britannici nei Top 100.

Jiro Sato con Jacques Brugnon

Kumagae, però, aveva fatto due cose che non erano riuscite a Shimizu: nel 1920 aveva vinto la medaglia d’argento alle Olimpiadi di Anversa nel singolare e nel doppio. E inoltre, udite udite, nel 1919 aveva battuto Bill Tilden in un torneo a New York. Il doppio l’aveva vinto con Siichiro Kashio.

Soprattutto, però, avremmo potuto parlare di Jiro Sato, ultimo riflusso della prima ondata, giovane con la faccia da vecchio: nato nel 1908 nella prefettura di Gunma, ai tempi in cui il tennis consentiva una longevità molto maggior di quella di oggi, Sato arrivò in semifinale, tra il 1931 e il 1933, per due volte a Wimbledon e al Roland Garros e una volta anche agli Australian Open. Nel 1934, a 26 anni, era considerato il numero tre al mondo e tutti vedevano in lui il primo giapponese vincitore di uno Slam.

Tristi illusioni. Nel 1934 la squadra giapponese viaggiava in nave verso l’Europa. Precisamente la meta era Eastbourne, Inghilterra, dove si sarebbe svolto il secondo turno contro l’Australia. Sato stava male, una possibile intossicazione alimentare, e paventò una disfatta contro i canguri. Il pensiero per lui era insostenibile e probabilmente fece collassare i suoi fragilissimi nervi. Saltò in mare durante il viaggio lasciando due lettere: una ai compagni, scusandosi per la defezione e una al capitano, scusandosi per gli inconvenienti che avrebbe causato il suo gesto.

La prima ondata era finita.

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