Wawrinka, waiting for Godot

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di Piero Emmolo

É un pomeriggio dei primi di dicembre. Il termometro al sole a Palermo sfiora i 24 gradi. I soliti temerari bagnanti, più per tronfio spirito d’esibizionismo che per altro, si recano sulla spiaggia di Mondello, consci d’esser immortalati dal giornalista di turno che li fregierà di frivola audacia. Ma l’aria non è per nulla calda. Anzi. Il wind chill di una leggera breccia marina provoca una piacevole sensazione di frescura. D’un tratto, un dejà-vu. Quei link tra fatti apparentemente privi di connessioni, ma che la mente crea per chissà quale recondito ed inconscio motivo. Siamo propensi a sentirci appagati con noi stessi (o un po’ delusi e razionalmente rassegnati, in caso contrario), se individuiamo il filo conduttore delle due esperienze sensoriali. Quel link aveva il nome di Wawrinka. E non so dirvi il perché.

Forse un match visto in veranda con quel venticello. Non so cos’altro. Da qui la rassegnazione di cui sopra. Cerco comunque di dare umilmente un senso a quello strano episodio. Post nubila Phœbus, facendo mente locale, metto a fuoco la mia attenzione sulla communis opinio che del ragazzo di Losanna la tribù del tennis aveva solo un anno fa di questi tempi. E non trovo ricettacolo terminologico più calzante da cui pescare una similitudine sportiva se non dal glossario ciclistico. Quella del tipico gregario. Vieppiù, di un team leader agonisticamente autosufficiente, ma al cospetto della cui grandezza, Stan è riuscito comunque a nobilitare il proprio status sportivo. Da quello di eterno secondo, a quello di delfino di un inarrivabile campione. Adesso, leggere “Wawrinka” nelle arzigogolate proiezioni su e giù per i main draw appena sorteggiati desta un’altra sensazione. Di timore, di rispetto, di induzione al considerare come plausibili estemporanei ed incontenibili exploit. Un’autorevolezza guadagnata e meritata sul campo. Quei gesti fluidi, liristici, melliflui, hanno fatto il resto. Un ATP 250, un master 1000, uno Slam e Coppa Davis. Perchè col senno di poi è facile ragionare, ma se Wawrinka non avesse messo in campo tutta quella personalità nel match di esordio contro Tsonga, porsi qualche lecito interrogativo sull’esito della tre giorni di Lille sarebbe inevitabile. Stan non ha la fama di sregolato e dissoluto viveur del circus. Tutt’altro.

La scelta di lasciare moglie e figlia di pochi mesi per trarre il massimo dagli ultimi anni di carriera, prima di un fisiologico declino, sembra col senno di poi avergli dato ragione. Sul piano dei valori in campo, prima ancora che dei risultati. Il 2014 di Wawrinka ha ingenerato la diffusa sensazione che egli riesca ad essere più di molti altri arbitro della qualità e del livello del suo tennistico game plan. Ha forgiato, inaugurandola, una nuova e speranzosa forma mentis nell’appassionato del tennis-moderno, sempre più naufragante in balia di robotici bimani e di indefesso e stakanovistico atletismo.

S’è più propensi, ma forse è una considerazione dalle sfumature troppo marcatamente personalistiche, a ritenere più plausibili colpi di scena o giornate di grazia che possano sovvertire ranking e pronostici dei bookmakers. Citando Dostojevskij, Wawrinka ne ha sportivamente mutuato l’adagiio per cui “la bellezza salverà il mondo”: il mondo del tennis, s’intende, alludendo ad un avveniristico e variegato scenario di campioni di titoli prestigiosi, da troppo tempo fregio quasi esclusivamente arrogato da una elitaria tetrarchia di famelici ma indiscutibili campioni. É sicuramente dal lato sinistro del suo tennis che Stan disegna gioco e trasmette emozioni.

Atterrisce il praticante agonista, anche di buon livello, che incautamente e illusoriamente si spinge ad emularne le gesta, con risultati spesso “sconfinanti” l’immaginifico rettangolo di gioco. Virtualmente ampliato a dismisura, quest’ultimo, da un tennis che nelle giornate di grazia sovverte le bernoulliane leggi cinetico-balistiche, la cui portata scientifica viene messa (quasi con una patina di bonaria e compiaciuta invidia) in discussione da chi, umilmente attonito, osserva in poltrona.

Chi ne scrive sente quasi d’obbligo elevare il proprio registro linguistico per descriverne la concupiscente armonia e bellezza. Cerca di trascendere dalla banalità, elabora encomi creativi ed originali, cerca illusoriamente di atteggiarsi ad ellenico rapsodo della Sphairistikè, risultando parimenti insipiente dinanzi a un tale connubio di qualità e potenza. Per certi versi, la consacrazione di Wawrinka rievoca quella della Halep.

Più in generale, è l’ennesima prova dell’importanza della consapevolezza delle proprie armi nel tennis. Tuttavia, lo scoprirsi giocatore di altissimo livello è stato tutto merito di Stan. Se già nel 2013 le avvisaglie di questo nuovo viatico si erano intraviste, solo perseveranza e ostinazione hanno consentito alla Befana dell’anno che va in archivio di ramazzare con la sua allegorica scopa quella coltre di caligine offuscante il potenziale del buttorato svizzero. Qualità che hanno permesso di andare oltre quell’etichettamento poco felice (o effetto “labelling”,  da “label”, “etichetta”, per l’appunto, come si suol dire in criminologia) impressogli da media e tifosi.

Questi ultimi, in particolare. Molti dei quali smentiti coi fatti. Restii, dopo lo Slam downunder, ad accettare il verdetto di una finale che presumibilmente avrebbe conosciuto un esito indifferente anche se non fosse occorso l’infortunio al campione spagnolo. Perchè, si sa, l’appassionato-medio di tennis è sociologicamente risoluto all’infinito nelle proprie asserzioni. Difficilmente le muta. Raramente ammette ch’altri le abbiano socraticamente confutate con brillante successo. Quasi mai riconosce la bontà delle tesi altrui solo per l’ostinata cocciutaggine di perorare illogicamente ad oltranza le proprie.

Infinite ed aride dispute sui social, spesso contenutisticamente imbarazzanti e povere di conoscenze. E vuol essere una considerazione schietta e genuina, di carattere generale, sulla scia di quanto il direttore Nizegorodcew ha avuto modo di dire qualche settimana fa sulla ridondante disputa Nadal/Federer. Forse approcciare nelle discussioni solo se si è conoscitori dell’argomento è chiedere troppo. Ma, almeno, provare ad immedesimarsi nelle prospettive argomentative dell’interlocutore in luogo di un’aprioristica chiusura, potrebbe essere buona cosa. Per il civico buon senso e, specie, per la cultura sportiva in generale. In ogni caso, l’anno che verrà avrà molto da dirci. Svelerà uno Stan trimalcionico parvenu della racchetta? O un’ombra platonica del Mito della caverna, il cui soggetto al di qua del metaforico muro tradisce origini del Baden-Württemberg tedesco? Solo chi vivrà vedrà. Mi piacerebbe chiosare queste brevi righe con un aforisma di Samuel Beckett. Ulteriore e ben più noto, rispetto a quello ormai pedantemente rinomato perché tatuato sul braccio dello svizzero. “What do we do now, now that we are happy? Waiting for Godot”. Ad esser contenti del tuo tennis spumeggiante siamo noi, Stan. Ma quel Godot che, speranzosi, attendiamo riconfermarsi sei tu, Stan!

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