Jannik Sinner e Carlos Alcaraz, come in (quasi) tutte le occasioni, a Torino hanno creato l’atmosfera perfetta. Ogni punto, nell’ultimo atto delle Nitto ATP Finals, è stato ricco di pathos, tensione, ansia, spettacolo, meraviglia. Anche l’errore, paradossalmente, è stato vissuto alla stessa maniera. Jannik e Carlos hanno creato, per meriti e casualità, la rivalità perfetta. Tecnica, tattica, psicologica, fisica. “Ma io che ne so!?”, ha risposto (in maniera perfetta) Paolo Bertolucci alla domanda odierna su chi fosse favorito a Torino. Ed è proprio in queste parole che vive e risiede la rivalità perfetta, perché ogni volta che Sinner e Alcaraz si affrontano non esiste un vero favorito. Sono tifo e scaramanzia a parlare e a far propendere per l’uno o per l’altro perché, di fatto, sarebbe sbagliato schierarsi in maniera convinta. A Parigi, dove Sinner non aveva mai realmente incantato, ci si aspettava un Alcaraz dominante, ma è stato Jannik ad andare a un passo dalla vittoria netta; a Wimbledon l’inerzia pareva dalla parte dello spagnolo, preso invece per larghi a tratti a pallate da Sinner. Forse solamente a New York Alcaraz ha confermato una superiorità abbastanza palese nel torneo, ma per il resto qualsiasi loro incontro ha vissuto e vive sul filo di lana. Anche l’appassionato neutrale vive i ‘Sinneraz’ come se stesse seguendo da pochi metri la passeggiata di Philippe Petit tra le Twin Towers o, banalmente, i calci di rigore di Francia – Italia nel 2006.
Le grandi rivalità sono il sale dello sport, ma qui si sta superando ogni limite (in positivo). Il tennis ha vissuto di rendita sui Fab4 per anni, anche se per alcuni versi non tutte le loro ere hanno portato il pathos di Sinner e Alcaraz. Non si tratta di un discorso di qualità: Federer, Djokovic, Nadal e Murray hanno rappresentato la ‘Golden Era’ del tennis; ciò che hanno rappresentato in campo e fuori, sarà difficilmente replicabile. Ma per una grande rivalità gli ingredienti necessari sono: qualità, incertezza, equilibrio, contrasto di stili, sia come tennis che a livello di personalità. Federer e Nadal raramente (quando è successo si è raggiunto il nirvana) hanno vissuto fasi di estremo equilibrio, se non in alcuni casi specifici. Il contrasto di stili era totale, ma se (quasi) nel 50% il match è finito senza concedere un set all’avversario, l’incertezza non l’ha fatta esattamente da padrona. Tra Djokovic, Nadal e Murray ci sono state tante belle sfide equilibrate (soprattutto tra i primi due), ma la tattica era troppo spesso prevedibile. Alcaraz e Sinner, se escludiamo il ritiro di Cincinnati, hanno vinto senza perdere alcun set soltanto 5 volte su 16. E in un paio di queste circostanze ciò è accaduto per problemi fisici.
Alcaraz e Sinner si inseguono giorno dopo giorno, anche quando sono in vacanza. Ogni sfida è uno stimolo per lo sconfitto a migliorarsi. Si stimano, molto, ma sono iper competitivi e non accetterebbero di perdere con l’altro nemmeno a scopone scientifico. Vivono nel desiderio di superare l’altro, seppur sempre con grande sportività e stile. Il loro rispetto è sincero, ma in ogni sguardo si carpisce gioia e dispiacere; anzi, per usare termini ancor più veritieri: goduria totale e incazzatura cocente. Il loro migliorarsi a vicenda, come accaduto per i Fab4, innalza il livello a velocità smodata (cit. Balle Spaziali, perché Mel Brooks è sempre un maestro). Il modo in cui entrambi entrano nella partita, in cui sono focalizzati su ogni punto porta infatti lo spettatore, che sia tifoso o semplice (che poi, semplice a chi?) appassionato del gioco, a vivere quella tensione. È come colpire insieme a loro. E non è un modo di dire. Sugli spalti, o sul divano di casa, si salta in piedi, perché Alcaraz e Sinner sono i rivali perfetti. Che il Dio del tennis li conservi integri fisicamente per (almeno) altri 10 anni.
