Wimbledon e il tè delle cinque

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di Sergio Pastena

In un suo giallo, Poirot e il mistero di Styles Court, Agatha Christie descrive la situazione di una famiglia inglese altolocata, i Cavendish, ai tempi della guerra mondiale. Un quadro tutt’altro che incoraggiante: niente più ricevimenti e spese folli, rimpiazzati da un’economia di guerra che porta a riciclare anche la carta usata. Il giardino di casa, una volta distesa immensa di fiori, semi-abbandonato e curato da una sola giardiniera per di più “dalle idee moderne”. L’ex maggiordomo che sposa la matrona (e poi la ammazza, of course). Tutto decade, tutto stinge, tutto è malinconico. Però alle cinque si prende il tè, col servizio buono, e ci sono tutti: guai a non prenderlo.

Cosa accomuna Wimbledon e Città del Messico?
Cosa accomuna Wimbledon e Città del Messico?

Sarà l’atmosfera molto british della cosa, ma quel capitolo mi fa venire in mente la situazione di Wimbledon. La mia riflessione, chè è bene citare le fonti, parte da un post polemico su Facebook dei ragazzi di Contro Break e prova ad approfondire il tema. La domanda di base è la seguente: è anche solo lontanamente razionale prendersi la classica “domenica libera” con due incontri di terzo turno maschile da disputare per intero e uno maschile e due femminili da completare? Il problema è selettivo e, sia chiaro, non riguarda Bolelli: sul 3-3 del quinto, considerando che qualche break c’è stato, la partita non dovrebbe tramutarsi in un replay di Isner-Mahut.

Il problema, casomai, è che certe interruzioni potrebbero essere messe in conto considerando che il torneo non si gioca a Nairobi, e certezze per i prossimi giorni non ce ne sono. Completare i match di domenica, quindi, sarebbe stato razionale sia per far rifiatare gli atleti che potrebbero essere costretti a un tour de force, sia per riallineare il tabellone al ruolino di marcia della vigilia. Ma la domenica di stop è una tradizione e a Wimbledon le tradizioni contano come il tè dei Cavendish. Ma sarà davvero così?

Sarà colpa del Dash?
Sarà colpa del Dash?

Per certe cose, dalle parti del Lawn Tennis, cambiare sembra impossibile: provateci a presentarvi con una maglietta colorata nel tempio del tennis e vedete se vi faran giocare o no. Non c’è macchia da quelle parti, che i mercanti rimangano fuori. Immaginate però un tempio dove i mercanti non possono esporre la propria insegna ma decidono cosa si vende, quando si vende e perché si vende. Beh, a quel punto non sarebbe proprio la stessa cosa, non trovate?

Provando a tradurla in parole povere: se mantieni le inutili magliette bianche e perseveri in maniera un po’ minchiona nel conservare a meno di casi estremi la domenica di sosta (si è giocato tre volte e solo in anni in cui Londra somigliava a Venezia), ma poi snaturi la superficie trasformandola (in particolare nei campi centrali) in un’erba anomala tanto gradita ai giocatori d’oggi, stai davvero rispettando le tradizioni? Il mercato è mercato, e quello non lo discuto: per quanto triste, la terba ha una sua logica così come hanno una logica tante altre cose. Giustappunto Nadal ha quasi mandato a quel paese amorevolmente Federer, colpevole di ricordare al mondo che la regola dei 20 secondi, con buona pace dei propositi Atp, è ancora come la rollata nel biliardino: è vietata, ma tutti la fanno e nessuno la punisce.

Il mercato, però, vorrebbe anche che non si giocassero ottantasei match in un giorno. Il mercato vorrebbe che non si rischiasse una finale di lunedì, che si tramuterebbe in una specie di semi-disastro finanziario. Il mercato vorrebbe spazio ai colori e ai loghi, ognuno dei quali ha un prezzo. Se dobbiamo farla, almeno facciamola bene, no?

E visto che come per i Cavendish anche per Wimbledon i tempi son cambiati “de facto”, forse sarebbe il caso di scordarsi del tè delle cinque.

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