Raffaella Reggi: “In Italia mentalità sbagliata”


di Gianfilippo Maiga
Raffaella Reggi è un’affermata commentatrice televisiva. Questo però è il solo modo per lei di vivere il tennis, perché da tempo è lontana dai campi. Sebbene il suo lavoro la gratifichi e le permetta di assolvere ai suoi compiti di madre, cui dà grande importanza, dalle sue parole affiora un po’ di dispiacere in chi si sente ancora donna di campo, più che di studio. Raffaella è una persona diretta e sincera, come lo è il suo mentore di una volta, Nick Bollettieri. Proprio per questo, echeggia dalle parole di chi come lei ama la chiarezza e il confronto il disappunto per una distanza dal suo mondo scavata dalle parole non dette.
Cosa fa oggi Raffaella Reggi?
“Lavoro per Sky come commentatrice sportiva ormai da 9 anni e ho conseguito la patente di pubblicista, anche per esaudire il desiderio di mia madre, mancata 4 mesi fa. Questo è il mio unico rapporto con il tennis, perché a Faenza, dove vivo da sempre e stabilmente da quando mi sono ritirata, non gioco più agonisticamente e non alleno. Per il resto, ho scelto di dedicarmi a mia figlia Giulia, che ha 17 anni e con cui voglio essere una mamma tradizionale, che l’accompagna a scuola la mattina, per intenderci. Alla decisione un po’ drastica di non allenare non è estranea – va detto – una certa mia presa di distanza dall’ambiente tennistico italiano, e non parlo in particolare di quello di alto livello. Mi riferisco al suo provincialismo, purtroppo così diffuso fra gli addetti ai lavori, stampa inclusa, ma anche fra le famiglie, e alla mentalità sbagliata che viene inculcata ai ragazzi e di cui sfortunatamente questi si imbevono con una certa facilità.”
Da junior eri forte e hai vinto l’Orange Bowl under 16 (1981). Com’è stato il percorso che ti ha portato al professionismo?
“Credo davvero di poter dire che avevo il tennis nel sangue. Era il mio pensiero fisso, il centro della mia attenzione già da bambina. Per questa ragione i miei, che in questo sono stati eccezionali, mi hanno permesso di andare fuori di casa a soli 11 anni, quando mi sono trasferita a Latina sotto le cure di Di Domenico, presso un centro federale, in pratica sperimentale per le ragazze, dove sono rimasta 3 anni. Per me lasciare la famiglia non è stato mai un problema (e, forse, questa è una delle difficoltà maggiori da vincere quando si vuole tentare la strada del tennis). Infatti, a quattordici anni, approfittando di una borsa di studio privata, sono partita per l’America – ancora una volta con il sostegno dei miei – per approdare all’Accademia di Bollettieri, dove sono giunta non avendo una chiara idea di cosa mi attendeva e, soprattutto, non cullando ambizioni particolari altre che quelle di giocare a tennis. Come spesso avviene il mio destino è stato segnato da una certa casualità, ma quando le occasioni si presentano bisogna essere capaci di coglierle. Bodo, rappresentante di Kim top line e Prince Racchette, aveva sotto contratto tra i maschi Rinaldini, di Faenza come me. Voleva affiancare ad un ragazzo anche una tennista e Rinaldini gli indicò il mio nome. Al momento di firmare il contratto mi accennò anche all’opportunità di andare in America con una borsa di studio offerta dalle aziende da lui rappresentate: non me lo sono fatto dire due volte. La Federazione, anche per quella sottile vena di provincialismo che ci perseguita, non approvò affatto la scelta di emigrare. Le conseguenze sono state immediate: non sono stata convocata per un importante incontro a squadre che si svolgeva di lì a poco; anzi, non sono stata neppure inserita nella delegazione che avrebbe disputato l’Orange Bowl under 16 che ho poi vinto! Anche qui sono entrate in gioco la buona sorte, che mi ha fornito un’occasione propizia e la capacità di sfruttarla. Era disponibile per l’Orange Bowl una wild card a chi avesse vinto un torneo di pre-qualifica. Io vi ho partecipato e vinto e per questa ragione ho potuto poi accedere al torneo. Di lì a poco ho partecipato, partendo addirittura dalle pre-quali e giungendo fino ai quarti al mio terzo torneo professionistico: il grande Virginia Slims. Poiché dovevi avere la partecipazione a 3 tornei per poter entrare nella classifica mondiale, si potrebbe dire che quello sia stato il trampolino dal quale sono partita per dedicarmi al tennis a tempo pieno; in effetti è da lì che ho iniziato la scalata mondiale. Ritengo però che il mio passaggio al professionismo sia stato per me il completamento di un percorso molto lungo e non sia da tradursi in un singolo momento, sia pur importante come quello. Questo percorso è contrassegnato dai nomi di alcuni maestri ed allenatori che per me sono stati fondamentali e che mi piace ricordare: Spisani, Bonetti, (che purtroppo oggi non c`è più), Higueras e Bollettieri. Quest’ultimo dopo avermi “provato” mi aveva pronosticato in breve tempo traguardi che mi sembravano pazzeschi e che invece si sono verificati. Se c’è un insegnamento che mi ha trasmesso è di pensare in grande, di guardare avanti. Se ho superato molte difficoltà è perché ho sempre tenuto presente questo aspetto, e non che la concorrenza fosse di basso livello!”
Sei stata la prima italiana a vincere un grande slam (doppio misto agli us open nel 1986 con Casal). È questo il tuo ricordo più significativo, l’emozione più grande, o ci sono altre pagine della tua carriera che ti piace ricordare?
“Per carità, la vittoria agli US Open è un ricordo indelebile. Se però devo scegliere, forse, vorrei mettere almeno sullo stesso piano altre pagine e sono quelle della partecipazione a 3 edizioni delle Olimpiadi (Los Angeles ‘84, quando il tennis era dimostrativo, Seul ‘88 e l’ultima, Barcellona, poco prima che io mi ritirassi). Indossare la maglia azzurra ha sempre avuto per me un significato speciale, con il suo momento più alto nella conquista della medaglia di bronzo (Los Angeles). Anche la vittoria contro la Evert a Seul rappresentando l’Italia ha avuto un sapore diverso rispetto a quello che avrebbe avuto se avessi vinto in un torneo individuale. Fra i ricordi più belli c’è infine – e non potrebbe essere diversamente – la vittoria nel mio primo torneo da professionista: a Lugano, in finale contro la Maleeva, battuta al tie-break del 3° set!”
In campo mostravi una personalità da “fighter”. C`è qualche episodio in particolare in cui il tuo carattere ti ha maggiormente aiutato? Com’erano i tuoi rapporti con le principali giocatrici dell’epoca?
“Premetto che il mio “caratterino”, che ho sempre avuto, sin da quando ero bambina, si fermava al campo di gioco. I miei rapporti con le colleghe erano ottimi, e posso riscontrarlo ogni qualvolta mi capita di incontrarle ancora oggi. Certo, anch’io avevo le mie simpatie. Allora esistevano due correnti: chi si sentiva affine a Chris Evert e chi invece simpatizzava per Martina Navratilova, due modi di essere completamente differenti, spigolosa e tutto sommato scostante dentro e fuori dal campo la prima quanto era invece disponibile e “fair” la seconda. Inutile dire che io ero al 100% per Martina e non nascondo che battere la Evert mi dava una particolare soddisfazione. La mia cattiveria agonistica è stata certamente un aiuto, non un freno, perché sono riuscita a canalizzarla positivamente. Sono tante le occasioni in cui mi è servita; chi mi incontrava sapeva che, anche se avesse vinto, avrebbe dovuto sudarsi il successo. Per tutte, valga la vittoria al 1 turno del Roland Garros nel 1989 contro la Zvereva, che aveva raggiunto la finale l’anno prima: ero sotto 2-6 e 3-5 e sono stata capace di ribaltare la situazione.”
Hai sfiorato l’ingresso nelle top ten (13 wta best ranking). La tua classifica è stata quindi eccezionale. Come mai ti sei ritirata a soli 25 anni, nel pieno delle tue forze?
“Il mio ritiro prematuro è dovuto ai miei problemi fisici. Ho terminato la carriera perché non avevo più la cartilagine alle anche, ma questo non è stato il solo mio problema. Ad un certo punto ho sofferto di uno sperone calcaneare, che mi obbligava a giocare con un buco in una scarpa. Ho “tirato avanti” fino alle Olimpiadi di Barcellona perché, come ho detto, tenevo assolutamente alla maglia azzurra e in particolare a rivivere la magica atmosfera delle Olimpiadi. A Barcellona, all’insaputa di tutti e anche della mia famiglia, cui avevo solo detto in anticipo e senza ulteriori spiegazioni di ascoltare la mia conferenza stampa, ho annunciato il mio ritiro. L’abbandono delle scene agonistiche non è stato una passeggiata: avevo contratti per due anni, di cui ho naturalmente persi i benefici, e soprattutto ho provato una grande amarezza, al punto che ho chiesto alla WTA di togliermi da subito dalle classifiche mondiali. Non avrei sopportato di assistere alla lenta discesa del mio ranking, senza poter far niente per risollevarlo.”
Sei stata anche capitana di Fed Cup. Cosa hai tratto da quell’esperienza? Ti piacerebbe rinnovarla?
“Non posso che avere un buon ricordo di quel periodo, che per me rappresenta anche una bella soddisfazione professionale, dato che dalla Serie C in cui eravamo sprofondate siamo arrivate ad una storica semifinale. L’esperienza si è interrotta con l’avvicendamento di Ricci Bitti e l’avvento di Binaghi, che ha ritenuto di cambiare in modo sostanziale la sua squadra e io sono stata accantonata. L’avventura è stata straordinaria, ma anche ardua. Lavorare con le ragazze sotto un certo profilo non è facile: estremamente rigorose e professionali intorno e nel campo, fuori si rivelano spesso problematiche e competitive in modo non sempre “sano”. Considero però quell’esperienza compiuta, un capitolo chiuso.”
Sara Errani, su tuo consiglio, è andata in Florida all’Accademia di Bollettieri. Ridaresti oggi quel consiglio?
“Della nota accademia – così come di altre grandi scuole di tennis internazionali – si sente tutto il bene e tutto il male possibile. Il mio punto di vista è che un giovane debba fare un’esperienza di allenamento e, in definitiva, di vita, all’estero a un certo punto del suo percorso di crescita personale e tennistica. Ritengo questo passo importante non tanto, o quanto meno non esclusivamente, da un punto di vista dell’apprendimento della tecnica tennistica o del gioco, quanto come il mezzo per acquisire la giusta mentalità, per fare un salto di qualità sotto il profilo dell’approccio al tennis, soprattutto se gli si vuol dare una dimensione professionale. “Emigrare” e farlo attraverso una buona Accademia significa concentrare molte esperienze in una: l’incontro con culture affatto diverse, l’assimilare e sperimentare sulla propria pelle il significato di una disciplina, conoscere l’adattamento a un modo di vivere a cui non sei abituato – incluso l’allontanamento dai propri affetti- e reagire positivamente. L’alchimia con queste realtà è molto soggettiva: Sara ha avuto qualche problema, per esempio, a inserirsi in America, mentre ha trovato la sua collocazione ottimale in Spagna. È per questa ragione che i giudizi anche sulla medesima Accademia a volte variano sensibilmente. Consigliare una o l’altra accademia è difficile se non se ne conosce a fondo la realtà: so che quel centro è profondamente cambiato da molti anni, ossia da quando Bollettieri ha venduto all’IMG e ha perso gran parte del suo ruolo di vero e proprio dominus della struttura (3 anni fa, quando sono andata a trovarlo, ho notato che seguiva non più di 5-6 giocatori) e ci si allenavano 200 ragazzi, mentre oggi i frequentatori sono migliaia. Personalmente ho solo bei ricordi, e sono in buona parte legati al rapporto con Nick. Bollettieri è stato una figura straordinaria per quello che è stato capace di fare: da semplice raccattapalle senza alcuna competenza tennistica ad imprenditore almeno all’inizio di grande successo (con l’aiuto del padre dell’ex-giocatrice Carling Bassett Seguso e del principale azionista della RC Cola), ma è stato anche un grande conoscitore di persone e un essere umanamente ricco, a cominciare dal fatto che dice quello che pensa. Non può essere un caso se, almeno per un certo periodo, molti grandi giocatori sono passati o venuti fuori da lì: tra gli altri Seles, Agassi, Sampras, Courier, Arias, che forse molti hanno dimenticato ma era la “great american hope”. Ancora oggi è in grado di dare molto: Quinzi, che è stato seguito da lui per qualche tempo recentemente, ne parla a sua volta molto bene. Sono naturalmente ben consapevole del costo che ha un’Accademia come quella e altre consimili; io mi sono avvantaggiata di una Borsa di studio, altrimenti l’avventura sarebbe risultata proibitiva.”
Qual è il tuo giudizio sulla realtà italiana? Come ti poni nei suoi confronti?
“In Italia, va subito detto, non mancano né le strutture, né le competenze. Come ho già detto prima, è la mentalità che è sbagliata. Ognuno coltiva il suo orticello, la possibilità di scambiarsi esperienze è offuscata da una gelosia strisciante e un provincialismo diffuso che non vede di buon occhio l’apertura verso altri confini. Anche da un punto di vista organizzativo mi pare ci sia ancora molto da fare. L’Italia non ha un settore tecnico femminile, per esempio. È vero che avere successo per una donna è molto più facile che per un ragazzo, ma il tennis femminile è quello che ha dato più soddisfazioni all’Italia e meriterebbe pari dignità di quello maschile. Mi piacerebbe anche approfondire i criteri con cui avviene oggi la selezione dei ragazzi/e di prospettiva: ritengo che definire a 10-12 anni quali siano le speranze del tennis sia un po’ prematuro, con il rischio, caricando da subito i prescelti di stress e aspettative, di perderli prematuramente e di far mancare ad altri, che maturano più tardi, il necessario supporto. Mi piacerebbe infine che ci si desse una filosofia comune di gioco, che rappresenti bene le nostre caratteristiche, così come hanno fatto altri Paesi (la Spagna, in primis). Questo non significa né omologarci, né imitare altri, ma darci un’impostazione condivisa e seguirla. Mi piacerebbe, infine, che l’Italia utilizzasse di più i suoi campioni, che invece non sembrano, per la quasi totalità, trovarvi spazio. Io, per esempio, sono fuori dal giro e non ho chances di rientrarvi. Oggi ho la mia professione e seguo un percorso diverso, ma a suo tempo, quando ho intrapreso questa strada, è stata una scelta quasi obbligata. Da capitano di Fed Cup, che ero quando avevo Panatta come riferimento, sono stata improvvisamente estromessa da qualsiasi incarico e ancora oggi mi domando perché, dato che non ho litigato con nessuno. Mi è chiaro che il Presidente Binaghi, con il cui avvento, come ho già detto, è coincisa la cessazione dei rapporti con la Federtennis, aveva tutto il diritto di scegliere la propria squadra, ma non comprendo, invece, l’ostracismo vero e proprio di cui sono stata fatta oggetto. Vorrei fare un esempio per far comprendere di cosa parlo. Monica Seles, mia amica di lungo corso, viene in Italia per ricevere il premio Racchetta d’oro e mi invita ad accompagnarla. Ricevo una telefonata di Lea Pericoli che mi chiede di non intervenire alla cerimonia perché persona non gradita. Ancora: si celebrano i 100 anni della Federazione. Dalla celebrazione sono estromessi i vari Panatta, Bertolucci, Reggi, Canè, Gaudenzi, ecc. Un pezzo della storia del tennis italiano. Mi chiedo: perché? E’ giusto? Per quanto mi riguarda direttamente, se anche più di me possono aver vinto altri, si può comunque dimenticare quello che ho fatto? La sensazione, fuor di ogni ipocrisia, è che tutti coloro che non erano allineati e coperti siano stati esclusi, e malamente. Peccato, perché ogni campione potrebbe dare il suo contributo. Chi, come Adriano, sarebbe un meraviglioso capitano di Coppa Davis, chi potrebbe essere uomo immagine, chi un valido allenatore: io, per esempio, mi sento e sono donna di campo. Dico questo non perché ambisca a qualcosa (oggi sono gratificata da quello che faccio), ma perché come ai tempi anteponevo la maglia azzurra a qualsiasi cosa, ancora oggi amo tantissimo il tennis e l’Italia.”

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