Tennis Nations Story – Brasile

Erano i giorni della festa e nel paese non c’era spazio per altro. Gilmar, i terzini Djalma e Nilton Santos, Orlando, il capitano Bellini, Zito e Didi a centrocampo, Zagalo e Garrincha all’esterno, Vavà e un non ancora diciottenne Pelè a buttarla dentro, in qualsiasi modo, anche addomesticando la palla con petto e destro, farla passare a palombella sopra la testa di un difensore e metterla di sinistro nell’angolo, lontano dal portiere e da qualsiasi pensiero razionale, per uno dei gol più belli della storia del calcio. E la storia, quegli undici messi in campo da Feola nella finale di Solna contro i padroni di casa svedesi, avevano iniziato a farla otto anni dopo lo scempio del Maracanazo, quando l’Uruguay di Ghiggia e Schiaffino aveva fatto sprofondare nella disperazione una nazione intera. Era il 1958 e in soli dodici anni il Brasile si sarebbe portato a casa definitivamente la coppa creata dall’orafo parigino Abel Lafleur su commissione di Jules Rimet, com’era previsto dal regolamento che assegnava il trofeo alla prima nazionale che avesse vinto i mondiali per tre volte.

Erano i giorni della festa e nel paese non c’era spazio per una ragazza nemmeno ventenne che vinceva, sia pur in doppio, il torneo più importante del mondo nello sport degli anglosassoni e degli europei, dove la palla era più piccola, interamente bianca e veniva colpita con l’ausilio di un attrezzo. Si chiamava Maria Esther Bueno ed è esattamente da lei che inizia questa puntata.

IL PASSATO –  Di lei, lo scriba Gianni Clerici scrisse che “viveva d’emozioni” e forse fu per questo che non vinse quanto avrebbe potuto e dovuto, come se 19 titoli dello slam tra singolare e doppi fossero un ben misero bottino. Nata nel 1939 in una famiglia di amanti del tennis e vissuta a poche centinaia di metri dal Clube de Regatas Tietê di San Paolo, la sua città, Maria e il fratello maggiore Pedro (che giocherà un solo incontro in Davis, nel 1956, e avrà una carriera inevitabilmente meno appariscente della sorella) iniziarono presto a sentire i rimbalzi delle palle e a vedere racchette in casa. Lo stile dei due Bueno non poteva essere più diverso: regolarista da fondo campo lui, aggressiva e sempre proiettata verso la rete Maria, che fu vera autodidatta e modellò il suo meraviglioso ed elegantissimo servizio studiando a lungo nientemeno che Bill Tilden.

 

Dopo aver vinto tanto a livello giovanile in Brasile, nel 1957 scelse di lasciare la famiglia per trasferirsi in Florida, con l’obiettivo di giocare l’Orange Bowl e misurarsi con il resto del mondo. Con 14 titoli (su 15) del circuito caraibico in tasca e qualche chilo in meno da portare a spasso, nel ’58 Maria fa il suo ingresso nel grande tennis vincendo gli Internazionali d’Italia alla prima partecipazione. Espansiva ed elegante, la Bueno attira il pubblico e al Foro Italico i suoi match vengono spesso dirottati dai campi secondari – solitamente riservati agli incontri femminili – al centrale.  La sua prima campagna europea prosegue fino a Wimbledon dove, come anticipato, conquista il primo slam insieme alla statunitense Althea Gibson. L’anno dopo la brasiliana emerge anche in singolare; a Wimbledon domina in finale Darlene Hard e costringe gli organizzatori a far aprire eccezionalmente una boutique all’interno del villaggio affinché possa trovare un vestito adatto per danzare con il peruviano Alex Olmedo al ballo dei vincitori. Qualche settimana più tardi replica a Forest Hills e l’Associated Press non ha dubbi ad assegnarle il titolo di atleta dell’anno.

Quella del 1960 è la stagione in cui si scrive la storia. Maria diventa la prima di quattro donne a mettere a segno il Grand Slam in doppio (prima di lei ci era riuscita “Little Mo” Connolly, ma in singolare); dopo il successo in Australia in compagnia della britannica Christine Truman, la partner delle altre tre vittorie è la statunitense Darlene Hard. Il Brasile si accorge della sua eroina e il ritorno in patria è a dir poco trionfale. Le viene dedicato un francobollo speciale, arriva a San Paolo a bordo di un elicottero in compagnia del presidente Juscelino Kubitschek e il Tiete Club la omaggia con due magnifici libri rilegati in cuoio e contenenti i ritagli di giornale delle sue imprese oltre a una statua di 60 piedi – che la immortala in una volee di rovescio – collocata a lato dell’ingresso. In un eccesso di entusiasmo, arrivano perfino a rinominare la strada in “Avenida Maria Esther Bueno” per poi scoprire che la legge impedisce di farlo per le persone ancora in vita.

Abbinando il tennis alla moda, Maria divenne una delle muse del famoso sarto Ted Tinling che, dopo averla vista la prima volta, disse di lei: è la mia sfida più grande e, se fallirò, sarà solo colpa mia. Il suo magnetismo latino è tale che non potrà avere responsabilità qualora non dovessimo avere successo. In realtà di successo ne ebbero anche troppo e gli abiti della Bueno fecero discutere quasi più delle sue vittorie (che continuarono, a livello slam, fino al 1968), tanto che fu proprio in seguito ad una sua “mise” colorata che a Wimbledon introdussero la regola del “prevalentemente bianco”.

La finale di Wimbledon 1964, vinta contro la sua rivale più accreditata, rappresenta l’apice della carriera: 6-4/7-9/6-3 all’australiana Margaret Smith, in un match che diviene ben presto epico. Con due menischi fuori uso, il ’65 sarà un mezzo calvario e, dopo la semifinale persa a Forest Hills con Billie Jean King, Maria decide di farsi operare appena prima di Natale. Forzando i tempi di recupero, si ripresenta l’anno dopo sulle scene e coglie il settimo (e ultimo) major in singolare battendo Nancy Richey agli US National Championships. Dolore su dolore, il tennis-elbow la costringe a rivaleggiare oltre che con le avversarie pure con i suoi stessi limiti ma non le impedirà di prolungare la carriera fino al 1974, anno in cui vincerà l’ultimo titolo (a Tokyo).

Ci siamo soffermati tanto su Maria Bueno perché, purtroppo per il Brasile, il deserto tennistico che l’aveva preceduta è rimasto tale anche dopo il suo ritiro. Tra la fine dei ’70 e l’inizio degli ’80, a cercare di raccogliere la pesante eredità sarà Patricia Medrado la quale, però, dovrà accontentarsi di un best-ranking da n°51 WTA e qualche buon risultato in doppio, come i quarti di finale a Wimbledon 1982. Di qualche anno più giovane, Claudia Monteiro non entrerà mai tra le prime 100 del mondo ma sfiorerà a suo modo l’ingresso tra le immortali del gioco quando disputerà, insieme al connazionale Cassio Motta, la finale nel doppio misto al Roland Garros (1982), perdendola però contro l’australiana Wendy Turnbull e il britannico John Lloyd. Chi invece arrivò alla soglia della top-30 fu Neige Dias, una meteora capace di vincere due tornei quasi consecutivi sulla terra rossa nella primavera del 1988 (Guaruja e Barcellona) e il terzo turno al Roland Garros l’anno successivo, prima di ritirarsi qualche mese più tardi ancora ventiduenne.

Infine, per chiudere con il settore femminile, anello di congiunzione tra passato e presente, Maria Fernanda Alves ha chiuso la carriera con venti titoli ITF all’attivo ma senza riuscire mai a giocare un match nel main-draw di uno slam.

Voltiamo pagina e rivolgiamo la nostra attenzione al maschile, che pure ha saputo tenere assai alto l’onore tennistico del Brasile. A partire dal week-end del 5-7 novembre 1966, al Club Leopoldina di Porto Alegre, quando la squadra di Davis Cup, capitanata da Paulo da Silva Costa, sconfisse gli Stati Uniti di Ralston e Richey nella semifinale interzone. Gli artefici di quella grande vittoria furono Jose Edison Mandarino e Thomaz Koch. Perso il doppio e sotto 1-2 in avvio di terza giornata, Koch travolse Richey mentre Mandarino ebbe la meglio su Ralston al quinto set. Un mese dopo, sull’erba di Calcutta, i due arrivarono a due soli punti dalla ripetizione dell’impresa – e da una storica qualificazione al Challenge Round contro l’inarrivabile Australia. Di nuovo in svantaggio dopo il doppio, nella giornata decisiva Mandarino sconfisse Mukerjea al quinto set e Koch si trovò a condurre 2-1 e 5-2 nel quarto contro Ramanathan Krishnan, che servì per allungare la sfida; sulla situazione di 15-30, si decise di interrompere il match a causa dell’oscurità e il giorno dopo l’indiano resuscitò infilando cinque giochi consecutivi e dominando il quinto parziale.

Koch fu il primo brasiliano maschio a vincere un major. Accadde al Roland Garros 1975 dove, nel doppio misto, Thomaz fece coppia con l’uruguaiana Fiorella Bonicelli. Per il resto, il mancino di Porto Alegre ebbe anche una discreta carriera da singolarista nel circuito, con i quarti di finale nei tre slam che frequentò (saltò sempre l’Australia) e tre titoli.

Per ritrovare il Brasile ai vertici della Davis, si dovette attendere il biennio 1991-92, quando la squadra verde-oro infilò cinque vittorie consecutive guadagnandosi dapprima l’ingresso nel World Group e, l’anno dopo, spingendosi fino alle semifinali. I protagonisti di quella striscia di eccellenti risultati furono principalmente Jaime Oncins e Luiz Mattar. Con un best-ranking di n°34 del mondo, raggiunto nel ’93, l’allora ventunenne Jaime Oncins fu l’eroe delle due sfide casalinghe contro Germania e Italia che promossero il Brasile in semifinale. Nel sorprendente 3-1 inflitto agli azzurri nella bolgia di Maceiò, ebbe un ruolo determinante il successo in doppio di Cassio Motta e Fernando Roese contro Camporese e Nargiso. In settembre però, sul velocissimo Taraflex del Palexpò di Ginevra, la Svizzera spense gli ardori dei sudamericani che tornarono a casa battuti 0-5 e con un solo set vinto.

Tornando a Mattar, ebbe una miglior classifica da top-30 (n°29), mise in bacheca sette trofei del circuito maggiore, di cui però solo l’ultimo (Coral Springs) lontano dal Brasile e aveva appeso la racchetta al chiodo da più di un anno quando successe il fattaccio del Transamerica Hotel. Nel week-end dal 20 al 22 settembre 1996, infatti, il Brasile affrontò l’Austria a San Paolo nei play-off/play-out per l’ammissione o la permanenza nel World Group di Davis Cup. Preoccupati, ovviamente, di limitare il più possibile il potenziale di Muster (e ignorando di avere in squadra uno che di lì a poco avrebbe alzato tre volte la Coppa dei Moschettieri), i padroni di casa scelsero il sintetico dell’Hotel Transamerica ma il mancino di Leibnitz aprì le danze rifilando un triplice 6-3 a Meligeni nel singolare d’apertura. Quando Markus Hipfl si trovò avanti di due set contro il giovane Kuerten, il cammino degli ospiti sembrava in discesa ma Gustavo, trascinato dal pubblico, vinse i due tie-break successivi per poi dominare 6-1 il quinto. Nella seconda giornata, il doppio tra Kuerten/Oncins e Muster/Plamberger si spinse di nuovo al set decisivo e lì, sul 2-0 Brasile, Muster decise di abbandonare il campo. “Sono più di tre ore che ci urlano, insultano e minacciano di morte. Voglio la protezione della polizia. Se questa è la Davis, io non voglio averci più a che fare!” Thomas giustificò così il suo gesto. In un primo momento sembrò che tutto fosse stato rimandato all’ultima giornata, poi però la delegazione ospite annunciò che non c’erano i presupposti di sicurezza per scendere di nuovo in campo la domenica e si ritirò definitivamente, lasciando il posto nel Gruppo Mondiale al Brasile. La vicenda si chiuse con una richiesta di danni per una somma di 400.000$ da parte della Federazione Brasiliana Tennis che ritenne ingiustificato il comportamento austriaco e la vittoria sul campo per 4-1 dei verde-oro.

Come avrete capito, grande protagonista della sfida fu il ventenne Gustavo Kuerten, da Florianopolis, che all’epoca dei fatti veleggiava attorno alla centesima posizione mondiale ed era n°66 alla vigilia del torneo che gli avrebbe cambiato la vita: il Roland Garros 1997. Reduce dalla vittoria nel Challenger di Curitiba (dove tuttavia non aveva affrontato nemmeno uno dei primi 157 giocatori ATP), “Guga” fece saltare il banco a Parigi entusiasmando il mondo. Magro e allampanato dentro quel completo variopinto della Diadora con i colori del Brasile, sembrava sempre sul punto di spezzarsi ma dalla sua Head partivano rovesci come razzi (quando non delicatissime palle corte) mentre ogni smorfia del viso anticipava un sorriso. Dal terzo turno ai quarti di finale giocò quindici set contro tre specialisti del calibro di Muster, Medvedev e Kafelnikov mentre in semifinale evitò le trappole del belga Dewulf, l’unico nella storia del torneo ad essere giunto fin lì partendo dalle qualificazioni. In finale l’ex-bicampione di Parigi Sergi Bruguera avrebbe potuto far valere tutto il peso dell’esperienza contro un debuttante che inseguiva l’impresa di diventare il vincitore del Roland Garros con la classifica più bassa di sempre; ma, a volte, i sogni non finiscono e quello di Kuerten si materializzò con un 6-3/6-4/6-2 che lo consegnò alla storia.

Quello fu l’inizio di una breve e meravigliosa epopea che si consumò in pratica nell’arco di un lustro e che lo portò a vincere altri due titoli parigini (2000 e 2001), la Masters Cup a Lisbona (2000), cinque Masters 1000 e un totale di 20 tornei. Proprio al Pavilhao Atlantico di Lisbona, in un’atmosfera elettrizzante, Kuerten iniziò il torneo con una sconfitta per mano di Agassi ma, come in un thriller, vittoria dopo vittoria arrivò a giocarsi la prima posizione mondiale con lo stesso americano in finale e vinse con un triplice 6-4; rimarrà numero 1 per 43 settimane, non consecutive. Guga continuò a giocare fino al 2008 ma le ultime quattro stagioni furono una sorta di via crucis costellata di infortuni. Kuerten è l’unico tennista nell’Era Open ad aver vinto tutte le finali slam tra coloro che ne hanno disputate almeno tre.

Il declino della stella di Florianopolis fa scivolare la nazionale verde-oro nelle retrovie della Davis. Le due trasferte in Svezia e Canada costano, nel 2003, il World Group mentre l’anno dopo altre tre sconfitte decretano la retrocessione nel G2. Quasi contemporaneamente a Kuerten, un altro importante tennista brasiliano chiude la sua carriera in questo periodo: Fernando Meligeni. Nato a Buenos Aires ma trasferitosi con la famiglia quando aveva appena 4 anni, alla fine del 1999 Fernando raggiungerà il suo best-ranking (25) dopo che, al Roland Garros, si era spinto fino alle semifinali battendo, tra gli altri, il n°3 e il n°6 del mondo, ovvero Rafter e Corretja. Mancino dotato di un eccellente rovescio a una mano, Meligeni giocherà sei finali nel circuito vincendone la metà, tra cui quella degli US Men’s Clay Court Championships a Pinehurst contro Wilander.

Per finire con il passato, due parole su Andre Sa, doppista di qualità che riuscì a ritagliarsi anche in singolare la settimana della vita a Wimbledon 2002, raggiungendo i quarti di finale, e sulla purtroppo brevissima carriera di Tiago Fernandes, classe 1993 e campione juniores agli Australian Open 2010 ma senza apprezzabili risultati tra i grandi, prima del prematuro ritiro nell’agosto 2014.

IL PRESENTE – Con Thiago Monteiro al n°113 ATP e Beatriz Haddad Maia al n°121 WTA, il presente brasiliano è, almeno in singolare, tutt’altro che invidiabile. Classe 1994 e già n°77 del mondo (in febbraio 2017), finora Monteiro ha dovuto accontentarsi di un paio di Challenger mentre Beatriz, 23enne mancina dal gioco brillante, è stata finalista a Seoul nel 2017 e in questa stagione ha raggiunto le semifinali a Bogotà e i quarti ad Acapulco sempre partendo dalle qualificazioni. Per trovare altri brasiliani nelle classifiche mondiali occorre spostarsi nella terza colonna dell’ATP e addirittura nella quarta della WTA. Dei tre uomini assestati oltre la posizione n°200, certamente il più importante è Thomaz Bellucci, mancino di talento con un lontano passato da n°21 e ben otto finali nel circuito maggiore – di cui la metà vinte – ma risultati piuttosto deludenti negli slam. Non ha invece mai giocato una finale il 35enne Rogerio Dutra Silva, che ha aperto il 2019 conquistando a Playford l’undicesimo Challenger di una carriera culminata, nel ranking, con la posizione n°63.

Precisato che le due donne, rispettivamente 325 e 329 WTA, sono Carolina Alves e Gabriela Ce, passiamo alle note liete, ovvero il doppio. In questa specialità, il Brasile può vantare tuttora due atleti che, nel corso delle rispettive carriere, hanno portato in patria ben 7 major e 56 settimane da leader della classifica; stiamo parlando di Bruno Soares e Marcelo Melo. Il primo, pur non avendo mai raggiunto la vetta del ranking di specialità, ha messo a segno nel 2016 la doppietta sul duro Australian e US Open (in coppia con Jamie Murray) e sempre tra Melbourne (2016, con Vesnina) e New York (2012 con Makarova, 2014 con Mirza) ha messo in cassaforte altri tre gioielli nel misto.

Due soli, si fa per dire, i major conquistati da Melo (Roland Garros 2015 con Dodig e Wimbledon 2017 con Kubot) ma anche nove Masters 1000 e, soprattutto, la leadership di specialità conquistata la prima volta il 2 novembre 2015 e conservata per un totale di 56 settimane non consecutive nell’arco di due anni e mezzo.

IL FUTURO – Nato il 10 marzo del 2000, Thiago Seyboth Wild è senza dubbio il prospetto più interessante per il futuro brasiliano nel circuito. Campione juniores a Flushing Meadows l’anno scorso, Seyboth Wild ha debuttato nel circuito ATP non ancora diciottenne (a San Paolo 2018, dove ha perso da Berlocq) mentre quest’anno, nello stesso torneo, ha battuto Elias Ymer al primo turno. Di quattro anni più anziano, ma con classifica migliore (267 contro 359), Joao Menezes ha vinto quest’anno il Challenger di Samarkand battendo in finale il francese Moutet. Per il resto, tra i primi 50 juniores al mondo il Brasile può contare sul classe 2001 Matheus Pucinelli de Almeida mentre non ci sono ragazze nella analoga classifica femminile.

I TORNEI – Sono tre gli appuntamenti brasiliani nel calendario ATP per la stagione 2019: il 500 di Rio de Janeiro, il 250 di San Paolo e il Challenger di Campinas. Approdato per la prima volta nel circuito Grand Prix nel 1976 con la disputa del torneo di San Paolo, dal 1989 al 1992 il Brasile ha ospitato ben quattro tornei nella stessa stagione ma già nel ’93 era rimasto solo San Paolo e dal 1994 al 2000 era sparito dai radar. Nel 2001 è rientrato nel circuito con il torneo di Bahia, poi spostato a Costa do Sauipe fino al 2011; nel 2012 si è tornati a giocare a San Paolo e dal 2014 è entrato in calendario l’ATP 500 di Rio de Janeiro.

Per un triennio ha fatto tappa a San Paolo anche il circuito WCT, dal 1974 al 1976. Si giocava su sintetico indoor e il mini albo d’oro è di tutto rispetto: Bjorn Borg vinse la prima (6-2/3-6/6-3 ad Ashe in finale) e la terza edizione (7-6/6-2 a Vilas) mentre quella centrale se la aggiudicò Rod Laver, che sconfisse in finale Charlie Pasarell con un doppio 6-4.

Naturalmente, a far rientrare il Brasile nel circuito maggiore ha contribuito in modo sostanziale l’ascesa alla vetta del ranking di Kuerten ma è comunque significativo che anche adesso, pur senza rappresentanti di primo livello, la nazione sudamericana abbia mantenuto il suo spazio. Ridotta invece la presenza nel circuito ITF maschile, con due M15 disputati in giugno a Sao Josè do Rio Preto e Curitiba.

Nell’attuale circuito WTA non ci sono tornei in Brasile, presente invece con ben tre appuntamenti ITF di categoria W25 che si giocano su terra rossa nel mese di marzo. Quest’anno a San Paolo ha vinto Louisa Chirico, a Curitiba l’italiana Jasmine Paolini e a Campinas Danka Kovinic.

In passato, il tennis del circuito maggiore femminile ha fatto tappa, sia pur con discontinuità, in Brasile. Nel 1977 Billie Jean King si impose a Betty Stove nella finale del Colgate Brazil Open di San Paolo. Per ritrovare nomi di un certo livello bisogna però andare al biennio 2001/02, quando il torneo venne disputato a Bahia (era un Tier II) e vide la vittoria di due campionesse slam quali Monica Seles e Anastasia Myskina. Infine, negli ultimi anni ci sono state quattro edizioni della Brasil Cup a Florianopolis e tre del Rio Open, vinto nel 2015 da Sara Errani e l’anno successivo da Francesca Schiavone.

Leggi anche:

    None Found