Doppio misto, doppio volto: il business funziona, ma senza i doppisti

L. Ercoli
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Andrea Vavassori e Sara Errani - Foto Mike Frey / IPA

Vi sfido: riuscite a ricordare il nome di una coppia che abbia vinto di recente un titolo di doppio misto? Vavassori/Errani non valgono, ovviamente. Qualcuno tra i nostri lettori saprà sicuramente rispondere senza esitazioni. Più difficile che la risposta arrivi da uno dei circa 20.000 spettatori che hanno affollato l’Arthur Ashe nella giornata conclusiva del nuovo evento di doppio misto agli US Open 2025.

L’Italia festeggia il secondo trionfo consecutivo di Andrea Vavassori e Sara Errani, un risultato che mette d’accordo tutti. È un successo che sa di rivincita per l’intero movimento del doppio, che attraverso la prestazione dei due azzurri dimostra l’importanza di tattica e coesione sopra le qualità individuali delle stelle del singolare. Dare prova di ciò non era affatto scontato, come ha ricordato Wave in conferenza stampa: “Senza le nostre dichiarazioni critiche sull’evento, non so se saremmo stati invitati a difendere il titolo”. Sorride anche l’organizzazione dello Slam newyorkese: al netto di qualche forfait dell’ultima ora, l’evento ha preso esattamente la forma sognata. Due giorni in più con gli spalti del Centrale pieni, e un racconto mediatico abile, che ha saputo cavalcare anche la missione di Andrea e Sara. 

A torneo concluso, il punto non è più tanto elencare pregi e difetti del formato. La vera questione è un’altra: trovare l’equilibrio tra il rispetto di certe logiche di principio, di una tradizione da preservare e di una categoria intera di tennisti – anche a costo di andare controcorrente sul piano economico – e una nuova realtà che, per quanto perfettibile, per un paio di giorni ha messo il doppio misto al centro della scena. Il tutto ancora prima che si giocasse un solo quindici.

MEDIATICITÀ E STAR POWER

Dal totò-coppie al momento dell’annuncio al pienone dell’Arthur Ashe: il successo commerciale di questo primo esperimento con il doppio misto è difficilmente contestabile. Otto ingressi determinati dalla commistione del ranking di singolare e otto wild card assegnate a discrezione avevano subito lasciato intuire che di veri doppisti in campo se ne sarebbero visti pochi, se non nessuno. A sottolinearlo era stato lo stesso Andrea Vavassori in una lettera scritta il giorno dopo l’annuncio. Ma per il pubblico della Gen Z, bramato da ogni organizzatore di eventi, le dinamiche da Love Island nella composizione delle coppie sono risultate coinvolgenti, per quanto puro frutto della loro fantasia.

Basta infatti un minimo di pragmatismo per non stupirsi troppo nel sapere che Draper e Pegula prima di giocare insieme si sono detti sì e no quattro parole. Che la coppia Sinner/Navarro fosse stata formata direttamente dall’organizzazione. O che, nel sostituire Paolini con McNally, non ci sia stato alcun coinvolgimento attivo di Musetti: solo un passaggio tra agenti e torneo, con l’americana messa davanti alla proposta e 60 secondi per decidere.

E il livello del tabellone, alla fine, com’è stato davvero? Le defezioni ci sono state, inutile negarlo. Ma da italiani il nostro sguardo rischia di essere distorto in entrambe le direzioni: da un lato tendiamo a vivere come traumi le assenze di Sinner e Paolini, dall’altro diamo per scontato che l’impresa di Vavassori ed Errani abbia catalizzato l’interesse anche fuori dai nostri confini nazionali. Eppure, nomi alla mano, erano presenti in tanti: in campo sono scesi sei top ten uomini e sei top ten donne, con l’aggiunta di campioni Slam come Medvedev e Osaka. E, dettaglio non trascurabile, l’apparizione di Venus Williams. Le stelle, insomma, non sono mancate.

IL FORMAT E I MATCH

Set ai 4 fino alla finale, con sudden death sul 40-40 e match tie-break al terzo. Solo nell’atto conclusivo si è tornati al set tradizionale ai 6. Se vuoi coinvolgere singolaristi di questo calibro, è una scelta necessaria. Così come è inevitabile collocare l’evento nella settimana delle qualificazioni: ti regala due giorni in più di incassi reali e permette di concentrare tutta la visibilità sull’evento. Da questo punto di vista, gli americani sanno bene quello che fanno.

E il livello in campo? Draper, in conferenza, si è lasciato sfuggire una mezza gaffe: “Alla fine è un po’ un’esibizione”. Pronto il rimprovero della compagna Pegula: “Non dovresti dire così”. La verità, come spesso accade, sta nel mezzo. Non tutti hanno giocato col coltello tra i denti; anche volendo, senza una vera intesa in doppio, è difficile vedere un livello stellare. Sicuramente, non ci si è avvicinati a quello degli specialisti.

Eppure, schierare in campo volti noti, anche in match solo parzialmente competitivi, fa comunque la differenza. Non è un caso se la semifinale tra Swiatek/Ruud e Draper/Pegula è stata la più apprezzata dal pubblico, pur con tutte le sue imperfezioni tattiche. Conoscere chi c’è in campo rende tutto più coinvolgente per lo spettatore. Sicuramente è stato diverso dalle esibizioni pre torneo con tie-break secchi e la necessità di far divertire. Senza microfoni ad archetto e con un buon montepremi in palio il tono si è fatto un po’ più serio, e chi è arrivato in fondo ha davvero provato a vincere.

E ora? Cosa fare in futuro? Difficile dirlo. Si potrebbe pensare a un tabellone da 32 coppie: sarebbe solo un match in più – come ha sottolineato lo stesso Vavassori – e si potrebbe dare più spazio ai doppisti. Ma c’è un rischio concreto: quello di arrivare a una fase finale dominata da coppie tradizionali. Sportivamente sarebbe più corretto, ma anche l’esatto scenario che il torneo vuole evitare. Perché significherebbe, in fondo, ritrovarsi punto e a capo.

MONTEPREMI E FUTURO

Dai 200.000 dollari dello scorso anno si è passati al milione per i campioni del misto. Una notizia eccellente per Vavassori ed Errani, che oltre al guadagno economico hanno raccolto un dividendo emozionale unico: vincere davanti a un Arthur Ashe gremito, contro Iga Swiatek e Casper Ruud, con tutti i riflettori dello Slam puntati su quel match. Emozioni che potevano vivere solo in questo tipo di contesto.

Il montepremi complessivo del misto è stato di 2.360.000 dollari: cifra importante, se non fosse che, essendo quasi tutti singolaristi i partecipanti, si è finito semplicemente per distribuire più soldi a loro, escludendo di fatto una categoria di specialisti che nei tornei dello Slam trova nel misto una fonte di sostentamento e visibilità. I ricchi sempre più ricchi: un approccio marcatamente trumpiano di questi US Open, lo stesso che ha fatto discutere anche nel singolare, dove i vincitori incasseranno 5 milioni di dollari (il 39% in più rispetto all’anno scorso), mentre i primi turni non hanno visto aumenti proporzionati. La lettera firmata dai Top 20 e respinta in blocco dai quattro Slam, se ha prodotto effetti, lo ha fatto a vantaggio dei soliti noti e non della collettività.

Ora resta da capire quale direzione prenderanno gli altri Slam: seguiranno l’onda del misto o sceglieranno un approccio diverso? Il doppio ha certamente ricevuto una vetrina straordinaria, ma con il rischio che ad attirare siano stati più i nomi che la disciplina in sé. Se davvero si vorrà dare continuità al formato in modo equo, servirà una soluzione che premi anche il merito sportivo degli specialisti. Non è detto, però, che rientri negli interessi di chi organizza. Sul piano mediatico e commerciale, il successo è stato evidente. Ma non è certo una sorpresa. D’altronde, è sempre più facile accontentare pochi pesci grandi che trovare il modo di far nuotare tutti.

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