One day at Wimbledon: tra nobiltà, sessismo e tennis

Vandeweghe Wimbledon

Di Giulio Gasparin (@GiulioGasparin)

È martedì. È il martedì dei quarti femminili e molti devono ancora riprendersi dal Maniac Monday appena conclusosi con tutti gli ottavi di finale, maschili e femminili, disputatisi e quasi tutti conclusisi. C’è ancora un match che deve essere portato a termine, sul campo 1 infatti Novak Djokovic deve ancora sbrigare la pratica Andersson, che tanto l’ha fatto penare con il suo servizio potente e preciso. Per quanto mi riguarda però l’attenzione è tutta sul campo centrale, perché è li che passerò la mia giornata, baciato dalla dea bendata, anche se solo di riflesso, perché una mia ex compagna di università aveva vinto due biglietti al famoso public ballot e mi ha invitato ad accompagnarla. Certo, le mie speranze erano di vedere, in una delle rare occasioni in cui lasciavo il mio ruolo di giornalista a casa favorendo il mio lato tifoso, una delle mie preferite, ma questo non ha per nulla diminuito l’eccezionalità della giornata.

Non mi dilungherò nella descrizione dei match, perché per questo ci hanno già pensato i miei colleghi, anzi, se ve li foste persi, qui trovate i resoconti dei quarti femminili. Quello che proverò a fare è condividere con voi i forse confusi e contraddittori, ma magici pensieri ed emozioni che un pomeriggio di mezza estate porta sul più famoso dei Campi Centrali, un po’ come la stessa data ispirò la più famosa delle penne della storia inglese e forse non solo.

In primis, il tempo meteorologico non poteva essere più stupendo: scappato dalla morsa dell’afa della Pianura Padana, la sol visione di nubi nel cielo che correvano sospinte da un vento capriccioso mi ha alleggerito il cuore, tanto che non ho osato lamentarmi, nemmeno quanto un po’ di pioggia e i primi brividi di freddo hanno palesato la mia tenuta troppo estiva per il luogo in cui ho abitato, ma di cui avevo volutamente dimenticato la volubilità del meteo. Distolto lo sguardo dal cielo però si apre davanti ai miei occhi lo spettacolo dell’All England Lawn Tennis and Cricket Club, più comunemente noto con il nome del quartiere che lo ospita: Wimbledon. Il verde dei campi in erba, seppur giunti alla seconda settimana ed aver subito il grande caldo anche per l’uggiosa Albione, è scintillante e illumina i vialetti fioriti dei colori del club: è un trionfo di viola e verde, punteggiato di mattoni a vista. I passanti, o meglio, gli spettatori si dividono sostanzialmente in due: ci sono i fan, fan da tutto il mondo, che hanno passato la notte all’addiaccio per poter entrare nel tempio del tennis. The-crowd-at-Wimbledon-20-007Li riconosci per le facce stanche, ma gli occhi pieni di amore per il tennis e aspettative per quello che li aspetta. Poi ci sono i nobili. È una concezione di nobiltà molto demodé, fuori dal tempo e proprio per questo insitamente britannica e il tennis ne è parte fondamentale. Li si individua facilmente perché in giacca e camicia gli esponenti maschili, adornate da buffi cappelli le loro compagne o mogli. Camminano senza fretta, sono lì per vedere un paio di match al massimo, nella prima settimana hanno sdegnato i campi secondari ed anche ora la fine di ogni set è una buona scusa per un drink e quattro chiacchiere fuori dagli stadi, ne è riprova l’inizio del terzo set tra Coco Vandeweghe e Maria Sharapova, anticlimaticamente mezzo vuoto dopo un finale di secondo set sfavillante. D’altronde mancava poco alle 5.

Del golf si dice: “l’hanno inventato gli scozzesi, lo giocano gli inglesi e lo vincono gli americani.” Ecco, nel tennis non si cade molto lontano, se non altro nel senso che gli si dà nella parte riservata agli abitanti del sud della Gran Bretagna: il tennis qui è Wimbledon per i più, un passatempo e un rituale sociale per pochi, uno sport per pochissimi. Pensate che trovare un campo indoor a Londra è quasi un’impresa titanica, a meno che tu non vada in grossi centri, solitamente appoggiati dalla federazione. Non a caso i britannici di successo vengono tutti da realtà diverse da quella inglese: la Watson è delle isole ed è scappata in America da Bollettieri, mentre Murray è migrato dalla Scozia alla Spagna. Ma nelle due settimane di SW19, non c’è luogo dove non riecheggi il suono della pallina che impatta le corde e rimbomba tra le pareti del Centrale: i pub sono tutti sintonizzati sulla BBC, che in chiaro mostra praticamente tutte le partite, i giornali aprono con interviste e report dei match. È una magia che come ogni anno si spegnerà il martedì che segue la fine dei Championships, inghiottito dal vuoto rumoroso del calcio mercato e del gossip, ma fino ad allora è il paradiso.

La cultura del tennis è così una sorta di mosaico mal sortito, ma non per questo meno affascinante, un mosaico di retaggio classico, ma punteggiato di colori insoliti e che piccoli dettagli che se osservati da vicino non affascinano tanto quanto il complesso. L’esempio è semplice ed è giunto nel secondo set tra Victoria Azarenka e Serena Williams: sotto di un set l’americana non poteva permettersi più di sbagliare contro la ex numero uno del mondo, perché in palio per lei quest’anno c’è un assalto all’ultimo obiettivo che le rimane per completare la propria bacheca di campionessa. Una manciata di game ad inizio del secondo parziale sono stati di un livello di tennis che forse mai io ho visto prima tra due donne, perché ogni punto, ogni colpo, ogni palla erano potenzialmente un vincente, giocato a braccio sciolto, potente e penetrante, invece nessuna delle due mollava e lo scambio continuava in una perfezione tale che anche il vincente definitivo che portava il punto ad una delle due sembrava stonare tanto era suggestivo il loro scambiare. Le due però avevano anche ingaggiato una sfida di grunt, spinte a trovare quel tanto di spinta in più per piegare l’altra, tanto da sfiorare i limiti del grottesco forse, ma questo non giustifica le risa che più volte hanno riempito lo stadio mentre cotal spettacolo si palesava sul tappeto verde al centro di tutti gli sguardi. Ne ebbi imbarazzo allora e ancora ne ho al sol pensiero, perché nessuno riderebbe di Nadal e Djokovic durante uno scambio così tirato, seppur entrambi non si risparmino nello svuotare i polmoni nei momenti di difficoltà. In questo ha ragione Caroline Wozniacki, poi appoggiata dall’amica Serena, a Wimbledon esiste un sessismo di fondo che è parte proprio di questa cultura in un certo qual mondo maschilista, ma comunque elitaria del tennis in Regno Unito, esercitata senza malizia per fortuna, ma non per questo non assente.

PhotoGrid_1436272405067Questo non vuol però dire che le cose non cambino anche nell’apparente bolla temporale che copre SW19, perché un decennio addietro quanto fatto da Coco Vandeweghe avrebbe suscitato reazioni negative tra la folla del centrale, invece il suo gesto da gladiatore alla ricerca del supporto del pubblico ha infiammato lo stadio, innamoratosi del gioco potente e spregiudicato della bionda californiana, tanto che ad un tratto, avessi chiuso gli occhi, avrei pensato di essere sull’Arthur Ashe tanto era il brusio, tante erano le urla e i “c’mon Coco” che potevo sentir riversarsi sul rettangolo di gioco anche tra un punto e l’altro.

Non lo ammetteranno mai e anzi continueranno per nostra fortuna a combattere questo fenomeno, ma in certi aspetti anche loro si stanno americanizzando. Poi però sorseggi distratto la tua Pimm’s, affoghi la tristezza della sconfitta di una giocatrice per cui parteggiavi intingendo rotonde e dolci fragole nella panna ed improvvisamente quel luogo torna ad essere il perfetto tempio del tennis.

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