Nadal, Contador, il Doping e Canal +

di Sergio Pastena

Ero incerto se proporre un articolo del genere per un sito di tennis, visto che la notizia riguarda un altro sport: parliamodella squalifica di Contador per doping. In fondo quell’argomento tocca un po’ tutte le discipline, ma a togliermi d’impaccio ci ha pensato Rafa Nadal con una “twittata”: “Incredibile la notizia di Contador, non c’è nessuna prova definitiva ma gli hanno dato la pena massima…DEPLOREVOLE..Ha tutto il mio appoggio!”.

Le reazioni sono state di vario genere: Ubaldo Scanagatta, ad esempio, ha lodato il coraggio di Nadal, mentre Paolo Rossi di Repubblica ha fatto notare come l’uscita sia stata poco furba. Senza entrare nel merito, visto che non voglio scatenare liti stucchevoli, dico che sono due punti di vista comprensibili: fossi stato un amico di Rafa gli avrei detto “Dì quello che pensi, ne hai il diritto!”. In tutta onestà, però, fossi stato il suo agente avrei detto: “Fai silenzio, non scatenare tempeste, hai tutto da perdere” (d’altro canto, anche Scanagatta l’ha fatto notare).

Volevo invece proporre un’altra riflessione: a mio avviso Nadal centra un punto importante quando specifica “pena massima”, perché in questo caso i due anni per Contador davvero sembrano eccessivi. Allo stesso modo un altro punto critico riguarda i tempi del procedimento e, a dirla tutta, desta perplessità anche la retroattività della sentenza. Prima, però, credo ci siano delle considerazioni da fare su un clamoroso errore di impostazione che, in questi giorni, ha colpito tante persone: per la maggior parte si tratta di “non addetti” ai lavori, ma a quanto si è visto nè i colleghi di Contador (che l’hanno difeso in blocco) nè lo stesso Nadal ne sono immuni. Quattro punti, quattro semplici punti.

Ma è tanto un bravo ragazzo…

Tanti ciclisti sono amici di Contador e non c’è da stupirsi: lo spagnolo è un ragazzo modesto, affabile, serio. Mai una parola fuori posto, mai una polemica. Tuttavia nel leggere le dichiarazioni di tutti quelli che tessono le sue lodi mi tornano in mente poche righe di un giallo di Agatha Christie, “Poirot a Styles Court”. Due scambi di battute, che vado a trascrivervi.

Hastings: “Sa, fino all’ultimo minuto ho creduto che il colpevole fosse Lawrence!”

Poirot: “Lo so”

Hastings: “Ma John! Il mio vecchio amico John…”

Poirot: “Ogni assassino probabilmente è amico di qualcuno, non si possono mischiare sentimenti e ragione”

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Poirot: “Quali sono i motivi per cui la signorina Howard avrebbe voluto avvelenare la signora Inglethorp?”

Hastings: “Ma se le era affezionatissima!”

Poirot: “Via! Ragiona come un bambino. Se la signorina Howard fosse stata capace di avvelenare l’anziana signora, sarebbe stata altrettanto capace di simulare affetto”

Ecco, la reazione del plotone è un tipico esempio dell’importanza delle relazioni sociali in ambito sportivo: se, ad esempio, al posto di Contador ci fosse stato un ciclista con i modi da carogna e la polemica sempre pronta, sarebbe rimasto isolato perché nessuno avrebbe preso le sue difese “sulla fiducia”. Un primo errore di questi giorni, abbastanza palese, è stato quello di farsi condizionare dal fatto che si trattasse di Contador. E’ comprensibile (anche se infantile, fatalmente) che chi lo conosce lo difenda, lo è meno che lo faccia chi lo segue da un televisore.

Le prove della colpevolezza

Qui entriamo nell’errore che c’è nel tweet di Nadal, che fa notare come nel caso di Contador non ci sia nessuna “prova definitiva”. E’ una logica di ragionamento non solo sbagliata, ma potenzialmente disastrosa. Per spiegarla meglio, provo a ricorrere ad un paragone.

Svaligiano la gioielleria sotto casa vostra: furto con destrezza, telecamere messe fuori uso, partono indagini e perquisizioni. Perquisiscono l’appartamento del vostro vicino e, dentro un materasso, trovano i gioielli: mentre lo arrestano lui urla “Non sono stato io! Mi stanno incastrando!”. Poi, però, non riesce in alcun modo a provare che qualcun altro abbia messo lì la refurtiva. Secondo voi dovrebbe essere assolto? Se davvero funzionasse così, tre quarti dei ladri la farebbero franca dicendo di essere stati incastrati. Anche il doping funziona in questo modo.

La prova della colpevolezza di Contador, piaccia o meno, sono i 50 picogrammi di clenbuterolo trovati nel suo sangue.

So che questo ragionamento non piacerà a molti, ma se non si facesse così allora varrebbe la pena di non spendere tutti quei soldi per l’antidoping: l’unico modo per condannare un dopato sarebbe beccarlo con la siringa nel braccio. Ergo: se i valori sono anomali, sei fuori. Queste sono le regole del gioco, nessuno obbliga nessuno a giocare.

La verità è che Contador, come tutti gli altri atleti, ha la precisa responsabilità di non far trovare sostanze illecite nel suo sangue: ogni cosa che assume deve essere di provenienza sicura o, quanto meno, l’atleta deve fare in modo di poter risalire alla causa di eventuali intoppi. In sintesi, se Contador decide di mangiare una bistecca di un macellaio di Irun amico di un suo amico, corre un rischio deliberatamente e accetta di pagarne le conseguenze: in alternativa c’è la bistecca dell’albergo. Una vita da schifo, per certi versi, se consideriamo che gli atleti devono essere reperibili continuamente per i controlli a sorpresa: tuttavia, verrebbe da dire, una vita da schifo adeguatamente remunerata, specie nel caso di Contador.

Ricordate il caso di Filippo Volandri? Lui venne fermato per tre mesi per via del salbutamolo. Cosa era successo? Aveva assunto troppo Ventolin (il più comune degli antiasmatici) durante una crisi respiratoria e per farsi revocare quella squalifica dovette penare non poco. Eppure tutti sapevano che soffriva d’asma, da anni assumeva quel farmaco con l’autorizzazione dell’ITF e c’era tanto di certificato del medico curante specialista.

Le norme sono severissime, gli atleti lo sanno e anche Contador lo sapeva.

La questione dell’involontarietà

Contador ha provato a dimostrare la sua buona fede ma, a dirla tutta, se anche volessimo dare per scontata la sua buona fede, l’impressione è che sia andato per tentativi senza sapere bene come quel clenbuterolo fosse finito nel suo sangue.

“Carne contaminata”, ha detto lui. Fino a qualche anno fa, prima che in Inghilterra combinassero il casino della mucca pazza, non sarebbe stata implausibile una cosa del genere: le carni erano gonfiate di ormoni perché il governo Thatcher aveva promosso delle norme che avevano reso più costosi i metodi di allevamento e gli allevatori avevano reagito sfruttando una vacatio legis riguardante l’alimentazione dei bovini. Ergo, essendo il clenbuterolo un sostitutivo di un ormone (dell’adrenalina, per la precisione) era possibile trovarlo nella carne. Oggi, nell’ambito dell’Unione Europea, non è più così, tant’è che le numerose verifiche condotte dagli organi preposti hanno evidenziato come in Spagna non si registrino sanzioni nei confronti di allevatori per l’uso di clenbuterolo da anni.

All’estero è ancora possibile se è vero che in Messico, paese con una regolamentazione meno rigida, metà dei partecipanti al campionato mondiale di calcio under 17 furono trovati positivi. Tornando a prima, se Contador avesse mangiato bistecche contaminate servite dall’albergo, mezzo gruppo sarebbe stato trovato positivo e la questione sarebbe morta in partenza.

I cinquanta picogrammi

Il quarto errore di questi giorni è quello di chi batteva sull’esiguità della sostanza ritrovata nel sangue di Contador. Forse è l’errore più grossolano. L’antidoping, nello stabilire i limiti di concentrazione delle varie sostanze vietate, tiene ovviamente presente una serie di fattori:

  • Alcune sostanze si trovano normalmente nel nostro organismo, ma hanno un effetto dopante solo oltre una certa quantità (esempio: testosterone)
  • Altre sostanze devono essere assunte in caso di determinate patologie (come il salbutamolo nel Ventolin di Volandri)
  • Altre ancora non si trovano nel nostro organismo e non sono collegate a nessun tipo di farmaco salvavita

Il clenbuterolo fa parte del terzo gruppo. Questo cosa significa? Significa che tra la “tolleranza zero” rispetto al clenbuterolo e i limiti “fisiologici” di altre sostanze non c’è praticamente differenza. Come base di partenza si prende la dose “naturale” della sostanza nel nostro corpo, quello che c’è in più è considerato fuori dalle regole. L’unica differenza, se vogliamo, è che per sostanze che si trovano normalmente nel nostro corpo gli atleti possono provare a dimostrare “eccessi naturali” (cosa vera in certi casi), mentre con il salbutamolo non è possibile: se ce l’hai in corpo, l’hai assunto da qualche parte.

“D’accordo- direte voi- ma se cinquanta picogrammi non migliorano la prestazione, perché sanzionarlo?”. Per un motivo semplicissimo: oggi, a differenza di una volta, la ricerca sul doping ha due fronti aperti. Il primo, come al solito, è quello della scoperta di nuove sostanze dopanti. Il secondo, invece, riguarda le cosiddette sostanze “coprenti”, ovvero sostanze che permettano di nascondere la pratica dopante durante i controlli. I cinquanta picogrammi di Contador, quindi, hanno due possibili cause:

  • Dose minima assunta accidentalmente
  • Dose massiccia mascherata da un coprente che non ha fatto totalmente effetto

Questo è il motivo, semplicissimo, per cui se una sostanza dopante non è presente allo stato naturale nel nostro corpo, allora non può essere assunta se non previa autorizzazione e per ragioni mediche. Fare diversamente vorrebbe dire stendere un tappeto rosso ai Fuentes e Conconi di turno.

Una sentenza sbagliata?

Vi dico la mia, per quello che conta. Io credo che sia ragionevole contestare, come ha fatto Nadal, la “pena massima” per Contador. Il caso comunque è molto incerto e, a dirla tutta, il tempo intercorso tra le analisi e l’accusa ha ridotto notevolmente le possibilità di difesa dello spagnolo, cosa che andrebbe considerata in un processo. Personalmente mi sarei aspettato, oltre alla revoca scontata del Tour del 2010, uno stop di sei mesi non retroattivo.

E’ più che ragionevole contestare la retroattività della pena, perché non ha senso: così facendo si priva Contador di un Giro d’Italia nel corso del quale ha passato tutti i controlli. La retroattività può essere ragionevole se il procedimento è rapido, ma non è corretto far lavorare sub judice un atleta per un anno e mezzo e poi dirgli “Ci spiace, è stato tutto inutile”.

Contestare la lunghezza del procedimento non solo è ragionevole, ma è addirittura doveroso: un procedimento per doping, per quanto complesso, non può durare così a lungo. Certo, anche l’atteggiamento vergognoso (lo dico e lo ribadisco: vergognoso) della Federazione e dei politici spagnoli ha contribuito ad “allungare il brodo”, ma un anno e mezzo nella carriera di un atleta pesa come dieci anni in una vita umana. Non sono numeri ammissibili.

In buona sostanza io critico soltanto chi contesta la condanna in sè, perché quello è pericolosissimo. Potevano andarci più leggero, magari Contador è stato sfavorito dallo “scontro di poteri” tra la federazione spagnola e quella internazionale, ma visto che lo spagnolo non è riuscito a dimostrare l’assunzione accidentale di clenbuterolo, allora la revoca del Tour del 2010 e una condanna, anche se non “pesante”, erano indispensabili. Se non fossero arrivate si sarebbe creato un precedente tremendo, aprendo una falla nella lotta al doping.

Il ciclismo, uno sport morto?

Se permettete, chiudo con qualche riga tratta dal mio blog personale, nel quale ho dedicato alla vicenda un articolo (molto più colorito).

“Tralasciando Pantani, che aveva seri problemi personali più che di doping, l’ultima volta che mi sono esaltato davanti a uno schermo è stato con Riccardo Riccò. All’epoca il compianto Candido Cannavò scrisse un articolo-appello, nella speranza di non bruciarsi di nuovo le mani. Se le bruciò, e con Riccò venne fuori anche Piepoli, dal quale non mi sarei mai aspettato una cosa del genere. E’ stato in quel momento che ho cancellato il ciclismo, uno sport che ho sempre adorato, dalla mia vita.

Ah, si parlava di Cannavò. Qualche tempo dopo scrissi una lettera alla Gazzetta facendo l’elenco di tutti i casi di doping al Tour, podi inclusi: a chiusura dicevo di essere assegnato e di considerare il ciclismo come il wrestling, uno sport-esibizione. Sapete cosa fecero quei geniacci? Pubblicarono la lettera in versione “tagliata” e dissero che non ci leggevano rassegnazione ma arrabbiatura. Primo pensiero: “Eh già, mica potete dare voce a uno che dice che il ciclismo è morto: voi organizzate il Giro!”.

Scrissi una mail di risposta a dir poco incazzata, perché non tollero che mi si mettano parole in bocca. In quella lettera c’era rassegnazione, tanta. C’era anche dolore, ma non c’era l’incazzatura di chi spera ancora. Il ciclismo è morto da anni, me l’hanno ammazzato. L’hanno ucciso i dopati, l’hanno ucciso medici e allenatori che avallano il sistema, l’hanno ucciso anche i commenti del gruppo, buono ad esiliare i Riccò ma pronto a difendere chi rispetta le “loro” regole.

Un mio amico appassionato di ciclismo una volta commentò: “Tutti si dopano. Riccò non è diverso, ha solo esagerato e l’hanno fatto fuori”. Non so se le cose stiano così, ma se un giorno avrò un figlio preferirò fargli praticare il free climbing estremo piuttosto che metterlo su una bicicletta da corsa.”

 

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