Tennis Usa: Quale Futuro? – II Parte

Ryan Harrison
(Ryan Harrison)
di Sergio Pastena
E ora tuffiamoci negli anni ’90 e andiamo a vedere gli statunitensi che ancora giocano i tornei juniores e timidamente si affacciano nel circuito maggiore. Flushing Meadows, quest’anno, ne ha messi in vetrina tre.
Ryan Harrison ha decisamente impressionato. Ha fatto da poco 18 anni eppure è stato capace di buttare fuori Ljubicic al primo turno e contro Stakhovsky è arrivato ad avere tre match point nel tie-break del quinto salvo poi sciogliersi a un metro dal traguardo. Ecco, dovendo scegliere un nome per il futuro degli americani, punterei su di lui. E’ un’opinione del tutto personale, per inciso, che quindi vado a motivare. Innanzi tutto, essendo molto giovane, è perfettamente in linea con quello che dovrebbe essere il percorso di crescita di un top player (Young, ad esempio, deve recuperare il tempo perduto). Oltre a ciò è raro vedere un diciottenne mostrarsi così competitivo 3 set su 5: non riesce ancora a gestire i momenti decisivi, ma alla sua età è normale. E poi, signori, Harrison gioca bene: il fisico c’è e, pur essendo uno dei pupilli di Bollettieri, il suo gioco non è affatto “bollettierano”. Ha un ottimo servizio, fondamentali potenti (anche il rovescio), ma pure un timing eccellente e, udite udite, a rete non è affatto un manovale: le sue volèe sono di buono spessore e gli consentono tranquillamente di attaccare, arricchendo il gioco con variazioni che i suoi connazionali non possiedono. Insomma, sembra avere tutto, dovrà solo stare attento a non perdersi per strada.
A New York quest’anno c’erano due wild card sulle quali aleggiava un certo scetticismo: Bradley Klahn, classe 1990 e Jack Sock, 1992. Parevano un po’ “leggerini” per poter affrontare uno Slam. Klahn è uno di quelli esplosi in ritardo: fino al 2009 praticamente non aveva mai giocato nel circuito, salvo comparsate nei Futures, poi quest’anno è andato a laurearsi campione NCAA ed ha battuto due volte Carsten Ball, che non sarà Federer ma non è neanche l’ultimo arrivato. Agli Us Open aveva un primo turno difficile contro Sam Querrey e non ha assolutamente sfigurato: ha vinto il secondo set e nel terzo ha retto fino al 5-5. Il valore è decisamente superiore all’attuale numero 596 delle classifiche, destinato di questo passo a migliorare in breve. Diversa la storia di Sock: anche lui sembrava avere l’aura del predestinato, da juniores vinceva di tutto e di più ma poi il destino gli ha sbarrato la strada. Un destino che si è presentato sotto forma di infortuni, che gli hanno fatto saltare anni ed anni. Ha ripreso nel 2009, fino ad ora ha vinto un Future e agli Us Open ha preso un set al più esperto Chiudinelli nel primo turno. A dirla tutta, lo svizzero ha avuto una specie di black-out, per il resto ha gestito la partita comodamente, ma il ritorno di Sock non ha lasciato indifferenti gli americani: la wild card concessagli nonostante fosse oltre il numero 600 delle classifiche ne è la riprova.
Bradley Klahn
(Bradley Klahn)
Un caso piuttosto raro è invece quello di Devin Britton, campione NCAA 2009, famoso più per aver affrontato Federer nel primo turno degli Us Open dell’anno scorso che per i risultati ottenuti fino ad ora. Anche lui sembra essere un buon prospetto: sempre a Flushing Meadows, nel 2008, arrivò in finale dove venne sconfitto da Grigor Dimitrov. Come Harrison, pure Britton è un bollettierano atipico: gioca serve & volley (questa è la rarità), e quello sembra essere il suo maggior pregio (almeno da un punto di vista estetico) e il suo maggior limite, perché al giorno d’oggi arrivare lontano con quel tipo di gioco è molto difficile. Altra grande speranza è Chase Buchanan, che con Britton ha tante cose in comune: anche lui è del 1991, anche lui è stato finalista agli Us Open juniores (battuto da Tomic nel 2009), anche lui ha avuto una wild card a Flushing Meadows (nel 2009) dopo un grande exploit (ha vinto il campionato USTA), anche lui ha beccato un osso duro al primo turno, ovvero Tsonga. Le similitudini si fermano lì perché Buchanan è uno di quelli che martellano di diritto, ha un tipo di gioco più livellato sugli standard americani, la sua palla è pesante. La tenuta mentale è ancora limitata, non riesce a gestire i punti importanti e a volte sembra un po’ un Gabashvili per come cerca di chiudere lo scambio troppo presto, senza avere pazienza. Tutti aspetti che bisognerà limare con la crescita. Sempre nella categoria dei giocatori che dal mondo juniores cercano di lanciarsi nei pro meritano una citazione Alexander Domijan, quarti di finale a Wimbledon tra i junior e finalista nel Challenger di Godfrey e Jordan Cox, che a Wimbledon è arrivato in finale ed ha già un future vinto in Corea del Sud nel proprio palmares. Per loro sarà il tempo a parlare, intanto Cox nel primo turno delle qualificazioni degli Us Open ha messo paura ad Ignatik, che come esperienza è più avanti rispetto a lui.
Chiudiamo dando un occhio al tabellone juniores degli Us Open. Troviamo innanzi tutto Andrea Collarini, argentino passato sotto la bandiera degli Stati Uniti, già finalista al Roland Garros juniores. E’ nei Top 600, ha un buon diritto ma, ovviamente, la sua origine sudamericana ne fa un giocatore abbastanza atipico per gli States: ha giocato fino ad ora quasi esclusivamente sulla terra, anche se è già avanzato due turni a Flushing Meadows facendo fuori il forte colombiano Gomez. Tante speranze sono riposte anche su Denis Kudla, nativo di Kiev (e quando mai…), che quest’anno ha sfruttato la wild card concessagli a Newport, superando Santiago Ventura ed impegnando Harrison nel secondo turno. Infine, a voler guardare proprio avanti, possiamo citare Dennis Novikov: nato nel novembre del 1993, 16 anni, ha passato due turni a Flushing Meadows eliminando la testa di serie numero 7, il peruviano Beretta.
Proviamo a rispondere all’interrogativo cruciale: il tennis americano riuscirà ad uscire dal bunker in cui si è infilato? Tralasciando le previsioni sui più giovani (ci vorrebbe Frate Indovino), pare ragionevole dire che ci sono buone speranze, anche se forse bisognerà attendere un po’ di tempo. I ragazzi tra i 22 e i 23 anni sono buoni, ma non eccezionali. Tra i diciottenni di oggi magari non si nasconderà il futuro Sampras (anche se è tutto da vedere) ma di certo ci sono giocatori (Harrison in testa) che sembrano attrezzati per competere ai massimi livelli. In mezzo c’è l’incognita Young, che però non potrà certo permettersi un altro paio d’anni a giocare Challenger. Insomma, per restare su livelli di vertice gli Usa devono sperare che Querrey e Isner facciano un ulteriore salto di qualità (e non sarà facile) ma soprattutto che i vari Roddick e Fish tengano botta per altri 2 o 3 anni in attesa che arrivino i rinforzi. Più giù di ora, ad ogni modo, è davvero difficile andare.

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