Tennis Diaries (Puntata 1)


(Pablo Carreno-Busta)

di Luca Brancher

Tante volte, quasi sempre a dire il vero, quando gioco a tennis ed oltrepasso la fatidica ora, avverto l’ineluttabile stanchezza che avvolge il mio vetusto fisico da atleta mai completamente realizzatosi nell’irrigidimento della parte bassa del mio corpo, che, ogni qualvolta mi appresto a servire, respinge al mittente ogni desiderio di piegamento che il mio cervello si augurerebbe, lasciando così al braccio l’onere di mettere un campo una prima di servizio che sia quantomeno inattaccabile. E non voglio nemmeno pensare a cosa può succedere con la seconda. Poi ripenso che John Isner, nell’epico scontro che lo vedeva fronteggiare Nicholas Mahut, di prime in campo, lungo le 11 ore, ne ha messe in campo 3 su 4; ed allora le gambe cominciano, almeno in parte, ad assecondare il cervello. O insomma, ci provano. E tutto questo per dire che la volontà, oltre alla fiducia, non solo laddove i mezzi tecnici non sono così distanti, è la chiave di tanti successi, anche insperati.

Sul finire del 2011 mi fu chiesto di redigere alcuni articoli su giocatori più o meno giovani che a mio insindacabile giudizio avrebbero potuto sfondare o almeno crescere nel corso della stagione che di lì a poco avrebbe avuto inizio. A ritroso devo dire che, come spesso già accaduto in passato, sono stato buonissimo profeta dal momento che tra i prescelti c’erano tennisti ormai ritiratisi (come Harri Heliovaara, vabbè voleva essere un colpo a sorpresa) ed infortunati di lungo corso (Thomas Schoorel), oltre all’emblema di cosa vuol dire essere un uccello del malaugurio. Fino al 2011, infatti, la carriera di Pablo Carreno-Busta era stata sicuramente positiva, il 2012, l’anno in cui stando a quanto da me scritto si sarebbe dovuta formalizzare la sua consacrazione, si è concretizzato l’unico momento di pausa nella sua ascesa, prima di un 2013 in cui l’asturiano è passato dalle qualificazioni dei tornei disputati nei resort turchi alle semifinali dell’ATP di Oeiras fino alla sfida con Roger Federer al Roland Garros. Così, senza passare dal via.

Pablo Carreno-Busta è diventato famoso, in questa prima parte di stagione, per il suo cannibalismo in campo future. Novello Eddy Merckx, Pablo, ad un certo punto, sembrava incapace di venire sconfitto, come se ogni partita avesse un unico possibile esito: la sua vittoria. Un incubo, insomma, per i suoi avversari, tra cui il pur meritevole Jordi Samper-Montana, che lo incrociò, ahilui, nella finale del torneo di Badalona, tappa future spagnola di metà marzo. Jordi, dopo aver vinto la prima frazione per 6-2, era stato sul punto di spegnersi quando Carreno-Busta aveva reindossato i panni del dominatore che ormai in Spagna, in quelle settimane, avevano imparato a conoscere. Il match sembrava incanalarsi facilmente in favore del giovane Pablo, a maggior ragione dopo il 6-1 con cui spingeva la contesa alla terza frazione, ma qualcosa di strano, però, nell’aria c’era, in quella tarda domenica mattina. D’altronde non tutto può sempre andare liscio, nemmeno quando ti senti invincibile e vieni da 29 vittorie consecutive, e così, tra l’incredulità di un pubblico abituato a ben altro, Samper-Montana teneva un turno di battuta, breakkava facilmente e poi, pur con qualche affanno, si portava sul 3-0. Troppo presto per decretare la morte tennistica di Carreno, sebbene, quando al servizio lo si assisteva perdere i primi due punti, un pensierino al fatto che il record di Brugues-Davi non avrebbe più avuto modo di vacillare non veniva rigettato a priori.

Come si era detto, però, guai a dare per sconfitto uno che non perde mai. Dall’1-4, infatti, Pablo vinceva un paio di game molto combattuti ed eccolo impattare sul 4 pari; bene, ora la ruota girerà in suo favore, no? No. Samper-Montana, a questo punto in barba all’inerzia ed alla logica che lo avrebbe voluto presto sconfitto, trovava lo spazio per piazzare 6 punticini che lo portavano a due sole lunghezze dal titolo. 5-4 0-30 su servizio avversario. Fatta? Macchè, Carreno risorgeva ancora (Lazzaro a questo punto fa la figura del poppante) e trovava la via per riequilibrare la situazione ancora: prima sul 5-5, poi sul 6-6. Tie break: tutti d’accordo, questa volta, sul fatto che il favorito a questo punto doveva essere Carreno-Busta, più abituato al successo, più capace di giocare bene i punti importanti e reduce da una rimonta incoraggiante? Si direbbe così, no? Ed allora come mai, al cambio di campo stabilito dopo i primi 6 punti, il buon Jordi Samper-Montana conduceva per 5-1, con ben due mini-break di vantaggio? Non ci è dato saperlo, così come non comprendiamo come il tennista iberico più invidiato del circuito future sia riuscito, dopo tre match point annullati ed alla prima occasione in suo favore, a chiudere la contesa in proprio favore. 9-7. Record ancora attivo e sesto titolo in cascina per lui, mentre il povero Jordi si trovava costretto a scappare in Medio-Oriente per proseguire la sua stagione.

Insomma, volontà e fiducia. Non saranno le uniche chiavi per sfondare, ma contano quanto un bel dritto od una buona prima e, qualora abbinassi il tutto, allora puoi diventare un campione da record. Oppure vincere un match da record, proprio come John Isner contro Mahut. La portata di quell’evento fu strabordante, un qualcosa di cui discutere ovunque e con chiunque – anche con chi, all’apparenza, di tennis avresti fatto fatica a parlare – non fosse che nelle ore in cui si stava concludendo l’incontro, col passante di rovescio del ragazzo di Greensboro a segno, l’Italia piangeva ed apriva il suo tribunale preferito, quello calcistico, per processare la nostra nazionale rea di non essere sopravvissuta alle forche caudine di un girone mondiale che la vedeva opposta a nazioni poco abituate a palcoscenici di questo genere, non tanto il Paraguay, quanto la Nuova Zelanda e la Slovacchia.

Tutto vero. Carreno-Busta, dopo Badalona, si sarebbe preso la soddisfazione di aggiudicarsi la settima corona ITF dell’anno andando a segno sui campi veloci di Villajoyosa, superando, tra gli altri, anche quel Brugues-Davi di cui prima avevamo fatto menzione. E’ piuttosto curioso quante analogie vi siano tra queste due carriere, o perlomeno tra l’annata in corso del 21enne asturiano e il 2011 dell’atipico catalano. Originario di Vic, Arnau, che quest’anno compirà 28 anni, nacque nel posto sbagliato al momento giusto, perché, per quanto sia stato investito anche lui dall’onda tennistica che aveva invaso la Spagna ai tempi dell’esplosione di Sergi Bruguera al Roland Garros, comprese da subito che, con le qualità che possedeva, per quanto potesse ben figurare sul campo da gioco, la sua vocazione non era quella del terraiolo. Anzi, lui si esaltava sulle superfici rapide. Complice la volontà di proseguire gli studi, ma al contempo di mantenersi attivo sportivamente, Arnau volò nel 2005 negli Stati Uniti, a Tulsa, dove ebbe la possibilità di migliorare il suo tennis, allenandosi sulla superficie che esaltava il suo stile di gioco, completando nel mentre anche il suo percorso di studi. Anzi, due, dato che dopo aver bruciato le tappe nell’acquisizione del titolo, non così impegnativo, di educatore sportivo, decise di intraprendere una strada ben più tortuosa, quella del MBA, quasi immediatamente interrotta, per il momento dice lui, perché nel frattempo il tennis era divenuto una priorità. E dopo la prima scalata e un fastidioso infortunio, Arnau, nel 2011, mise insieme 7 titoli futures consecutivi (ed 1 challenger), che gli consentirono di aprire una striscia di vittorie consecutive a livello ITF che avrebbe visto fine solo nella stagione seguente, dopo 44 successi, per mano del giovane tedesco Robin Kern.

Pablo, dopo le 7 gemme future, non ha potuto/saputo cogliere una vittoria in un torneo challenger, come Brugues, perché ha mirato decisamente in alto, andando a saggiare le proprie qualità in un contesto ben più competitivo di una manifestazione di seconda fascia in Kazakhstan, ovvero il torneo ATP di Casablanca, dove comunque, dopo aver superato le qualificazioni in cui ha rimontato un set a Florent Serra, ha detronizzato il vincitore delle due precedenti edizioni, Pablo Andujar, sbandando solo al cospetto della solidità del sudafricano Kevin Anderson. Forse “saltare” da un ITF ad un ATP è eccessivo, per quanto tre settimane più tardi il tennista asturiano si sia issato fino ad un’insperata semifinale ad Oeiras, in Portogallo, dove nel giro di pochi giorni è passato dalla mancata qualificazione al termine di un incontro che sembrava già perso contro Javier Marti (a tal proposito, si badi bene che la storia dei “prospetti sui giovani da seguire” mi era stata proposta perché un altro sito aveva abbozzato una cosa simile, partendo proprio da Marti), alla vittoria del secondo set in semifinale contro Stan Wawrinka. Non erano ancora maturi i tempi, però, per raggiungere una finale, se fino ad un mese prima ti scornavi con Carballes Baena per le corone futures.

Eppure mi sovviene che esiste un giocatore capace, di recente, di progredire da una finale ITF ad una ATP nel giro di qualche settimana. Si tratta proprio di John Isner, che nel corso della stagione 2007, dopo aver conseguito la laurea alla University of Georgia, ottenne ad inizio luglio la sua prima perla future a Shingle Springs, superando nell’ordine Fuller, Gallardo-Valles, Whitehouse (altra bella storia), Kennedy e Miranda, mentre a fine mese, nel torneo di Washington, regolava Henman, Becker, Odesnik, Haas e Monfils, cedendo solo davanti al connazionale Andy Roddick, proprio nell’atto conclusivo. Non dimentichiamo, però, alcuni fattori importanti:

– la settimana prima di questo torneo, John si era aggiudicato anche il titolo nel challenger di Lexington;

– le cinque partite vinte a Washington si conclusero tutte al tie-break del terzo set, avvenimento che lo avvicina a quanto fatto da Gilles Simon nell’edizione del torneo Master di Madrid del 2008;

– In teoria, Isner a Washigton si sarebbe dovuto sobbarcare l’iter delle qualificazioni, ma di fatto gli venne impedito dai successi ottenuti a Lexington, così, quando ormai sembrava costretto a rinunciare al torneo della capitale, il forfait di Fernando Gonzalez, a cui sarebbe dovuto andare uno degli inviti, liberò il posto per il gigante della North Carolina. Insomma, il destino gioca una parte importante nella scrittura delle storie più belle da raccontare;

– nonostante questo inizio sfavillante, John ci impiegherà 3 anni per aggiudicarsi il primo tassello vincente in ambito ATP, andando a segno per la prima volta ad Auckland nel 2010. E nel frattempo…[1/continua]

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