di Alessandro Nizegorodcew
Diego Veronelli è un ragazzo fantastico, innamorato di uno sport che non gli ha regalato le soddisfazioni che probabilmente avrebbe meritato. Una serie di infortuni, una famiglia che non navigava nell’oro, e un ritiro precoce ed annunciato. Nato il 5 dicembre del 1979 a Buenos Aires, ha conquistato nel 2004 il ranking di numero 165 Atp, con il picco in quel di Palermo l’anno precedente: partendo dalle qualificazioni raggiunse i quarti battendo nettamente Davydenko e Hanescu prima di perdere in tre set con Mathieu. Interrotta anzitempo la carriera agonistica ha subito intrapreso la strada del coaching, prima con Joao Souza ed oggi con la forte britannica Heather Watson.
Partiamo dalla fine della tua carriera agonisticia e l’inizio del tuo lavoro di coach…
“La mia ultima esperienza come giocatore risale al maggio del 2010 nella World Team Cup di Dusseldorf, dove l’Argentina vinse il titolo. Io pensavo di smettere giá da un pò a causa di alcuni problemi fisici. Mi sono ritirato nel mese di giugno e ho iniziato subito a lavorare a Buenos Aires con qualche giocatore Junior e qualche professionista. Dopo pochi mesi (precisamente a settembre) mi si è presentata l’opportunitá di viaggiare con il brasiliano Joao Souza. Un’idea stimolante… Ho subito accettato.”
Come è stata l’esperienza con Souza?
“Sono stati du anni molto buoni con Souza, produttivi, nei quali tutti e due abbiamo imparato molto. Avevamo molta complicitá sia in campo che fuori, e infatti i risultati sono arrivati molto rapidamente. Ha vinto il primo torneo al quale siamo andati insieme e dopo pochi mesi ha rotto il confine dei primi 100. Adesso siamo rimasti in contatto e continuiamo ad essere buoni amici.”
Come è nata la tua collaborazione con Heather Watson?
“Vivevo a Bradenton da poco e stavo seguendo una ragazza junior. Nulla di importante si stava però concretizzando e avevo già preso la decisione di tornare a Buenos Aires. Ma una domenica pomeriggio è giunta la chiamata… E da allora seguo Heather.”
Quali potenzialità credi abbia la Watson?
“Vedo in lei molte potenzialitá e margini di miglioramento, è molto competitiva, e come tutti gli atleti passa periodi di alti e bassi, la sto conoscendo adesso in modo più approfondito. L’obiettivo è darle una maggiore continuità di risultati e di rendimento. Le sue caratteristiche sono da giocatrice di vertice, giá lo ha dimostrato vincendo un torneo WTA a 20 anni, non è una cosa che può fare chiunque. In quanto a ranking non mi piace dire: “questo giocatore potrá arrivare 30, 20 o 10″. Il primo errore che commette la gente, anche allenatori e giocatori, è porre dei limiti. Io credo che non ci siano limiti. Ritengo che si abbia o tanto tempo o poco tempo per arrivare alla vetta. Parlando di obbiettivi reali, lei deve ritrovare le sue vecchie buone sensazioni e affrontare una stagione completa lontana dagli infortunii.”
Su cosa state lavorando in particolare?
“Il fisico è l’aspetto su cui stiamo lavorando maggiormente. Ha oggi un’ottima condizione e può fare la differenza anche solo contando sul suo fisico. Dopo gli Australian Open giocherà Parigi e la Fed Cup contro l’Ungheria, a marzo Indian Wells e Miami; dopodichè dipenderá dai risultati che avrá ottenuto.”
Che differenze noti nell’allenare un uomo oppure una donna?
“Sono varie: l’aspetto del gioco e quello mentale sono molto diversi. Gli uomini si sentono bene quando giocano bene. Le donne hanno bisogno di stare bene per poter giocare bene. Le loro partite cambiano spesso, così come sono altalenanti le loro emozioni. Parlando prettamente di tennis giocato, nel femminile si continua a vedere molto la differenza tra quelle che servono meglio o che si muovono meglio sul campo. Nel maschile credo che sia la risposta al servizio il dettaglio vincente.”
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