A tu per tu con… Federico Ferrero

Federico Ferrero
di Luca Brancher

Federico Ferrero è una delle voci di punta del tennis su Eurosport, e poiché attraverso il network di casa francese ci giungono, anche, tre dei quattro Slam, molti di noi, col tempo, sono entrati in confidenza col suo modo, molto educato e raffinato, di fare la telecronaca. Federico è tennis, ma non solo: in questa intervista abbiamo cercato di conoscerlo meglio, provando a farne uscire un suo profilo a 360 gradi, dal suo amore sportivo per Michael Stich, al suo interesse per la vicenda giudiziaria che ha ridefinito la scena politica italiana, provando a ricostruire così tutta la sua storia.

Federico, sono dieci anni ormai che ti occupi di telecronache di tennis su Eurosport, una cosa per te ormai consolidata, eppure inizialmente non era così scontata. Ed anche il tuo esordio fu molto particolare.
E’ vero, quando Antonio Costanzo, all’epoca il commentatore principe della rete, mi prese da Il Tennis Italiano, dovevo prevalentemente occuparmi, all’interno della redazione, dei bollettini e dei testi per i notiziari, sebbene la sua intenzione fosse quella di integrarmi nel team tennis. A dire il vero, io preferivo scrivere piuttosto che parlare in televisione, per cui il fatto che per i primi mesi non mi avessero tenuto in considerazione come commentatore non mi disturbava affatto, anzi, non mi sentivo particolarmente tagliato! Accadde però che un giorno Antonio mi disse “Federico, tra poco scendi – le cabine di commento si trovavano al piano inferiore rispetto alla normale redazione – che facciamo una prova.” Convinto che mi avrebbero fatto una canonica prova con un dvd registrato mi presentai abbastanza tranquillo, fino a quando sentii le seguenti parole “Appena finisce l’avvenimento che sta andando ora in onda, entri tu in diretta”: scoprii così che per Antonio non esisteva prova migliore del commento live. La situazione era la seguente: entravo in diretta TV con un match già iniziato e non mi ero nemmeno preparato sull’incontro in questione – era il quarto di finale del torneo di Vienna tra David Nalbandian e Juan Carlos Ferrero: il risultato fu che per i primi cinque minuti non pronunciai più di tre parole, tale fu il trauma.

A proposito di preparazione: il vostro lavoro è visto come una “professione dei sogni”, perché viene percepito banalmente come un “parlare di sport”, che genericamente è quello che molte persone fanno per svago. Eppure, a prescindere da questo, ci sono tante insidie che non vengono tenute in considerazione.
Banalmente si può dire che le difficoltà della telecronaca le percepisci soltanto nel momento stesso in cui cominci a farla. Non importa quanto tu possa sentirti preparato, se non ne hai mai fatta una, solo nel momento in cui sei in diretta capisci quanto possa essere insidioso. Quando parlo? Quanto parlo? C’è il rischio di farlo troppo, o al contrario troppo poco. E poi c’è il versante tecnico: un bravo cronista si deve preparare bene, ma sa che di quello che ha pronto da dire ne userà, se va bene, il 30%; quello che però non potrà raccontare non è sprecato, intanto lo sa e poi magari nella partita successiva lo utilizzerà. In questo modo ci si crea il proprio bagaglio di conoscenze, che col tempo si impara a spendere: ci sono dei momenti in cui è folle parlare di avvenimenti che non siano strettamente legati al campo. C’è un elemento che negli ultimi anni ha però complicato il modo di lavorare di noi italiani, dovuto al fatto che non andiamo più in trasferta: sembra paradossale, ma se da un lato la tecnologia ha fatto passi da gigante, e le immagini attraverso l’HD sono sempre migliori, dall’altro il non andare più sul posto non aiuta altrettanto.

Durante un’altra intervista che ho avuto modo di sbirciare in rete hai, a questo proposito, detto che ormai “il 90% dei giornalisti sta davanti ad un computer con le cuffie a fare ricerche”.
Sì, questo è un effetto della crisi che sta facendo cambiare le strategie aziendali. Ora noi vediamo le stesse immagini che vedete voi, ma se c’è un evento e vai sul posto, lo capisci e vivi meglio e conseguentemente lo puoi raccontare in maniera più dettagliata. Questo non ci è più possibile, e capita che si finisce con lo scrivere e raccontare le stesse cose, in maniera differente, magari, ma le notizie che circolano sono sempre quelle.

Gianni Ocleppo e Federico FerreroLe telecronache di questi tempi sono quasi sempre effettuate in coppia, c’è un tipo di opinionista che gradisci avere al tuo fianco. Non ti chiedo nomi, ma proprio una preferenza tecnica, se l’ex-giocatore, oppure uno informato sui numeri, ecc.
In genere la telecronaca in coppia mi piace, chiaramente se l’ex-giocatore sa dare quello che la prima voce non fornisce, quindi riesce a spiegare perché si verificano determinate situazioni. Il problema, però, è trovarlo questo ex-tennista, perché il bacino, differentemente dal calcio, è molto ristretto, non ci sono stati tanti giocatori italiani ad alti livelli, e se poi aggiungi che a qualcuno non interessa l’esperienza, non resta molto da cui pescare.  A me non dispiace l’idea di avere a fianco un ex-giocatore, magari non fine letterato, che però riesce a spiegare ciò che uno sguardo superficiale non è in grado di vedere, anche se noi in Italia abbiamo un precedente, vale a dire Tommasi-Clerici, che ha ridefinito il concetto di telecronaca. Un connubio molto particolare, perché entrambi avevano un retaggio comune, in passato giocatori, poi giornalisti, uno addirittura scrittore, è stata una combinazione assolutamente irripetibile. Poter commentare con Clerici sarebbe un sogno che si avvera, anche se lui è un giudice molto severo, odia le banalità, i luoghi comuni, per cui dovrei stare molto attento.

Tommasi e Clerici sono una sorta di totem nel mondo del giornalismo sportivo, due icone inarrivabili.
Sono stati due miti, appunto due personaggi che per varie ragioni rimarranno ineguagliati. Quando si dice “Gianni e Rino non hanno lasciato figli” è vero, un po’ per le ragioni che prima ti dicevo, ovvero le loro evidenti qualità e capacità, ma anche perché all’epoca era possibile viaggiare, seguire dal vivo Slam, Davis, Super-9 ed altre competizioni e  questo ti permetteva di conoscere e carpire cose che ora, dallo studio, è impossibile.

Abbiamo già raccontato del tuo battesimo di fuoco con la telecronaca, inoltre abbiamo scoperto che, in famiglia, non tutti erano contenti che in te ardesse l’amore per il tennis.
Già, mia madre non era molto contenta che io seguissi il tennis, a lei interessava soltanto che io avessi tutti 9 al Liceo: italiano, greco e latino, questi erano i capisaldi della sua cultura e dei suoi valori, tutto quello che esulava da quelle materie era inevitabilmente tempo perso. Ho svariati ricordi a tal proposito, ad esempio di un Camporese esaltante in Davis il giorno prima di un test di greco, e lei che voleva che io studiassi. Sono cresciuto lungo questo doppio binario, da una parte l’amore per questo sport, dall’altro lo studio. Arrivò poi la terribile vendetta: quando nacque Telepiù, col segnale criptato, in casa, ovviamente, non comprarono l’abbonamento, per cui io avevo due opzioni, soprattutto per gli Slam. O andavo al bar, ma chiaramente tenere sempre il tennis, soprattutto se in contemporanea c’era qualche partita di calcio, faceva fuggire i clienti, per cui non me lo permettevano sempre, oppure c’era questo amico, piuttosto appassionato di tecnologia, che aveva scoperto che, aggiungendo un’antenna portatile alla potenza del normale cavo dell’antenna di casa, era possibile prendere molto bene il normale segnale di Telepiù, chiaramente in negativo e senza alcun commento. In questa maniera ho visto varie partite complete, e quando ho avuto l’occasione l’ho raccontato a Rino.

Questo spiega molto bene quale fosse la tua passione per questo sport, se a tanto ti sei spinto per vedere un match. C’è stato, a tal proposito, un incontro che hai commentato che ricordi particolarmente e, allo stesso tempo, una partita che avresti voluto fare, ma per svariate ragioni non hai potuto?
Tra quelle che ho fatto, sicuramente la semifinale tra Djokovic e Federer al Roland Garros del 2011, fu un momento molto particolare, il serbo non aveva ancora perso una partita quell’anno, e lo svizzero giocò un incontro memorabile per superarlo. Ricordo ancora l’atmosfera particolare, il pubblico tutto per lo svizzero, le tribune e le cabine che, sul finire dell’incontro, tremavano. Era quasi sera, lo stadio era molto caldo, nonostante la temperatura indicasse tutt’altro, e quando ce ne andammo la gente sembrava che fosse stata ad un concerto dei Led Zeppelin, perché dai loro visi traspariva il fatto di aver assistito a qualcosa di storico. Di quelle che non ho fatto è difficile, perché ce ne sarebbero troppe, per esempio la finale di Wimbledon del 1980, McEnroe-Borg, ma anche solo il tie break del quarto set sarebbe stato sufficiente (n.d.r. vinse lo svedese, ma John si aggiudicò il quarto dopo un tie break di 34 punti).

C’era un giocatore che amavi?
Sì, Michael Stich, impazzivo per lui, ma senza un reale motivo, mi piaceva chiaramente come giocava, ma all’epoca erano tanti i giocatori che sapevano farlo, e perlopiù era anche antipatico: c’era però qualcosa che mi catturava, capitava che tifassi per lui anche quando giocava contro gli italiani.
Federico FerreroEcco, magari commentare la finale di Wimbledon 1991 (vinta da Stich su Becker, dopo che in semifinale aveva sconfitto Edberg, i due padroni del prato inglese negli anni precedenti) ti sarebbe piaciuto particolarmente.
In quel caso avrei testato la mia integrità, perché davvero ero un suo grande tifoso. Però, attenzione, secondo me l’imparzialità non esiste, l’importante è non perdere l’obiettività mentre si racconta una partita, non ci deve essere alcuna contaminazione. Un conto è cosa senti dentro, un altro è cosa trasmetti, uno può pure essere triste se, per esempio, Djokovic sbaglia un punto clamoroso, ma non deve urlare “Nooooooo” come farebbe un tifoso – a meno che non sia frutto di un pacchiano errore, e l’urlo vorrebbe sottolineare quello: non si deve sentire che dentro ti stai contorcendo dal dolore. Qualora capitasse, vorrebbe dire che il problema sta a monte, ovvero nella mancanza di una scuola di giornalismo: se tu intervistassi la gente di questo settore e gli domandassi “Chi ti ha insegnato questo lavoro?” Ti risponderebbe “Nessuno, l’ho imparato da me.” E questo è sbagliato, perché è pur sempre un mestiere come gli altri, e, o sei un talento naturale, ed allora non c’è problema, oppure è necessario impararlo dalle persone giuste. Certo, stiamo parlando di tennis, ed in assoluto un match mal commentato non è un gran problema, con un errore non causi una terza guerra mondiale e si sopravvive comunque, però si nota.

Entrando più nel tennis giocato, su Tennisbest è uscito un tuo articolo molto sentito su Gilles Simon, giocatore che ti lega ad un episodio datato, ma curioso, e che vale la pena raccontare.
Durante gli Internazionali di Roma del 2008 ebbi modo di chiacchierare con Claudio Pistolesi e ad un certo punto gli dissi “Secondo me quest’anno Simon entra nei 10 e va al Master”. Lì per lì mi guardò stupito dicendo “Vabbè, ora non esageriamo”, poi capii che forse, visto che tendo a parlare molto velocemente, lui aveva inteso Simone, ovvero Bolelli, che all’epoca seguiva come allenatore. Rientrato a Milano raccontai l’accaduto a Jacopo Lo Monaco, sottolineandogli la mia previsione sul francese, e lui propose una scommessa, certo che non sarebbe avvenuto, con una bella cena con tanto di champagne come premio. Poi la stagione si mise su binari favorevoli all’avveramento di tale profezia e ricordo in particolare il torneo di Madrid  – che sancì l’entrata nei 10 – quando ancora era indoor, in cui Gilles vinse un sacco di partite 7-6 al terzo, anche la semifinale con Nadal, e Jacopo continuava a mandarmi sms chiedendomi “Ma no, ancora 7-6?”. Fu molto divertente, anche perché la scommessa la vinsi.

Ad inizio anno era numero 33, ed aveva una considerazione non propriamente altissima tra appassionati ed addetti ai lavori, se avessi trovato qualche bookmaker disposto ad accettare una scommessa su questo avvenimento, avresti fatto un sacco di soldi.
Sì, se non fosse che non mi piace scommettere, proprio perché non mi appassiona, ogni tanto a questo fatto ci penso. Quando l’ho incontrato a Marsiglia, durante il torneo, l’ho anche detto a Simon. “Grazie a te ho vinto una bella scommessa…”

Gilles è un giocatore, ma anche un personaggio, abbastanza atipico.
E’ simpatico, ma va preso perché è un tipo complicato, mi piace il suo modo di spiegare le cose perché non dà risposte prefabbricate. Le conferenze stampe dei tornei, andassi sul posto, le diserterei, perché abitualmente domande e risposte non hanno alcunché di interessante: risparmio tempo io e lo faccio risparmiare ai giocatori, se non c’è uno scambio d’opinione intelligente. Ormai servono soltanto per dire cose che non contano nulla (“Sto bene, sono contento di come ho giocato”), le impressioni reali le trovi altrove, come sui social network. Durante la Davis, per esempio, Murray su Twitter si è scagliato contro i commentatori di Eurosport, rei a suo dire di aver pronunciato giudizi poco giusti, ma in conferenza stampa mai si sognerebbe di esprimere un parere del genere, oppure di spiegarti come vorrebbe battere il suo prossimo avversario. Simon è diverso perché dice quello che pensa, gli altri lo pensano, ma non hanno interesse a dirtelo.

Simon ha ormai superato i 30 anni, eppure pare un giocatore molto lontano da un ipotetico ritiro, da questo punto di vista il tennis è molto cambiato.
Sì, nel giro di venti anni i giocatori sono diventati molto più longevi, pensiamo ad un Feliciano Lopez, che quest’anno compie 34 anni, a nessuno verrebbe in mente di chiamarlo vecchio, come invece accadde a John McEnroe, per esempio, nel 1992, quando batté Boris Becker in Australia, eppure aveva 33 anni! Questo ha sicuramente inciso sull’elevamento dell’età media dei top-100, unita al fatto che nello sport la componente fisica ha iniziato a rivestire un ruolo sempre più determinante, ed allora per un ragazzino è sempre più difficile imporsi: la maturità atletica è fondamentale, un diciottenne è difficile che arrivi subito in posizioni di ranking di un certo livello e se accade, come per Kyrgios, capita che spesso si infortuni. Infine c’è un altro discorso che frena la crescita dei giovani, ovvero il fatto che i tornei minori, parlo di challenger e futures, sono popolati da giocatori molto più forti di un tempo, la competitività si è molto elevata, tanti giocatori mi hanno detto che, girando per i circuiti minori, disputano match con gente che per capacità fatichi a capire come possa non essere negli ATP – poi una motivazione chiaramente c’è. Aiuta poi il fatto che le serie storiche indicano come ci siano state annate più fortunate ed altre meno: ricordo da giovane come fantasticassi su quali fenomeni sarebbero usciti dalla mia classe, la 1976, poi alla fine, insomma, probabilmente Philippoussis è stato il più forte tra i miei coetanei.

A me è andata decisamente meglio, sono del 1981.
Sì, tu hai davvero l’imbarazzo della scelta. Comunque ora si stanno mettendo in mostra molti giovani, a me per esempio piace molto Alexander Zverev, ma aspetto prima di pronunciarmi su cosa possa diventare perché sta ancora crescendo, fisicamente è tutt’altro che formato, anzi speriamo non cresca troppo, perché se supera i 2 metri poi diventa dura..

Oltre al tennis, sono note due tue grandi passioni ed interessi: Tangentopoli e l’omicidio Kennedy. Sul primo di questi due argomenti hai anche prodotto la tua prima fatica da scrittore, parlo del libro “Alla fine della fiera”. Come mai ha scelto di concentrare la tua opera su questo?
Alla fine della fiera ha ormai tre anni, visto che lo abbiamo fatto uscire il 17 febbraio 2012, ovvero a 20 anni dall’arresto di Mario Chiesa – il primo dell’intera operazione. Ho scelto questo e non Kennedy, per esempio, perché, pur avendo l’idea di far uscire qualcosa per il cinquantennale dell’omicidio del presidente degli Stati Uniti d’America – 22 novembre 2013 – capii che il più era stato scritto, ed avrei dovuto fare un lavoro di sensazionalismo giornalistico e mi sono accorto, confortato dal giudizio di alcuni editor, che un libro così in Italia avrebbe mal funzionato. Su Mani Pulite invece era diverso: innanzitutto perché all’epoca l’intera questione aveva preso parecchio, ricordo che al mio Liceo tutti arrivavamo a scuola col giornale per scoprire chi il giorno prima era stato arrestato, chi aveva ricevuto un avviso di garanzia, era un argomento di cui si discuteva anche nei bar: l’idea piacque subito all’ADD, che decise dunque di pubblicarlo.

Alla fine della fieraIl libro è piuttosto particolare, hai cercato di descrivere l’intera vicenda attraverso sette interviste in cui racconti le storie di personaggi, politici e non, di diverse aree, parlando sia del loro coinvolgimento, sia di come ne siano usciti. Avevi già scelto questi sette personaggi (Magni, l’imprenditore che fece la denuncia a Chiesa, Leoni Orsenigo, il deputato leghista che divenne famoso per aver agitato il cappio a Montecitorio, Mongini, avvocato democristiano molto in voga nell’ambiente milanese, Zamorani, manager pubblico, Moroni, figlia del deputato suicida del PSI, Greganti, tesoriere del PCI, il partito meno coinvolto, e Patelli, l’unico leghista che pagò all’epoca) oppure qualcuno che avresti voluto non si è prestato?
Sì, più o meno avevo scelto questi e non fu facile rintracciarli, perché certi erano completamente spariti dalla scena, come per esempio Magni, che infatti inizialmente era piuttosto diffidente, ma poi si è comunque concesso. Nell’elenco c’erano anche Sergio Cusani, che stava però preparando un suo lavoro, Carlo Sama, che ebbe un problema familiare, e Paolo Pillitteri, che continuava a darsi malato visto che aveva capito dove andava a parere l’intervista.

Il passaggio finale dell’introduzione all’intervista è abbastanza emblematico. “Abbiamo avuto i morti, abbiamo cacciato alcuni ladri, abbiamo dato fuoco al palazzo, ma forse abbiamo chiesto ai giudici quello che non potevamo avere: renderci italiani migliori”
Da quanto si apprende anche in questi giorni non pare che la situazione sia migliorata, anzi, ci sono stati degli scandali anche peggiori. I magistrati non potevano fare tutto, come l’opinione pubblica erroneamente si attendeva, perché la società migliore la possiamo rendere soltanto noi, a partire dai singoli comportamenti privati. Ho incontrato molte persone che si sono sperticate di lodi per libro, mostravano grande indignazione nei confronti dei politici corrotti, però poi si lasciavano scappare che “faccio uno scontrino su due perché altrimenti chiudo.” Allora la lezione non ci è servita, se siamo ancora quelli che telefonano al cugino che sta nella commissione edilizia per fare una finestra dove non sarebbe possibile, tanto è vero che Gherardo Colombo narra di come la popolarità di Mani Pulite sia scemata quando, in una delle sue diramazioni, arrivò a indagare sull’evasione fiscale delle aziende italiane, i cui proprietari si indignarono “Perché venite da me, ci sono i politici che sono corrotti”. Se la pensi così, e agisci in questo modo, allora non va bene. Ogni anno faccio la dichiarazione dei redditi, non trovo giusta la pressione fiscale che porta a versare nelle casse dello Stato metà di quello che guadagno, visto il servizio ricevuto, però non è che posso dire “allora metà delle tasse non le pago.”  Pago e protesto per il mancato servizio, nel caso, non è che decido di decurtarmi le tasse.

A proposito di italiani migliori, non si può certo negare che in quest’ultimo decennio l’Italia del tennis abbia ottenuto risultati di un certo prestigio, uno Slam in singolare un Career Grand Slam nel doppio femminile, uno Slam recentemente anche nel doppio maschile. Eppure questo 2015 ha regalato due battute d’arresto nelle competizioni a squadre, qual è la tua opinione in merito? E’ tempo di un cambio in panchina?
Penso di sì, ma lo penso a prescindere da Barazzutti, perché al di là di meriti o demeriti, vedo che altre federazioni hanno capitani molto più vicini culturalmente ai propri giocatori, mentre Corrado ha smesso di giocare quando i suoi giocatori attuali dovevano ancora nascere, e secondo me questo è importante, a prescindere dal fatto che io non apprezzi le sue qualità come capitano: andrebbe secondo me cambiato, ma le scelte vengono fatte con criteri poco noti, in totale autonomia e tranquillità, infatti sono restii agli avvicendamenti. Scontiamo anche in questo settore vecchi modi di pensare, secondo cui l’allenatore deve essere in buoni rapporti col presidente, ma, se io fossi il presidente, cercherei l’allenatore vincente, non quello che mi sta simpatico…

Dopo un’ora serrata di domande e risposte, congedo Federico che molto gentilmente si è concesso ai nostri microfoni, chiedendogli quando lo ritroveremo in cabina di commento “Trasmetteremo Katowice” mi dice, il torneo che lo scorso anno vide Camila Giorgi ad un passo dal suo sogno. Giorgi, già, uno degli argomenti di discussione preferito dagli appassionati, ma il tempo scorre e non vogliono rubare altro tempo a Ferrero ed alle sue incombenze, consapevole che quanto già mi ha trasmesso è una bella fetta della sua esperienza.

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