Mi chiamavano Pancho…


(Pancho Di Matteo con Roberta Vinci – Foto www.officinadeltennis.it)

Per la serie “Campioni da non dimenticare” Gianfilippo Maiga ha realizzato una lunga, interessante e soprattutto originale intervista a Ezio “Pancho” Di Matteo.

di Gianfilippo Maiga

Se si ripensa alla nostra generazione tennistica (maschile) più gloriosa e forte, viene in mente quella della Coppa Davis e dei 4 Moschettieri: Panatta, Bertolucci, Barazzutti e Zugarelli. Ma quella forte nidiata era formata anche da altri giocatori sicuramente di livello, che però un tennis molto meno mediatizzato e anche meno dotato di opportunità come quello di oggi ci ha impedito di apprezzare appieno. Giocatori ottimi, che hanno avuto la sfortuna di far parte di un gruppo di fenomeni agonistici, quale l’Italia non ha più avuto, al punto da venirne messi in ombra. Il paragone che mi viene in mente è, nel ciclismo, quello con Gianni Motta, che oggi verrebbe senz’altro molto più spesso ricordato per le sue imprese, se non fosse “incappato” in due tipi come Gimondi e Merckx. È probabilmente successo così, per esempio, a Ezio “Pancho” di Matteo, con il quale abbiamo rievocato quei tempi, certamente più scanzonati degli attuali.

Ti chiamavano Pancho per un sombrero, è storia nota (un regalo di Erminio Azzaro, marito di Sara Simeoni, di ritorno dalle Olimpiadi del Messico). Quanto c’era in te invece di Pancho Gonzales? Com’eri come giocatore?
In effetti il mio soprannome viene dal sombrero, ma anche dalla mia pelle scura che, lei sì, faceva ricordare Pancho Gonzales. Il vero Pancho era un fenomeno tennistico, ma anche un personaggio eccezionale. Ricordo di averlo visto giocare a Wimbledon in uno dei campi principali e di aver notato che aveva un fascio impressionante di racchette, che sostituiva ogni 2 o 3 games! Tornando al soprannome, era perfettamente coerente con l’atmosfera di quei tempi. Tutti a Formia ne avevano uno, e nessuno si offendeva, ma non sempre il soprannome era portabile con grande disinvoltura. Io, tra l’altro, ero uno dei primi ad “affibbiarne” uno ai miei compagni: Bertolucci era “Rotolone”, Zugarelli il “Ciociaro”, Pietrangeli “Papà” per la differenza di età, Panatta addirittura “Sofia” perché era bello. Con “Pancho” mi è andata piuttosto bene, trovo, e me lo tengo stretto. Come giocatore, mi diceva Belardinelli, il nostro mentore, ero come nella vita: divertente. Oltre al fatto che ero un agonista nato e che mi dovevano sparare prima di portarmi via un punto, credo di poter dire che avevo una certa varietà di colpi che spezzava la monotonia dei rovesci in back: sono stato tra i primi a giocare un po’ in top e sulla terra, la mia superficie preferita, davo fastidio a giocatori più potenti e completi, che facevano fatica ad attaccare una palla arrotata, una novità per allora. Non avevo il servizio di Adriano Panatta, ma sopperivo con grandi variazioni, per esempio lo slice, che mi aiutava anche su superfici di principio meno congegnali, come l’erba, dove infatti annovero buone vittorie come quella su Amritraj (e l’erba di allora era ben più veloce della terra erbosa di oggi). Potevo infine contare su un’ottima risposta al servizio.

Sei della generazione, più o meno, dei  4 Moschettieri: Panatta, Bertolucci, Barazzutti e Zugarelli e facevi parte del loro gruppo. Li hai battuti tutti, eppure il tuo best ranking è stato inferiore al loro (151). Come mai?
Mah! A me per la verità i conti non tornano. Quel best ranking deve essere sbagliato. Intanto va ricordato che spesso allora nei Grandi Slam potevano giocare i primi 3 di un Paese. Inoltre, io anche nei grandi tornei, quando li ho giocati, ho passato più di un turno più volte, in particolare a Roma e Parigi. Fra le mie “vittime” ci sono molti nomi illustri di allora: Marty Riessen, Manolo Orantes, Martin Mulligan, Brian Gottfried e poi, Pala, Kukal, Amritraj, Fillol, Cornejo, ecc. Insomma, non ero male. Anzi, se devo dirla tutta, sulla terra penso proprio che valevo un posto tra il 20 e il 30 del mondo . Probabilmente è vero che avere davanti due fenomeni (autentici) come Panatta e Barazzutti ha tolto qualche motivazione e più di uno spazio a me, Di Domenico e Franchitti, e allo stesso Zugarelli, per esempio. Vorrei ricordare un episodio che mi riguarda: l’anno prima della storica finale di Bologna del ‘70, in cui Panatta batté Pietrangeli, sancendo di  fatto un ricambio generazionale, a Verona in un’analoga finale avevo perso io contro lo stesso Pietrangeli in un match lottatissimo. Non ricordo esattamente il punteggio, ma credo fosse 9-7 7-5 7-5 o giù di lì. (avevo poi incontrato e battuto Pietrangeli in un torneo a Terracina).

Essendo nato nel ’48, sei della generazione di Adriano Panatta, ma hai giocato con Pietrangeli e Laver, conosci il tennis tradizionale, ma hai anche visto nascere il top spin. Puoi tracciare un confronto tra i due grandi giocatori italiani e fra quelle generazioni di fenomeni?
Nel nostro tennis si affacciava la modernità, solo gli albori di un processo evolutivo che oggi ha completamente trasformato il nostro sport. Se mi si chiede un confronto fra Panatta e Pietrangeli, non lo farei sulla qualità individuale dei due giocatori, ma sul contesto in cui hanno giocato. Nicola Pietrangeli è stato un grandissimo campione, e questo è un dato di fatto che non può essere messo in discussione, così come non può esserlo Adriano Panatta. Piuttosto, farei notare che Pietrangeli ha giocato in un tennis in cui c’erano 7/8 fuoriclasse, mentre la nostra generazione si è dovuta confrontare con 30/40 giocatori di livello assoluto. Laver, comunque, era davvero straordinario. Aveva una mobilità incredibile, specie considerando che allora non si aveva la cultura diffusa della preparazione fisica che c`è oggi, e tutti i colpi: non c’era variazione che non gli fosse conosciuta, nel suo bagaglio tecnico. Se non avesse dovuto rinunciare prematuramente al circuito allora “dilettantistico” per il suo passaggio al professionismo, avrebbe un numero complessivo di vittorie da far paura anche a chi adesso gioca tutte le settimane.

Hai più volte rievocato in passato un episodio che riguarda un incontro da te vinto con Tiriac agli Internazionali di Roma, prima del quale ti chiedeva di farlo vincere perché un po’ a corto di soldi. Altri tempi, si direbbe, rispetto al tennis di vertice attuale. Ci sono altri episodi che puoi ricordare che ci facciano capire com’era il tennis di allora?
È proprio vero che il cambiamento che il tennis ha conosciuto non è solo nelle metodiche di allenamento e di alimentazione, nei materiali, nella preparazione fisica, ecc ma anche, se non soprattutto, nei rapporti umani. Noi, oltre a o forse prima di competere irriducibilmente sul campo, eravamo soprattutto amici. La nostra vita era caratterizzata dalla condivisione, prima che dalla competizione. Anche il famoso episodio di Tiriac si inserisce in quel contesto, in cui ci si confrontava sul piano umano, prima che su quello sportivo. Mi piacerebbe rievocarlo, per ricostruirlo bene, perché spesso in passato è stato un po’ travisato. Bisogna dire che Tiriac, che simpaticamente ricordo come un grandissimo “rompiballe”, veniva da una tiratissima finale di Coppa Davis, persa dalla Romania contro gli Stati Uniti per 3 a 2, e in cui lui aveva perso il match decisivo contro Stan Smith. Poiché era molto stanco ed ero capitato contro di lui, aveva cercato di metterla su un piano diverso da quello agonistico. Mi aveva “agganciato”  e mi aveva detto: “Piccolo Pancho, vieni qua…. Sono in difficoltà. Non vedo un soldo da qualche mese”. Io gli avevo risposto che stava meglio di me, che di soldi non ne vedevo mai e gli avevo detto di andare in campo a combattere. È stata naturalmente una partita vera, con 10000 persone che facevano un tifo da stadio, naturalmente assolutamente scorretto. Sul match point per me, (6/4 al tie break del terzo), ha cercato una nuova gherminella, interrompendo l’incontro per venirmi a parlare e dirmi che c’èra uno spettatore che gli dava fastidio, a suo dire un vero “cornuto”. Per fortuna l’ho spuntata 7/5, se no saremmo ancora lì a giocare, credo! Oggi certi rapporti o certe situazioni sarebbero impensabili, contornati come si è da uno staff che ti dà professionalità, ma ti toglie amenità. Ricordo il torneo del Cairo, quando dividevo la stanza con Panatta. Improvvisamente il nostro sonno viene interrotto da un grande frastuono e Panatta, che era grande e grosso, manda come sempre avanti me, che ero piccolo e nero: “Pancho, va a vedere che succede”. Erano i fedeli del Cairo che pregavano e cantavano anche di notte, e noi eravamo totalmente impreparati, non avendo la minima idea delle abitudini locali. Sempre al Cairo, Adriano a cena faceva il grande e al ristorante davanti a tutti per fare bella figura diceva che erano tutti suoi ospiti: peccato che non ci lasciava neanche mettere il piede fuori della porta se non aveva “incassato” da noi. Il mio più caro amico, con cui ho ancora molti rapporti, era Corrado Barazzutti e non si offenderà se svelo anche un suo altarino. Non chiudeva mai la porta del bagno, dopo essersene servito. Questa cosa mi dava un fastidio tremendo, anche perché la puzza che aleggiava nella stanza “dopo” era insopportabile. Lo avevo minacciato più volte finche non gli dissi, una per tutte, che gli avrei tirato addosso il suo mangianastri, se lo avesse rifatto. Puntualmente Barazzutti non chiuse la porta e si vide tirare addosso l’apparecchio. Risultato: porta chiusa precipitosamente, ma mangianastri disintegrato.

Come giudichi il tennis di oggi, per confronto con il passato?
Inutile dire che oggi, nel complesso, si gioca meglio. Una volta c’era uno stacco enorme fra i primi 15 giocatori del mondo e quelli, per esempio, fino al 300. Oggi invece anche i secondi sono assolutamente competitivi ed è difficile mantenersi a galla.  

Lavori  al Tennis Garden, storico circolo romano. Segui qualche giovane interessante? Una volta allenavi la Risuleo, grande speranza (prima categoria a 15 anni) poi fermata da un infortunio. Ricordaci di lei.
Qui al Garden c`è Gioia Barbieri, che seguo insieme a Baldoni, che è stato ottimo  giocatore a sua volta mio allievo in passato. Vorrei ricordare anche Chiara Pappacena, che ha 17 anni e sta ritardando la sua carriera tennistica per completare gli studi. Alessia Risuleo era un grande talento: se non l’avesse fermata il tendine della spalla, avremmo un’altra ragazza oggi ai vertici. È infatti della generazione di Schiavone, Pennetta e Brianti, con cui peraltro se la giocava alla pari quando era giovane.

Sei rimasto in contatto con i grandi giocatori di allora, in Italia e all’estero?
Gli amici più cari li ho sempre in Italia, e Barazzutti e Franchitti sono senz’altro fra loro.  Con Panatta mi sento più sporadicamente, ma non ho perso i contatti in tutti questi anni. Il Challenger del Garden, un torneo importante perché piazzato strategicamente la settimana prima degli Internazionali di Roma, mi permette di incontrare molti campioni del passato e non solo della mia generazione, che portano qui i loro atleti, spesso giovani emergenti che si faranno senz’altro valere. Speriamo che questa tradizione continui, perché quest’anno, se mi chiedessero se il torneo si farà, posso rispondere di sì solo al 50%. D’altronde, a parte il problema delle sponsorizzazioni, devo fare tutto da solo, se voglio che questa manifestazione si svolga e non posso contare su aiuti dall’esterno.

Cosa pensi dei nostri giocatori di oggi? Vedi qualcuno nelle generazioni dalla fine degli anni 80 ad oggi che possa affermarsi definitivamente a livello maschile?
Intendiamoci, abbiamo dei buonissimi giocatori, perché con la competizione di oggi mantenersi ai livelli di Starace, Seppi e Fognini, o Volandri, tanto per fare dei nomi, significa avere un movimento in grado di esprimersi a un livello di eccellenza. Non abbiamo, è vero, il top ten. Se devo puntare su un giocatore già esperto, quello che per me gioca meglio a tennis e, malgrado molte traversie, ha a mio parere il margine maggiore è Simone Bolelli (con Pancho nella precedente foto). Io penso che abbia ancora tempo e modo per esprimersi secondo le sue potenzialità, che sono alte. Vorrei però spendere una parola per Flavio Cipolla, un fenomeno e un talento vero, se si considera come riesca a competere con delle “pezze” due volte lui persino sul veloce. Fra i giovani, mi ha colpito Giannessi, che ho visto giocare. Penso che lavorando come si sta facendo oggi su di lui possa crescere ancora notevolmente.

Clicca qui per leggere tutte le interviste di Gianfilippo Maiga nella rubrica “Campioni da non dimenticare”, tra le quali Raffaella Reggi, Laura Golarsa, Claudio Mezzadri, Pietro Ansaldo, Vincenzo Santopadre, Silvia Farina e tanti altri…

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