Francesco Elia, una vita nel tennis..


(Francesco Elia con Martina Caregaro)
di Gianfilippo Maiga
Dopo le voci di tanti ex-campioni, ci è sembrato giusto ascoltare anche quella di un coach internazionale, che da tempo ha abbandonato la strada dell’allenatore itinerante per consacrarsi ad assistere i giovani nella delicata fase del passaggio da junior a professionista. Francesco Elia è un personaggio emblematico: curioso di apprendere, come proprio un allenatore completo deve essere, attento agli aspetti psicologici del suo mestiere, ma estremamente razionale nel costruire la sua competenza. Francesco, che ha molte cose da dire, è un percorso di senso compiuto, in cui tutti i passi effettuati e le scelte sembrano ubbidire ad una logica stringente.
Qual è la storia professionale di Francesco Elia? Come sei arrivato ad essere un coach internazionale e perché hai lasciato questa esperienza?
“Dopo un tirocinio come allievo-maestro a Riano, ho lavorato per la Fit come docente per i maestri di tennis, (all’EUR e al Foro Italico e, d’estate, a Sestola) ed è stata per me un’esperienza molto importante, perché in fondo mi ha preparato al mestiere di coach. Era però un’attività un po’ “statica” e sentivo che non mi bastava. Una incomprensione con i miei datori di lavoro, che non ho lasciato “cuocere” per anni, ma ho voluto affrontare subito, mi ha dato l’occasione per un distacco e per andare oltre. In quel momento nasce il mio rapporto con il tennis Le Palme, che non è in fondo mai cessato. In quel periodo gli Internazionali di Roma erano l’ultimo torneo prima del Roland Garros: Roma era un crocevia di tennisti e tenniste, che si fermavano anche una settimana prima di partire per Parigi. Venivo spesso interpellato per fornire assistenza a tenniste (per lo più argentine); è così che è cominciata. Seguivo in particolare Gorrochategui, una talentosa che ha avuto la stessa sfortuna di Gimondi con Merckx, ossia di giocare contemporaneamente a Gabriela Sabatini. Ho seguito Irina Spirlea, che oggi vive ancora in Italia. Irina è stata capace di issarsi alla semifinale degli US Open nel 1997 perdendo 76 al terzo contro Venus Williams e battendo (non solo quella volta) una certa Seles. Erano quelli altri tempi rispetto agli odierni: i campioni si permettevano atteggiamenti arroganti, prima che l’ATP e in particolare la WTA molto si adoperassero per avvicinarli in tutti i sensi alla gente, ( i risultati si vedono oggi con Nadal e Federer). Stando vicino a queste atlete mi ero reso conto di quanto la mia preparazione fosse incompleta e di quanto avessi da imparare. La mia presa di coscienza era stata anche facilitata dalla cooperazione con diversi centri diretti da Magnelli (Latina, 3 Fontane…) dove gravitavano le migliori giocatrici italiane o che vivevano in Italia: da professioniste affermate quali la Testud e la Lubiani al gruppo di giovani emergenti che oggi ben conosciamo: Vinci, Pennetta, Pioppo (purtroppo fermata da un infortunio), Camerin, Garbin, ecc . Fra le tenniste che ho incontrato c’era anche Silvia (Farina), allora seguito dall’ottimo coach argentino Lerda, a sua volta infortunata. Abbiamo cominciato a collaborare e dopo un anno la relazione professionale è diventata stabile, (poi, come tutti sanno, … definitiva): sono diventato a pieno titolo un coach itinerante. Dopo il ritiro di Silvia ho iniziato per un po’ a lavorare con Panajotti (seguivo Gagliardi e Camerin), ma a un certo punto ho detto basta con la vita dei viaggi e degli alberghi. A parte un inevitabile (ma parziale, tutto sommato) calo motivazionale, e le maggiori esigenze di stabilità che ha un uomo sposato, ho voluto colmare una lacuna nella mia esperienza di vita: avevo sempre seguito professioniste affermate, ma non conoscevo i problemi e le necessità di chi, junior, questo passo non lo aveva compiuto. Ho deciso di occuparmi di giocatori o giocatrici che volevano indirizzarsi al professionismo, comprendendone appieno le esigenze.”
Segui più di un professionista. Chi si appoggia al tuo centro? Quali caratteristiche ha la tua struttura e cosa offre ai tennisti professionisti?
“I giocatori professionisti a tempo pieno che seguiamo sono 4: due ragazze (Martina Caregaro, 455 WTA e Martina Di Giuseppe, attualmente 921 WTA ma 381 l’anno scorso) e due ragazzi, (Massimo Capone, 646 ATP e Marco Viola, 578 ATP). A loro si aggiungono Torroni e Aloisi, quest’ultimo di fatto all’inizio della carriera, dopo buoni trascorsi da junior. Martina di Giuseppe è afflitta da seri problemi fisici, (l’ultimo dei quali al tendine rotuleo) che ne condizionano seriamente l’attività. La sua discesa nel ranking si spiega proprio con la lunga assenza dai campi di gioco. Martina Caregaro li ha avuti e ora deve ricuperare, oltre alla piena efficienza, anche la completa fiducia nei suoi mezzi. Il rapporto con le ragazze è strutturato diversamente rispetto a quello con i ragazzi: le prime, sostenute economicamente dalla Federazione, hanno un budget più alto e possono contare su un accompagnamento ai tornei che copre circa metà della loro attività, mentre i giocatori si autogestiscono a questo livello. Il nostro è un piccolo centro, anche se possiamo disporre di fino a 6 campi. Abbiamo quindi qualche limite: per la superficie veloce ci rechiamo a Casalpalocco e non possiamo offrire una foresteria: questo non ci impedisce però di puntare alla massima qualità, dentro il campo e fuori, mettendo a disposizione degli atleti anche un preparatore atletico e un osteopata. Un altro elemento importante che metto a disposizione degli atleti è un sostegno professionale per quanto riguarda la preparazione a livello mentale: ho molto studiato questo aspetto negli anni in cui allenavo Silvia e lo ritengo delicato ed essenziale. Delicato, perché deve crearsi un’empatia profonda, ma senza cadere in una dipendenza, (il pericolo esiste), tra psicologo e giocatore e perché occorre che le parole dello psicologo siano in sintonia nel “cosa”, ma soprattutto nel “come”, con quelle degli altri attori che ruotano intorno allo sportivo: allenatore e famiglie. In conclusione, mi sento di poter asserire che nel complesso la struttura sia funzionale ai bisogni e agli obiettivi di chi la frequenta.”
Alcuni dei professionisti da te seguiti sono quindi in una situazione abbastanza tipica: giocatori anche di buon potenziale, ma che non hanno (o non hanno avuto quando era il momento) sostegno dalla propria Federazione, non hanno i mezzi finanziari per pagarsi un coach che viaggi con loro e, insomma, devono fare i conti con precisi limiti di budget. Quali sono le soluzioni e quali le condizioni per riuscire per ragazzi e ragazze in queste condizioni?
“Pato Alvarez diceva, con una frase che è una battuta, ma che in ultima analisi trovo molto aderente alla realtà, che per riuscire occorrono talento, un buon allenatore e soldi da investire per pagarlo. Posto che riuscire significa raggiungere la necessaria autonomia finanziaria con questo mestiere, ossia, in termini di classifica ATP, una posizione stabile nei primi 150 giocatori, la battuta dice tutto: senza adeguati mezzi finanziari il percorso si fa molto accidentato. Si pensi solo alle energie che devono essere in questi casi spesso dilapidate – se non alle opportunità che per pratica impossibilità “logistica” si perdono non disputando tornei internazionali – nei campionati a squadre, l’unico modo per incassare qualche soldo e coprire le spese di viaggio per poi giocare i Futures. Ci sono giocatori che partecipano a più di un campionato, e in posti diversi, magari addirittura lontani, nel weekend, e poi partono per altre destinazioni dove giocheranno un torneo: è difficile che abbiano a quel punto intatte le energie psicofisiche che un impegno come questo richiede. Naturalmente, chi ha problemi di budget, (mai inferiori a 30/40,000 € l’anno) deve rinunciare all’accompagnamento di un allenatore. Non sono sfavorevole a che un giocatore impari a organizzarsi viaggiando da solo e a trovare da sé la forza di concentrarsi e vincere, ma è certo che la presenza di un coach, con la sua esperienza di vita e nel “leggere” le difficoltà ambientali, la sua capacità di trasmettere di volta in volta tranquillità o voglia di reazione, per non parlare della possibilità di preparare al meglio un incontro prima di disputarlo e di analizzarlo successivamente, è un fattore grandemente facilitante. Consigli particolari è quindi difficile darne: se non ha la fortuna di imbattersi in un giovane allenatore che vuole davvero imparare il mestiere di coach, crede nell’elemento che allena sin da quando è junior e, per poter fare la necessaria esperienza, è in fondo disposto a rimetterci del suo, (è emblematico l’esempio di Sartori con Seppi o di Puci con Golubev), chi deve fare i conti con limiti finanziari importanti deve avere la saggezza di scegliere quanto meno le persone giuste, che gli diano almeno in allenamento e nella programmazione dei propri sforzi tutta l’assistenza che occorre.”
Parliamo della realtà italiana. Qual è l’evoluzione del tennis professionistico in Italia? Ritieni che l’Italia offra soluzioni inferiori a quelle di altre realtà o presenti comunque difficoltà ambientali particolari? Perché molti tecnici di provata esperienza come te o anche ex- giocatori che hanno svolto attività internazionale ad alto livello spesso non scelgono l’attività di coach di giocatori professionisti? Pensi che la Federazione dovrebbe sfruttare di più l’esperienza di allenatori come te o non ritieni che questo sia oggi un problema?
“Il presupposto necessario per avere un movimento di successo è disporre di una allargata e – se possibile – crescente base di tennisti praticanti, giovano o meno giovani. Sì, anche di adulti, perché questi sono i genitori che instraderanno i propri figli al tennis. Un movimento che cresce è il presupposto per avere un numero elevato di campioni stabilmente tra i primi 100 giocatori o tra le prime 100 giocatrici del mondo, e un pronto ricambio quando questi invecchiano. Attenzione: il successo di un movimento si può misurare anche da questo e non, come mi capita spesso di sentire, dal numero di giocatori top ten o dall’avere il numero uno al mondo. Mettiamocelo bene in testa:se fuoriclasse si può forse definire solo chi raggiunge i top ten, ANCHE CHI È NEI PRIMI 100 PUÒ BEN ESSERE DEFINITO UN CAMPIONE , data la durissima concorrenza che deve vincere per arrivarci . Una doverosa osservazione è che la Federazione sta operando da tempo nella direzione di una maggiore diffusione del tennis e di riflesso di un allargamento della base di tennisti praticanti. Basti pensare alla creazione di un canale come Supertennis o, più semplicemente, al fatto che l’Italia per numero di tornei professionistici, (Futures e Challengers, ma non solo) è uno dei primi – se non il primo –Paesi al mondo: grazie a queste iniziative può vedere tennis ad alto livello anche chi vive in regioni che normalmente non offrivano molte opportunità in proposito. Naturalmente, questo è un lavoro che richiede anni per giungere a compimento e comunque non è sufficiente la sola visibilità per far crescere il tennis. Occorre a mio parere creare anche una vera e propria cultura omogenea all’interno del nostro movimento, tra gli allenatori, innanzitutto, e poi a cascata tra i giocatori e le loro famiglie e, se mi posso permettere, tra gli addetti ai lavori della carta stampata e dello schermo. In Italia siamo passati da un estremo all’altro: dai tempi in cui si giocava solo o come Panatta o come Barazzutti, o a quelli in cui il modello da imitare era Borg, alla totale libertà di impostazione. Oggi siamo forse massimamente acculturati in alte questioni teoriche, sappiamo tutto di biomeccanica, per fare un esempio un po’ estremo, ma ci manca un verbo comune quanto all’impostazione da dare ai giovani tennisti. Non intendo dire che dovremmo essere tutti omologati, ma che ci sia un modo di sentire comune e condiviso su aspetti che vanno dalla tecnica individuale alla filosofia di gioco, al comportamento dentro e fuori dal campo: per quanto riguarda in particolare il comportamento in campo, vorrei sottolineare che, mentre i nostri giocatori a livello professionistico alto hanno quasi tutti atteggiamenti consoni, in palcoscenici di minore eco ( e purtroppo soprattutto in ambito giovanile) è facile constatare come la nostra cultura diffusa differisca grandemente da quella dei giocatori di altri Paesi. I nostri ragazzi adottano sovente atteggiamenti teatrali, indulgono a lamentazioni contro la ria sorte, le condizioni avverse, la fortuna dell’avversario, ecc. e lo fanno perché così vedono fare da chi li segue a casa. In conclusione, il 70/80% della formazione iniziale deve avere la medesima impronta per tutti, poi, in una seconda fase, quando un giovanissimo ha avuto l’impronta fondamentale, si dovranno assecondare le sue specificità e questo non potrà che dipendere dalla sensibilità del suo allenatore nel comprenderle e valorizzarle. Delle tante cose che si possono dire sul tema dello sviluppo di una cultura tennistica adeguata nel nostro Paese, vorrei scegliere un aspetto: ci sono tanti campioni che hanno smesso e non sono mai o quasi mai stati utilizzati dalla nostra Federazione. Io credo che per esempio chi desiderasse intraprendere la carriera di allenatore, in particolare chi volesse seguire giovani agonisti o addirittura professionisti, trarrebbe un grandissimo beneficio dalla possibilità di dialogare con e/o essere formato da qualcuno che ha già vissuto certe esperienze e abbia voglia di trasmetterle. Penso a quale tesoro di informazioni possa essere uno dei nostri attuali professionisti di livello il giorno che smetterà. Una raccomandazione che vorrei fare alla Federazione è quindi quella di utilizzare i giocatori che cessano la loro attività, così come peraltro si fa altrove (Francia), per metterli a disposizione,nei modo più diversi, del movimento tennistico nazionale.”
Fra i modelli offerti da altre Federazioni, senza effettuare paragoni polemici con la federazione italiana, ce n`è uno che ti ha colpito maggiormente e perché?
“Non ho una conoscenza così approfondita di altre federazioni per poter dare delle indicazioni precise. Ci sono però alcuni aspetti relativi alla Federazione Spagnola e alla Federazione Francese, due Federazioni considerate di successo, (non foss’altro che per il numero di giocatori che piazzano stabilmente fra i primi 100), che mi sembrano degni di interesse, perché secondo me sono una delle ragioni del loro buon funzionamento. Una premessa doverosa è che sono largamente avvantaggiate, rispetto ad altre, le Federazioni dei Paesi che organizzano un Torneo del Grande Slam, per gli elevati introiti che questo assicura. La Federazione Inglese, prima di ogni altra, beneficia enormemente dall’avere Wimbledon, ma anche la Federazione Francese sta ovviamente molto bene grazie al Roland Garros. Queste risorse vengono destinate in vario modo al tennis: i grandi campioni francesi, per esempio, sono spesso utilizzati per portare la loro competenza o anche solo la propria immagine al movimento tennistico nazionale. Vengono così distribuiti loro i più diversi incarichi assecondando anche, quando possibile, le loro inclinazioni, (lavorare con i giovani, con i professionisti, organizzare manifestazioni ecc). Pioline, per fare un nome, è Direttore del torneo di Parigi Bercy e spesso lo si vede utilizzato per propagandare il tennis. I soldi inoltre non vengono dati – fondamentalmente – ai circoli: per averne un’idea basta frequentare qualche Future francese in inverno e osservare che le strutture dove ci si allena e poi si giocano i match spesso non sono riscaldate, per ragioni di budget! Il caso della Spagna, dove i mezzi sono minori, è diverso. Qui lo sforzo è quello di diffondere una cultura omogenea, anche attraverso un costante scambio di informazioni tra allenatori. È frequentissimo il caso che numerosi ex- giocatori di livello più o meno alto (gli Albert Costa, i Galo Blanco, i Berasategui, per intenderci) girino, soprattutto all’inizio della loro carriera post-agonistica i tornei per seguire giocatori giovani di prospettiva, e lo facciano insieme ad altri allenatori più esperti, o che addirittura assistano ai match di altri giocatori, in un continuo sforzo di “cross fertilization” con i coach di questi ultimi. Che questo obiettivo sia stato raggiunto è visibile dal modo molto “omologato” in cui giocano oggi i giocatori spagnoli, in cui un’impronta omogenea è chiaramente visibile sia nella filosofia di gioco, sia nella tattica, all’insegna di una grande semplificazione del gioco stesso. In Spagna invece l’iniziativa privata a prevalere, con la costituzione di molte Accademie, che – a differenza di quanto avviene spesso anche da noi – fanno riferimento ad una pluralità di soggetti di livello che gravitano intorno alle stesse e vi apportano la propria esperienza: certo, ora che le Accademie spagnole hanno un “brand”, costano.”

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