MaliVai Washington, un destino nel nome

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di Marco Mazzoni (@marcomazz)

I nomi non sono tutti uguali. Alcuni evocano qualcosa di diverso, ti frullano in testa e non ti mollano più, anche a distanza di anni. L’associazione diventa definitiva quando risvegliano un momento tangibile, un’impresa sportiva, un’immagine. Esattamente il mio caso con MaliVai Washington, tennista americano classe 1969 che proprio oggi compie 46 anni. Quel sorriso rotondo, sincero, ad illuminarne un volto sereno e mai ruvido è un’immagine che ricordo con piacere. Come ricordo il suo modo di stare in campo, irreprensibile e sempre positivo, e la sua clamorosa cavalcata a Wimbledon 1996, dove raggiunse la finale in una delle edizioni più sorprendenti dei Championships. Fu di gran lunga il miglior risultato sportivo di MaliVai, buon tennista ma non proprio “campione” nel senso pieno del termine.

Oltre al fatto di aver calcato i campi in annate “infestate” da un tasso di talento clamoroso, gli è sempre mancato qualcosa per fare un salto di qualità ed entrare nella top10, che ha solo sfiorato con un best ranking al n.11 (il 26 ottobre 1993). E’ stato un giocatore completo, non banale sul piano tecnico, capace di produrre un tennis solido a tutto campo. Era impostato piuttosto bene, in modo classico anche se con rovescio a due mani, figlio di una scuola yankee “pre-Bollettieri” ancora capace di assecondare il talento e la diversità, prima di cadere in quella omologazione che continua a deprimerne il movimento. Tutto il tennis di Washington non era fatto di strappi ma di gesti rotondi, relativamente fluidi, su cui spiccava un buon servizio, anche se non sempre costante, come i due fondamentali. Gesti educati, precisi, ma non particolarmente veloci, e nemmeno dotati di un anticipo importante, quindi non capaci di generare accelerazioni imprendibili. Non molto alto (180 cm) e abbastanza robusto, era veloce e potente ma non quanto i super atleti afroamericani, tanto che le sue qualità furono più tecniche che fisiche. Non riuscì mai a costruirsi un colpo dominante al massimo livello, una soluzione con cui spaccare lo scambio ed a cui attaccarsi nei match più impegnativi. Giocava bene MaliVai, piuttosto bene soprattutto sul veloce, ma il suo limite è stato il non eccellere in niente, e questo lo costringeva contro i big a dover estrarre dalle sue corde sempre il massimo sul piano tecnico, tattico e dell’intensità, e non potersi permettere di sbagliare niente, pena finire inesorabilmente sotto.

Forse non riuscì mai a trovare una direzione tecnica precisa che potesse valorizzarne le qualità. Non era un classico attaccante, anche se quando avanzava era discreto per posizione e soluzioni; non era uno che spaccava lo scambio da dietro, un po’ leggero e a volte falloso con i fondamentali, o almeno non sempre costante; ma non era nemmeno un contrattaccante, perché se finiva troppo dietro in difesa i suoi passanti e colpi per recuperare una miglior posizione non erano decisivi. Forse ha anche pagato il momento storico in cui si imposero due modelli precisi: i grandi battitori (e lui non lo era, ed alla risposta non sempre faceva la differenza) ed i produttori di tennis in topspin, quando il suo gioco era invece piuttosto pulito e soffriva i “toppatori” di potenza, che lo forzavano ad accelerare i tempi o sbagliare. Tuttavia la sua completezza era anche uno dei suoi punti di forza. Riusciva ad adattarsi allo stile di gioco degli avversari, non aveva debolezze particolari. Quando un forte rivale non era in giornata lui si faceva trovare pronto, e si è tolto discrete soddisfazioni. Forte ma fragile, ha subito diversi infortuni, come quello al ginocchio dal quale non è riuscito a recuperare e che ne ha decretato un prematuro ritiro.

La diversità dal resto dei golden boys americani nati intorno al 1970 deriva anche dal suo percorso di crescita. Mentre Agassi, Sampras & C. scelsero fin da teenager di dedicarsi al 100% nel tennis mollando gli studi, MaliVai ha studiato, ottenuto eccellenti risultati alle superiori e poi è entrato all’università del Michigan, diventando il tennista più forte del suo college e dell’intero paese. Grazie ai suoi successi, i Michigan Wolverines vissero due tre le stagioni più dominanti della storia del tennis a livello college. Nel 1988-89 si classificò come n.1 nel ranking di giocatore universitario, e nel 1990 fu nominato “Rookie of the Year”, che gli è poi valso l’accesso alla ITA Men’s Collegiate Hall of Fame nel 2007. Oggi ricorda quegli anni come molto importanti, ma duri: “Il College non fu facile per me. Venivo da una piccola città del Michigan, trovarmi in una università così importante e competitiva fu sconvolgente… Lasciai gli studi per il tennis Pro, ma poi ho recuperato, intuendo il valore dell’educazione. Studiare con impegno non vuol dire solo ottenere buoni voti e far felice la tua famiglia, significa costruirsi una carriera, un futuro migliore. E’ quello che stiamo facendo con la mia fondazione”. Infatti MaliVai, già nel 1994, 5 anni prima di appendere la racchetta al chiodo (1999) ha aperto una fondazione totalmente votata all’aiuto dei ragazzi più bisognosi, per introdurli nella scuola e creare le condizioni per un futuro migliore.

MaliVai Washington Kids Foundation è una nonprofit locata a Jacksonville, con il focus principale nel recuperare i casi più bisognosi, come orfani, ragazze madri, giovani con malattie sessuali o problemi con la giustizia e droghe. Grazie ai suoi sforzi e di pochi amici, oggi la fondazione ha un campus per i giovani di oltre 3.000 metri quadri, con 8 campi da tennis dove i ragazzi si allenano insieme ai programmi formativi. “Credo che negli anni abbiamo aiutato oltre 20mila ragazzi, tra supporto diretto e indiretto. Usiamo il tennis come una piattaforma per la loro educazione, per formarli come uomini verso una condotta positiva a responsabile”. Qua passano spesso Pro come Venus Williams, o star dello spettacolo come Bill Cosby, con serate per raccogliere fondi. “Molti dei nostri ragazzi sono stati i primi della loro famiglia a terminare gli studi e laurearsi. Siamo cercando di interrompere il ciclo classico che vivrebbero nella loro comunità, fornendo una prospettiva ed un futuro totalmente diverso. Sono sicuro che moltissimi di loro, senza il nostro aiuto, sarebbero entrati in brutti giri: droga, criminalità, carcere. Abbiano salvato molte vite, dando una speranza concreta”. Un lavoro quotidiano, che svolge in campo in prima persona alternandolo agli studi (continua a frequentare Masters di aggiornamento), che lo rendono uno dei tennisti più impegnati e stimati del recente passato, anche perché opera senza le luci dei riflettori puntati, senza introiti da sponsor internazionali, quindi ancor più meritevole.

Oggi è campione nel sociale, ma l’immagine forte della vita sportiva di MaliVai resterà per sempre la finale raggiunta a Wimbledon 1996, una delle imprese sportive più clamorose dell’Era Open visto il livello tecnico incredibile dei Championships in quegli anni. Fu anche il primo colored a raggiungere la finale del più prestigioso torneo al mondo dai tempi di Arthur Ashe. Washington fu bravo e anche un tantino fortunato, inserendosi in un tabellone non così proibitivo, con i veri favoriti che uscirono presto (Becker, Courier, Agassi). Leggendaria fu la sua rimonta in semifinale: sotto 1-5 contro Todd Martin nel quinto set, riuscì a tornare in partita, strappando l’accesso alla finale per 10-8. “In quel momento mi sono detto: non hai più niente da perdere, tieni il servizio! Vediamo se riesce a chiudere la partita…”. E Todd non ci riuscì. Niente da fare invece in finale, dove lo stato di grazia di Richard Krajicek continuò, rendendolo ingiocabile al servizio. “Ho vissuto 13 giorni di grazia a Wimbledon, Richard ne ha vissuti 14…”. Questo il commento saggio di Washington, che ha vissuto una carriera non così lunga, riportando 4 successi in tornei ATP, e anche altre due finali prestigiose a Miami ’93 (vs. Sampras) ed Essen ’95 (vs. Muster).

Per restare alle immagini, a Washington ed a quella finale di Wimbledon 1996 è rimasto appiccicato anche il ricordo della prima invasione di una “Streaker” sui sacri court londinesi. Fu la 23enne Melissa Johnson, studentessa biondona (e discretamente esibizionista…) che con solo un grembiule addosso riuscì a far irruzione mentre i due giocatori stavano posando per la foto pre match, attraversando tutto il campo praticamente nuda. Una immagine così forte ed inconsueta che sui tabloit londinesi (e non solo) quasi oscurò il responso sportivo del campo. “Eccome se ricordo quel momento… si girò verso di noi e sorrideva tutta felice. Uno strano modo di iniziare una finale di Wimbledon….”. Beh, caro MaliVai, in quel momento anche il tuo volto si illuminò di un bel sorriso compiaciuto…

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