Gli occhi che si chiudono, la testa rivolta verso l’alto in segno di gratitudine e di sollievo, poi le ginocchia che accompagnano il corpo giù, a lasciare un bacio di commiato su quella terra rossa che è stata palcoscenico di vita.
Finisce così la carriera di Salvatore Caruso, sconfitto dal giovane Massimo Giunta al primo turno di prequalificazioni degli Internazionali BNL d’Italia sul Campo 1 del Foro Italico. Una carriera di ottimo livello in cui il tennista nato ad Avola il 15 dicembre 1992 ha raggiunto la 76ª posizione della classifica mondiale, ha vinto sei titoli Futures e due Challenger, ha battuto il top 20 ATP Borna Coric e ha superato almeno un turno nel tabellone principale di ogni Slam ad eccezione di Wimbledon, dove ha giocato nel 2019 e nel 2021 coronando uno dei sogni che aveva da bambino.
Per molti è l’ultimo italiano ad aver sconfitto Jannik Sinner (nelle qualificazioni del Masters 1000 di Cincinnati 2020), per chi ha avuto il privilegio di viverlo in campo e fuori è un ragazzo perbene, estremamente acuto e sensibile, che ha sempre vissuto il tennis con grande passione, spirito di sacrificio e razionalità nell’apprezzare ciò che il destino gli ha riservato. Ma non regalato, perché ‘Sabbo’ si è preso tutto ciò che ha potuto lavorando senza sosta, guidato per quasi tutta la carriera da coach Paolo Cannova, un altro uomo superbo. E ha capito che questo, sì, è il momento giusto per appendere la racchetta al chiodo. “Sento che non è più quello del giocatore il mio ruolo in questo mondo” confida prima di congedarsi dal Foro all’amico Paolo Lorenzi, che come lui è nato il 15 dicembre (ma 11 anni prima) e che come lui ha gettato più volte il cuore oltre l’ostacolo quando il tennis italiano non era una potenza mondiale come di questi tempi. A continuare a far sventolare alto il tricolore Caruso proverà a dare il suo contributo nella nuova veste di allenatore.
Partiamo dalla fine: cosa c’era in quel bacio alla terra rossa del Foro Italico?
“Ho deciso di chiudere al Foro per tanti motivi. Volevo chiudere un cerchio e per rispetto della mia persona e della mia carriera volevo farlo in un luogo per me simbolico e significativo. Con il Foro ho sempre avuto un rapporto di odio e amore: ci ho debuttato nel 2013, ci sono spesso arrivato in gran forma, giocando molto bene, ma alla fine ci ho vinto solo la partita contro Tennys Sandgren nel 2020. Mi piaceva l’idea di chiudere il cerchio in un luogo che mi ha dato tanto. Giocare il Foro per un italiano è una delle ambizioni più grandi. Volevo lasciarci questo ricordo. Io non sono legato a quello che la gente vede o che la gente è, ma a quello che provo io in un determinato momento. Sapevo che sarebbe stata la mia ultima partita e ammetto che dopo aver vinto il primo game ho sentito un’emozione particolare. Sono sereno per la scelta che ho fatto, ma adesso vedo chiudersi un pezzo della mia vita. La cosa che fa più male è la consapevolezza di non poter mai più provare le emozioni che il campo mi ha dato in tutti questi anni, perché per il campo provo un amore totale. Ho sempre cercato di trasferire qualcosa a chi guardava le mie partite: quel bacio finale è per me un modo per mostrare il mio rispetto per il tennis, che mi ha dato molto più di quanto avrei mai potuto immaginare”.
Qual è il tuo ricordo più bello da tennista?
“Ce ne sono tanti. Il tennis mi ha insegnato a superare i miei limiti, mi ha fatto crescere come giocatore e come uomo. Se oggi sono l’uomo che sono è sicuramente grazie alle esperienze che ho fatto in campo e alle persone che mi sono state vicino in questi anni: a volte sembrava quasi che ci credessero più loro che io. Se devo scegliere un ricordo penso all’abbraccio con coach Paolo Cannova dopo aver vinto il Challenger di Barcellona 2019 che mi valse l’ingresso nella top 100 del ranking ATP. Dieci anni di lavoro insieme per quel momento. Resilienza, caparbietà, il grande disegno che ti porta ad un traguardo. Penso a tutta la mia famiglia a Parigi per vedermi affrontare Djokovic al terzo turno del Roland Garros 2019. Mi reputo una persona molto fortunata”.
E quello più brutto?
“Ne ho avuti. Ci sono stati momenti in cui mi sono sentito perso. Nel 2018 a Francavilla al Mare persi al primo turno e iniziai a dubitare di me stesso e di quanta voglia avessi di giocare a tennis. Ho dubitato di me stesso dentro al campo da tennis. Ma penso che dai momenti brutti uno debba uscire più forte. Mi sono dato le mie risposte e con il tempo ho ritrovato la felicità. Poi ho vissuto un altro periodo molto particolare della mia vita in generale: il 2022 è stato per me un anno di sofferenza totale. Al Challenger di Parma ho avuto un malore che mi ha costretto al ritiro: mi sono sentito nudo davanti al mondo, senza difese. Si palesò un problema che avevo da mesi. Non ero depresso ma quasi. Non ero felice della mia vita, giocare a tennis era passato quasi in secondo piano. A volte fuori dal campo puoi mettere una maschera, puoi camuffare se non stai bene. Purtroppo dentro non lo puoi fare”.
Proprio nel 2022, dopo essere stato eliminato da un Challenger, ti sei definito sollevato dalla sconfitta perché non saresti stato in grado di sostenere emotivamente una banale intervista post partita. Non è stato l’unico periodo complicato della tua carriera. Cosa ti hanno insegnato quei momenti?
“Durante quel match sentivo di poter crollare da un momento all’altro. Non a caso, Parma fu pochi giorni dopo. Ho imparato che nella vita ci sono momenti non facili, momenti in cui non si è felici. Bisogna aprirsi, non chiudersi. Parlare. La comunicazione aiuta tanto. È importante far ‘entrare’ le persone che ti stanno vicino. Farsi vedere fragili non è una debolezza ma una forza. Chiedere aiuto è una forza. Ricordo che la sera dopo l’episodio di Parma andai a cena con i miei amici Alessandro Giannessi e Andrea Arnaboldi: facevo fatica a stare a cena con loro. Facevo fatica ad accettarmi nel mondo. La salute mentale è diventata importantissima nello sport e a livello umano, per chiunque. La priorità deve essere la felicità, bisogna essere onesti con se stessi”.
Torniamo al bello che hai vissuto nel tennis. Sei stato numero 76 del mondo: un traguardo che vedevi realizzabile da piccolo?
“Assolutamente no. Non credevo neanche di poter leggere il mio nome nella classifica mondiale. La top 100 era utopia. Però sono sempre stato molto ambizioso. Per me i sacrifici erano quelli che facevano i miei genitori per aiutarmi a giocare a tennis. Non li ringrazierò mai abbastanza. Io i sacrifici non li ho mai fatti. Stavo inseguendo un sogno. È stato un continuare a sognare anno dopo anno, giorno dopo giorno”.

Quando ti sei reso conto di essere arrivato a vivere i tuoi sogni?
“Purtroppo me ne sono reso conto dopo. È l’unica cosa che mi rimprovero. Quando ero al mio apice non me lo sono goduto fino in fondo. Ero sempre focalizzato sul migliorare, sull’inseguire nuovi risultati, i punti, la classifica. La vita è fatta di tante altre cose. Il tennis è stato la mia vita e continuerà ad esserlo in un altro ruolo, ma mi sarebbe piaciuto viverlo con più leggerezza. La sera prima di giocare un incontro al Foro Italico, per esempio, avrei potuto fare una passeggiata in più a Piazza di Spagna invece di pensare che avrei sprecato energie”.
Hai qualche rimpianto?
“No. Tutte le scelte che ho fatto mi hanno portato ad essere la persona che sono oggi. Va bene così. Ripeto: mi sarebbe piaciuto godermi di più i momenti positivi, con più leggerezza. Credo che mi avrebbe aiutato anche in campo”.
Perché, in uno sport così individuale e individualista, sei sempre stato così apprezzato da colleghi, allenatori e addetti ai lavori secondo te?
“Ho sempre desiderato trasmettere qualcosa. Sono sempre stato me stesso. Mi viene in mente quella foto bellissima con Alessandro Nizegorodcew quando superai le qualificazioni del Roland Garros: durante l’intervista scoppiai a piangere. Avevo superato un mio limite. Io sono un po’ così. Anche adesso che mi ritiro ho sensazioni particolari. Mi definisco uno ‘malato di emozioni’. Se mi dicessero che nei prossimi dieci anni potrei rivivere le emozioni che mi ha dato il campo a patto di dover restituire una macchina nuova, appena acquistata, accetterei senza pensarci. Magari questo essere genuino in tutte le situazioni è piaciuto alla gente. Magari anche mostrarmi fragile a livello umano è stato apprezzato”.
Cosa hai apprezzato, dal canto tuo, delle persone con cui hai condiviso questa prima parte della tua vita?
“Ho apprezzato la lealtà. Quella di Paolo, il mio allenatore. Quella dei miei genitori, silenziosi ma sempre presenti. Quella del mio storico preparatore atletico, Pino Maiori, e poi quella di Piero Intile. Sono uno che si lega alle persone e sono grato di tutte le amicizie che mi ha dato il tennis. Ci pensavo qualche giorno fa: ovunque vada in Italia posso chiamare una persona per prendere un caffè, andare a cena o chiedere un consiglio. Non è scontato. È una delle cose che ho imparato dopo. Metto una linea tra ciò che è stato prima e dopo aver compiuto trent’anni: mi sento completamente diverso e riesco ad apprezzare molto di più i piccoli momenti. Mi piace confrontarmi con le persone che riescono a darmi qualcosa, fuori e dentro il mondo del tennis”.
Cosa ti senti di dire, adesso, a coach Paolo Cannova?
“Quanto tempo abbiamo (ride, ndr)? Se non avessi incontrato Paolo sono certo che non avrei fatto i risultati che ho fatto. Abbiamo avuto momenti difficili, è normale. Quindici anni assieme, non è semplice. Paolo dormiva più con me che con sua moglie. Gli dico un banale ma doveroso grazie per le energie e il tempo che mi ha dato, per i sacrifici che ha fatto per permettermi di inseguire il mio e il nostro sogno. Lui sa cosa penso. È una persona che per me significa tantissimo”.
Qual è l’avversario che più ti ha impressionato in campo?
“Al di là di Novak Djokovic, che ho affrontato in momenti in cui giocava particolarmente bene, dico Andrey Rublev. Non ci potevo vincere mai per come colpiva la palla, per come giocava. Mi dava la sensazione di non poterlo assolutamente battere”.
Chi, al contrario, ti ha stupito di più per i risultati che ha ottenuto?
“Non voglio offendere nessuno, ma non avrei mai immaginato di poter leggere Constant Lestienne numero 48 del mondo o che Laslo Djere, che non sa fare la volée, potesse vincere tre tornei ATP. È follia ma è anche molto bello. Il tennis insegna che non contano solo le qualità tennistiche. Tante altre cose ‘fanno’ un giocatore. È facile elogiare uno che gioca come Musetti, ma ci sono pure quelli che la mattina si guardano allo specchio, potevano essere 3.1 e invece sono 50 del mondo. Un altro è Alessio Di Mauro (numero 68 ATP nel 2007, ndr), un grande esempio per me sin da quando ero bambino. In campo era intelligentissimo, così riesci a superare i tuoi limiti”.
Sei riuscito a cogliere i segreti o i dettagli che hanno reso leggendarie le carriere di Federer, Nadal e Djokovic?
“La cosa che li ha resi leggendari è l’ambizione. La fame. Quando sei ambizioso e caparbio puoi raggiungere certi obiettivi. Nonostante avessero già vinto tutto più volte hanno continuato a ripetersi nel tempo. È grazie all’ambizione”.
E le reali motivazioni dell’esplosione del tennis italiano maschile negli ultimi anni?
“È stato un po’ un ‘concorso di colpe’. La Federazione ha fatto un lavoro straordinario investendo tantissimo sull’attività giovanile e sulla preparazione dei coach. Quello che vediamo adesso è il risultato di tante cose. Secondo me l’Italia ha sempre avuto talenti pazzeschi, ma a volte non hanno trovato i mezzi per esprimersi al 100%. La scuola è cresciuta tanto, fa effetto pensare che il 10% dei migliori tennisti del mondo sia italiano. Si è fatto uno step importante nel supporto ai giocatori”.
Resterai l’ultimo italiano della storia ad aver battuto Sinner?
“Speriamo. Almeno posso giocarmi a lungo questa cosa (ride, ndr)”.
Chi sono le persone migliori che hai conosciuto nel tuo percorso?
“Al di là del mio team dico Alessandro Giannessi, persona splendida che mi ha aiutato a vedere le cose in maniera un po’ più leggera, Omar Giacalone, vero amico con cui mi sono sempre confrontato, e Federico Gaio, con cui ora sto facendo il corso da maestri e con cui arrivai in finale in doppio all’ATP 500 di Rio de Janeiro 2020”.
Prima di lasciare per l’ultima volta da tennista il Foro Italico hai detto a Paolo Lorenzi: “Sento che non è più quello del giocatore il mio ruolo in questo mondo”. Ora che piani hai?
“Vorrei replicare quello che Paolo Cannova ha fatto con me. Vorrei aiutare i giovani a raggiungere i loro sogni. Con la mia esperienza e con quello che posso dare. Il tennis è il mio mondo e lo rimarrà per tutta la vita”.
Chiudiamo con un pensiero: hai davanti il tennis, quella che è stata sostanzialmente la tua ragione di vita sin qui. Cosa gli dici?
“È stato un viaggio meraviglioso. Ringrazio il tennis per tutti i momenti che mi ha regalato, per tutte le emozioni che ci siamo dati a vicenda. Credo di aver lasciato qualcosa al dio tennis e probabilmente ho preso molto di più. Sono emozioni fortissime che porterò nel mio cuore per sempre. Spero di viverne altre in un’altra veste. Ringrazio il tennis per la persona che mi ha fatto diventare”.
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