Rostagno, il destino in un punto

becker rostagno 1989

di Alessandro Mastroluca

Un pensiero profondo, una piccola pena, è folata di vento, onda dell’altalena. E’ un destino racchiuso in un punto quello di Derrick Rostagno, che oggi 25 ottobre compie 49 anni. Una di quelle storie piene di condizionali, di rimpianti e di che sarebbe successo se. E’ una storia che ha un’epifania di inarrivabile sintesi euristica: il nastro probabilmente più celebre nella storia moderna dello sport del diavolo.

È l’estate del 1989, Aretha Franklin e Elton John aprono la compilation del Festivalbar con Through the Storm. Ma è Boris Becker che quel 30 agosto di 25 anni fa passa attraverso la tempesta a New York, al secondo turno. Gioca ancora per la Germania Ovest, il Muro non è ancora caduto, la pace sociale in Germania è distante ancora qualche mese. A Becker non è mai piaciuta troppo l’atmosfera dello Us Open, il pubblico rumoroso, gli aerei, le distrazioni continue. Rostagno è nato a Hollywood, gioca con una maglia coloratissima e estrae le racchette da involucri arcobaleno. È una rockstar con un look da surfista prestato al tennis. Anche con buoni risultati: Rostagno chiuderà la carriera con un solo titolo in singolare (New Haven 1990), uno Slam in doppio (Australian Open 1993 in coppia con Todd Martin) e un bilancio positivo negli scontri diretti con McEnroe, Sampras e Noah. Ma come le rockstar si accende presto e presto si spegne, è un talento da exploit singoli, che vive di accenti e presentimenti, di fugaci momenti di gloria.

Fugaci come i primi due set di quel match di secondo turno destinato a diventare la perfetta icona, la sintesi dell’intera sua carriera. L’efficacia delle sue prime e la pigrizia di Becker si combinano per creare il preludio di un risultato a sorpresa. Dopi un tiebreak illuminato e strategicamente brillante, dominato per 7 punti a 1, Rostagno conduce due set a zero: è avanti 61 76. Becker è sull’orlo dell’abisso, sta per affrontare la tempesta. E per Bum Bum diventerà la tempesta perfetta.

La partita, più che una competizione, si trasforma nella storia di una resurrezione. Becker, battuto al secondo turno a New York anche l’anno prima, non riesce a strappare il break a Rostagno fino al quinto game del terzo set. Poi per l’americano le cose peggiorano. Doppio fallo sul set point: 63 Becker.

“Nel quarto, dal primo momento sentivo che avrei potuto batterlo” commenta Rostagno, che nel 1988 ha chiuso la stagione con 31 vittorie e 22 sconfitte e gira per la West coast su un furgoncino Wolkswagen. Spinge ancora Becker al tiebreak e allunga 6-4, con due match a disposizione. Il primo trasformerà una quasi-sorpresa in un sicuro pezzo di storia sportiva.

Rostagno prende la rete, Becker prova il passante, l’americano si prepara a chiudere la volée di dritto ma la palla beffarda tocca il nastro e salta più alta della sua racchetta. Una parabola insospettabile, fortunosa, letale, che ridefinisce i canoni dell’impossibile. “E’ lo stesso colpo con cui l’anno scorso mi sono tenuto in partita contro Connors a Wimbledon” ammette Rostagno. E chi di nastro ferisce, di nastro perisce.

“Sarei un po’ bugiardo se dicessi che sentivo che non avrei perso” commenta Becker, “sono stato vicinissimo alla sconfitta”. Bum Bum salva anche il secondo match point, firma il sorpasso con un servizio vincente e completa l’8-6 con un lob di rovescio dall’elevatissimo coefficiente di difficoltà. La partita di Rostagno praticamente finisce qui. “Mi ci sono voluti un paio di game per riprendermi, e a quel punto era troppo tardi”. A quel punto Becker era già avanti di due break, era volato 4-0 nel quinto set, era destinato alla vittoria. Vincerà 16 67 63 76 63 dopo 4 ore e 27 di partita. È passato attraverso la tempesta e ha vinto. Ha vinto per una folata di vento, un’onda dell’altalena. Ha inflitto una piccola pena che nasconde un pensiero profondo. Perché, ci si potrebbe chiedere, il destino ha negato a Rostagno il piacere di una seconda chance, di una grande occasione che provasse il suo talento?

Forse perché in fondo era questa la sua seconda occasione, la sua carriera fatta di singoli exploit, di fugaci momenti di gloria, di grandi partite e di quasi imprese. Perché la sua vita avrebbe potuto cambiare il 31 marzo del 1986. Rostagno è uscito da due anni a Stanford, che John McEnroe ha trasformato in una meta ambita dai giovani tennisti, ed è appena passato professionista. Ha vinto un challenger a San Luis Potosì, in Messico e decide di saltare il torneo satellite che inizia a Città del Messico il giorno dopo. Prenota un posto sul volo XA-MEM 940 per Los Angeles e telefona a casa per avvisare che sarebbe rientrato il lunedì. Quando sale sull’aereo, scopre che comunque il volo fa una sosta a Città del Messico, dove atterra alle 8 di mattina. Rostagno lo interpreta quasi come un segno del destino: ha tempo infatti fino alle 9 per firmare e entrare nel tabellone del torneo satellite. Così cambia idea, va a firmare e resta in campo fino alla sera, deve infatti giocare due partite in quella giornata. Quando torna in albergo scorre un giornale. Quello che legge è scioccante. Il volo XA-MEM 940 è precipitato a Maravatio, il pneumatico di una delle ruote è esploso in volo e ha causato danni all’impianto idraulico. Il pilota ha perso il controllo. Tutti i 167 passeggeri sono morti.

Rostagno si precipita verso il primo telefono e chiama i genitori. “Quando hanno sentito la mia voce sono scoppiati a piangere” ha raccontato a John Feinstein per il libro Hard courts, “pensavano che fossi morto. Mia zia aveva sentito la notizia alla radio, aveva chiamato la compagnia aerea e chiesto se ero nell’elenco dei passeggeri. Gli avevano risposto che pensavano fossi sull’aereo”.

Rostagno vincerà quel torneo e avrà modo di ripensare a quel bivio della sua vita. “E’ stato come se qualcuno mi avesse detto ‘eccoti un regalo’. Quello che è successo mi ha aiutato a mettere molte cose, compreso il tennis, nella giusta prospettiva”.

Una prospettiva che con l’andar degli anni si fa profonda, filosofica. “Guardo i campioni che guadagnano milioni ma non li vedo felici. Da bambini, quando iniziamo a giocare, abbiamo questo ideale, l’illusione di diventare professionisti. Ma nessuno vede la realtà di questa condizione. Cerchiamo tutti un obiettivo, lavoriamo per andare da qualche parte ma non sappiamo dove. Siamo tutti fanatici, anch’io ho dedicato tutta la mia vita a questo sport, anche se mi piace pensare di avere anche altro. E mi chiedo: vale la pena sacrificare la mia infanzia per provare a vincere uno slam, arrivare tra i primi 100 o i primi 50? Ricordo la prima volta che vinsi un torneo. Rientrai in albergo ed ero depresso. I miei amici erano tutti già partiti per il prossimo torneo. Mi sentivo solo”.

Alla fine, ammette, “lavori, lavori, continui a provarci. Per questo quella partita con Becker fa ancora male. Perché avevo lavorato tanto, ero pronto per vincere. Perché una volta voglio uscire dal campo dopo quei grandi campioni. Perché una volta vorrei uscire come il vincitore, non come il nobile perdente”.

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