Uno Sguardo al Futuro


(Martina Caregaro – Foto Nizegorodcew)
di Roberto Commentucci e Luca Brancher
Negli ultimi giorni, a proposito del terzo trionfo delle azzurre di Fed Cup si è spesso sentito ripetere lo stesso ritornello, con affermazioni del tipo: “mancano i ricambi” “dietro Pennetta e Schiavone c’è il vuoto” “godiamoci questi momenti perché ci aspettano anni di vacche molto magre” e via di seguito.
In realtà, le cose stanno diversamente: come vi mostreremo in questo articolo, l’Italia continua a produrre giovani promettenti come e forse più che in passato: vi sono parecchie giocatrici italiane, nate dopo il 1 gennaio 1989, che possono ambire ad una buona carriera professionistica.
Ma perché allora queste giovani promesse non vengono notate? Perché non ci si accorge di loro?
Semplice. Perché gli appassionati, ma anche alcuni addetti ai lavori, nel valutare lo stato di salute di un movimento giovanile, sono abituati a guardare due soli parametri:
– la classifica mondiale (quali e quante giovani abbiamo vicine alle prime 100?)
– i tabelloni juniores dei tornei degli Slam (vediamo un pò le nostre ragazzine…)
Effettivamente, mettendola così, parrebbe che l’Italia del tennis rosa non abbia molti ricambi, dal momento che nelle prime 200 WTA abbiamo solo Corinna Dentoni e che i tabelloni degli Slam junior li frequentiamo pochissimo. Ma in realtà è l‘approccio analitico ad essere errato: la verità è che questi due parametri, nell’attuale momento del tennis femminile, sono diventati poco significativi, e anzi piuttosto lacunosi, per una serie di motivi.
In primo luogo, anche fra le donne l’età media di arrivo nel circuito maggiore si è parecchio alzata. Questo avviene per ragioni tecniche, (anche fra le ragazze il gioco è sempre più fisico, e se non si è messa su una buona massa muscolare non si riesce ad emergere) ma anche per motivi regolamentari: sono in vigore da alcuni anni delle limitazioni poste da WTA e ITF al numero massimo di tornei pro che le teen ager possono giocare (regole poste dopo i casi Capriati e Dokic).
Più nello specifico, le nostre giovani giocatrici per motivi vari (fisici, sociologici, culturali) in genere iniziano a fare attività a tutto tondo con un certo ritardo rispetto a molte coetanee, specie quelle dell’est europeo, ma anche dele americane. Quasi tutte le giovani italiane completano gli studi e prendono un diploma prima di dedicarsi a tempo pieno al tennis. E da noi conciliare studio e sport è purtroppo più difficile che altrove. Quindi non è molto indicativo stare a confrontare età e classifica con le migliori coetanee straniere, perché come sappiamo le nostre arrivano un pochino dopo. Quel che conta, semmai, è il lavoro tecnico che si svolge per arrivare ad esprimere un certo livello dopo i 20 anni. Le giocatrici italiane però compensano la loro scarsa precocità con la notevole longevità agonistica: riescono a restare sul circuito per parecchio tempo, e anzi in molte trovano la loro stagione migliore intorno ai 30 anni, o addirittura dopo.
Quanto agli Slam juniores, il motivo della nostra assenza è presto spiegato. Ormai da tempo molte ragazzine italiane, arrivate a 15 anni, iniziano direttamente a fare attività professionistica (sia pure con i limiti sul numero di tornei a cui possono iscriversi). Le nostre frequentano sempre meno il circuito juniores, preferendo iniziare a farsi le ossa nei tanti ITF italiani. E’ questa infatti una programmazione economicamente meno onerosa e altrettanto valida e produttiva in termini di crescita tecnica. In questo modo, ovviamente, le azzurrine non si pongono come obiettivo i tornei juniores dello Slam, ma ciò non significa che non siano forti. Ad esempio, quest’anno né Burnett, né Caregaro, né Confalonieri, le nostre più forti ‘92, hanno preso parte allo US Open junior, dove sarebbero state sicuramente molto competitive, ma non per questo non vanno considerate tra le più promettenti nella loro classe di età, come del resto ha dimostrato la grande prova di una convalescente Burnett al Bonfiglio contro la coetanea statunitense Beatrice Capra.
Per cercare di scavare più a fondo, assieme a Luca Brancher abbiamo realizzato una piccola statistica, andando a vedere quante sono, nei principali paesi, le giocatrici nate dopo il 1.1.89 classificate non fra le prime 200, ma fra le prime 500 del mondo.

Come si vede, ce la passiamo piuttosto bene: abbiamo 11 giocatrici che potremmo definire “in rampa di lancio”. Meglio di noi fanno solo mostri demografici come Russia e USA, o paesi in grande crescita come l’Ucraina, ma l’Italia resta davanti a scuole storiche come Francia e Spagna. Certo, scendendo nel dettaglio si vede che le nostre ragazzine sono mediamente più indietro in classifica (ne abbiamo solo una, Corinna Dentoni, nelle prime 200), ma nel tennis femminile attuale una 21enne italiana, per i motivi illustrati prima, è ancora più che in tempo per entrare nel circuito maggiore, ovviamente se ha le giuste qualità.
Tuttavia, il grafico ci dice anche qualche altra cosa. Ovvero, che nonostante una base così ampia di ragazze promettenti stiamo faticando tremendamente a portare tenniste nelle prime 100, dal momento che l’ultima nostra giovane a farcela è stata Sara Errani, più di tre anni fa.
Esaminando le storie individuali delle nostre promesse, emerge netta la sensazione che per traghettare le migliori di loro nel circuito WTA sia necessario uno sforzo aggiuntivo, rispetto a quanto avviene attualmente, in termini tecnici, economici e organizzativi.

(Camila Giorgi)
Poche delle nostre promesse riescono a permettersi un coach che le segua stabilmente nei tornei; poche riescono a seguire una preparazione fisica davvero adeguata, che ne assicuri il potenziamento muscolare e le tenga al riparo dagli infortuni; poche hanno la lucidità necessaria (e a volte anche la disponibilità economica) per scegliere la migliore programmazione dei tornei dove competere.
Spesso ci mettono del loro le ragazze, magari con caratteri difficili o infantili; altre volte sono i loro genitori che, per scarsa cultura sportiva, finiscono per creare ostacoli alla costruzione di un team efficiente, o fanno passare le figlie da un tecnico all’altro, generando incertezza e confusione.
Tuttavia, vista l’attuale situazione di stallo, forse la Federazione potrebbe fare uno sforzo: prendere queste dodici-quindici atlete “in rampa di lancio” riunirle intorno a un tavolo e mettere a punto un programma comune, fornendo (a chi lo chieda, ovvio) una maggiore assistenza tecnica, economica e logistica.
Altrimenti il rischio, a forza di avere tutti questi missili pronti a partire, ma eternamente congelati in rampa di lancio, è quello di lasciarli arrugginire senza averli sparati, come certi armamentari sovietici dopo la fine della guerra fredda e la caduta del muro.
E sarebbe davvero un gran peccato.

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