Il ricordo di Aaron

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di Luca Brancher

Mio figlio è stato cresciuto in un rigoroso ambiente di religione ebrea per 16 anni, era il più piccolo e coccolato della famiglia: ora lo faccia diventare più italiano”

Se glielo avessero detto, non ci avrebbe creduto. E con ogni probabilità, anche nello stesso momento in cui l’ha vissuto, ha dovuto attendere qualche secondo per realizzare che in effetti, l’insperato, si stava concretizzando. Aaron Krickstein, giovane promessa a stelle e strisce, da Pointe Grosse, Michigan, temeva molto quell’incontro, a tal punto da avere sognato, la notte precedente, di uscire dal campo quasi umiliato, con una sonora sconfitta sul groppone; il suo avversario, Vitas Gerulaitis, sui campi di Flushing Meadows aveva colto una finale quattro anni prima, oltre a diversi piazzamenti positivi. Lui, Aaron, in quell’inizio settembre del 1983, aveva da poco compiuto 16 anni e aveva usufruito di un invito in virtù dello strepitoso risultato colto nei campionati nazionali under 18 di Kalamazoo. Nel primo turno si era guadagnato una vittoria contro un altro giovane giocatore, sebbene di un anno più anziano, che rispondeva al nome di Stefan Edberg; lo svedese, che di lì a qualche giorno avrebbe centrato il Grande Slam Junior, non era ancora un personaggio di grido, mentre al turno successivo si era sbarazzato del meno affascinante Scott Lipton. Per accedere agli ottavi di finale doveva vedersela appunto col tennista di origine lituana, contro cui aveva un segreto timore di soccombere. E tutta la tensione si palesava nei primi due set, in cui Aaron giocava troppo contratto, tanto da non insidiare mai il suo più esperto rivale, fino a quando questi non lasciò tradire un certo nervosismo, che diede nuova linfa a Krickstein; il doppio fallo che permise ad Aaron di scappare sul 4-0 del terzo parziale fu indolore rispetto agli svariati che commise nel quinto set, soprattutto i due che impedirono a Vitas di issarsi sul 5-2: fu poi semplice per il ragazzino ribaltare la situazione fino al 6-4 in suo favore. Un incubo diventato sogno.

Al turno successivo Krickstein avrebbe pagato dazio a Yannick Noah, che proprio in quell’incontro avrebbe messo a segno il suo tweener più famoso, ma il giovanile furore mostrato durante la prima settimana a New York non poteva limitarsi temporalmente e spazialmente, per cui a Tel Aviv – città non banale per un ebreo – poche settimane dopo avrebbe colto il primo titolo sul circuito maggiore, un record di precocità tutt’oggi ancora ineguagliato. E la carriera di una giovane stella sarebbe così esplosa, fino ad aggiudicarsi un nuovo primato, essere il più giovane top-ten della storia di questo sport, poco meno di un anno più tardi, esattamente undici giorni dopo aver superato il diciassettesimo anno di vita. Pare il preludio ideale per chi ambisce a diventare un numero 1, evento mai verificatosi, pur essendo stato un giocatore altamente competitivo. Anzi il suo essere rimasto comunque ad un certo livello, nonostante tutto, ha avvalorato il fatto che Aaron avesse davvero il pedigree del campione, che purtroppo ha dovuto sopperire ad alcune sfortune.

Iniziato al tennis dal padre, che era un patologo al St. John’s Hospital di Detroit, Krickstein divenne da subito una stella locale, prima per i successi in tenera età nel nuoto, poi per gli allori in campo tennistico: per tutta la carriera da junior, non ha mai ceduto il passo davanti ad un atleta più giovane, e l’eco delle sue imprese era a tal punto assordante da arrivare alle orecchie di Nick Bolettieri – che lo prese sotto la sua ala poco prima di quel Flushing Meadows: fu proprio in occasione del primo incontro con l’icona delle Tennis Academy che venne pronunciato quello strano discorso dal padre “Fallo diventare italiano”. Da leggersi come: fallo diventare più smaliziato in campo, per vincere in questo sport non bisogna essere dei ragazzi perbene, e lui, nipote di un rabbino, aveva avuto un’infanzia troppo agiata. Avesse perso la fame, avrebbe rischiato di non sfondare. Non ha mai corso questo pericolo, ed un particolare della sua carriera lo argomenta in maniera precisa: viene infatti celebrato come l’uomo delle maratone, quello che in dieci occasioni ha recuperato un match sotto di due set ed è detentore di uno strepitoso record di 27 vittorie e 8 sconfitte al quinto. Senza tanti giri di parole, era un vincente, il classico tennista che non avresti mai voluto trovarti dall’altra parte del campo. Ebbene, cosa è andato storto?

krickstein injuryNon si può quindi, giunti a questo punto, non far entrare in scena il più presente, ma sgradito, compagno di Krickstein, l’infortunio, che ne ha scandito in maniera sintomatica i suoi anni sul circuito. Sin dal 1985 è stato un susseguirsi di fratture da stress al piede, problemi al polso, fastidi alle ginocchia, fino al taxi che, nell’estate del 1987, incocciò la sua auto facendogli perdere il resto della stagione. Ed a maggior ragione per questo che assume ancora più valore la sua semifinale allo U.S. Open del 1989, dove si sarebbe arreso al futuro vincitore Boris Becker e dove avrebbe trovato lo slancio necessario per ergersi fino alla sesta posizione del ranking mondiale, suo primato assoluto. In quell’epoca, dopo le varie vicissitudini fisiche, erano davvero in pochi a dargli ancora credito. Krickstein, però, essendo un lottatore nato, non aveva mai mollato un centimetro, e attraverso un’ennesima rimonta, questa volta su Volkov, era giunto ad un solo passo dall’atto conclusivo. Inoltre il tennista del Michigan aveva trovato spazio anche nella selezione americana di Davis Cup, ed ebbe un ruolo non secondario nel successo del 1990, grazie alle due sudate vittorie contro Srejber e Korda nel quarto di finale in Cecoslovacchia. Negli anni ’90 la sua presenza divenne, a tratti, quasi irrilevante, per i motivi appena esposti, più che per le sue qualità, e dopo un quarto di finale agli U.S. Open dovette attendere il 1995, quando la campana sembrava davvero ormai suonata, per riagguantare una semifinale insperata negli Slam, questa volta però agli Australian Open, dove chiuse una nuova rimonta da 0-2 – contro lo stesso Stefan Edberg con cui condivise quel momento di gloria ad inizio carriera – prima di ritirarsi, a situazione compromessa, contro Agassi in semifinale. In quella stagione cominciò anche il suo lento declino, guidato più dal fisico che non dall’età, che si sarebbe attestata in quell’estate sulle 28 primavere: emblematiche le sue ultime due partecipazioni Slam, U.S. Open ‘95 ed Australian Open ‘96, dove in due occasioni, persi i primi due set, tentò la sua ennesima rimonta, ma finì col cedere al quinto, un incubo dei suoi avversari che stava in verità diventando il proprio. Così, dopo 13 sconfitte consecutive, Aaron appese la racchetta al chiodo: aveva fatto il suo tempo, non c’era più spazio per lui.

Oggi Aaron Krickstein vive in quella Florida che, sedicenne, lo aveva accolto per farlo diventare un giocatore più cattivo, è direttore del tennis club di St. Andrew’s a Boca Raton, dove risiede con la moglie Bianca e la figlia Jade. Anche la vita personale di Aaron non è stata avulsa dal dolore, a cominciare dalla morte di una delle tre sorelle maggiori, Kathy, madre dell’attuale pro-golfer staunitense Morgan Pressel, e pure la moglie, un anno dopo aver partorito, contrasse un cancro alle ovaie da cui è comunque riuscita a guarire. Interrogato, nella più classica delle domande americane sulle future generazioni, si disse speranzoso che la figlia, più che ricalcare le sue orme, avesse imparato dal nonno Herb, così come accaduto a Morgan, i rudimenti del golf. Forse le vorrebbe evitare di vivere un episodio simile a quello da lui “subito”, che, a prescindere dall’evoluzione della sua carriera, ne ha condizionato in maniera forte ogni suo successivo passaggio, tanto da essere ancora oggi una ferita aperta.

Dobbiamo tornare al Labor Day del 1991, ottavi di finale dello U.S. Open, da una parte Aaron Krickstein, che dopo la semifinale del 1989 e il quarto dell’anno successivo, sognava un nuovo risultato da antologia nello Slam di casa, dal momento che, avesse vinto quella partita, ai quarti avrebbe affrontato un non irresistibile, ma ostico, Paul Haarhuis. Tuttavia doveva prima sconfiggere il “vecchietto” Jimmy Connors, deciso nel suo intento di far capire a tutti che nonostante i 39 anni compiuti la voglia di abbandondare le scene ancora non lo sfiorava. E, se si dovesse riassumere il tutto, fu proprio il desiderio di protagonismo del vecchio Jimmy a fungere da spartiacque in quella partita. Una maratona vera, non solo per i continui ribaltamenti di punteggio, ma soprattutto per i sentimenti che i due hanno messo in campo; Connors, trascinato dalla folla, fu capace di rimontare per due volte una situazione di un set di svantaggio, fino a spuntarla al termine del tie break finale per 7 punti a 4, quando il cronometro della partita faceva segnare 4 ore e 41 minuti di gioco.

Una delusione terribile, non tanto per il risultato “Con Jimmy non ci siamo più sentiti. Ero molto legato a lui, soprattutto a 15, 16 anni, quando spesso andavo a casa sua. Dopo quell’incontro, però, qualcosa si è rotto. Il suo atteggiamento mi ha urtato, ha fatto e detto cose irripetibili, era votato alla vittoria e, se penso che aveva quasi 40 anni, l’intera situazione mi lascia ancora perplesso.” Più che per aver perso una sorta di amico, quello che più ferisce Aaron è il modo in cui ormai lui viene percepito. “Ogni anno, durante lo U.S. Open, appena c’è un’interruzione per pioggia, viene riproposto questo match. Non potete capire quale sofferenza per me è stata nelle edizioni successive, quando mi trovavo nei pressi di Flushing Meadows e vedevo la gente avvicinarsi e dirmi che loro, durante quell’ìncontro, erano presenti e mi avevano supportato. Peccato, io non ho sentito nessuno incitarmi o esultare ad un mio punto, anzi, l’intera platea era soggiogata dal grande Jimbo. E’ veramente brutto essere ricordato per un incontro che se avessi vinto nessuno avrebbe così bene scolpito nella propria mente.” Una fama che, ahilui, lo precede in ogni luogo dove si respira tennis. “E’ capitato anche ad una tappa del senior tour: al momento delle presentazioni, la speaker mi ha presentato come lo sconfitto contro Connors, allora ho aggiunto che ero stato anche un top 10…”

In quello U.S. Open Krickstein, che era scivolato attorno alla 50esima posizione della graduatoria mondiale, si era tolto lo sfizio di battere al primo turno un Andre Agassi, top ten, che al termine dell’incontro si era lasciato andare ad alcuni atteggiamenti equivoci, tanto da lanciare un asciugamano contro uno spettatore. “Quell’incontro per me aveva molto più senso di quello con Connors, ma è praticamente sparito dalla memoria di ogni appassionato. In futuro spero veramente di essere ricordato come zio di Morgan Pressell, e non come lo sparring partner sconfitto di Jimmy Connnors.”

Sarebbe bello, oltre che semplice, e da storia strutturata, limitare la carriera di Aaron Krickstein tra lo U.S. Open del 1983, quando si rivelò contro Gerulaitis, e quella del 1991, quando subì la sconfitta pesante contro Connors. Una vittoria inattesa ed una sconfitta sgradita, ma c’è dell’altro nella carriera di un giocatore che non dovrebbe necessitare di una semplice defezione per essere rimembrato. Il maratoneta che proprio al termine di una maratona ha alzato bandiera bianca, in realtà ha avuto un passato ed anche un futuro pieno di vittorie in rimonta, ma questo marchio di fabbrica non lo ha abbandonato, nemmeno ora le cui sortite sul Senior Tour si sono ridotte al lumicino. Non banalizziamo la realtà in favore di una semplice storia da raccontare, perché le ferite lasciate sulla pelle dei protagonisti sono diffiicli da suturare: e dimenticare quell’Australian Open del 1995 non è corretto. Aaron Krickstein lo sa e non se lo spiega, ed è forse per quello che si augura che la figlia intraprenda uno sport dove il confronto diretto è annacquato, come il golf. Perché se l’avversario fosse stato neutro, Aaron, con ogni probabilità, vivrebbe un ricordo della vita agonistica di tutt’altra fattura. Tornano così alla mente le parole che il padre disse a Bolletieri quando glielo portò, la prima volta:

Mio figlio è stato cresciuto in un rigoroso ambiente di religione ebrea per 16 anni, era il più piccolo e coccolato della famiglia: ora lo faccia diventare più italiano”

Se per italiano, in tale accezione, intendevano più scafato, più malizioso in campo, proprio la partita contro Connors ha definito il fallimento di tale proposito.

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