Esclusiva: Intervista a Mosè Navarra


di Gianfilippo Maiga
Con Corrado Borroni è iniziata una piccola collana di interviste di campioni italiani di un passato abbastanza recente. Lo sforzo è quello di dare oggi, a bocce ferme, nuova luce alla loro storia, a volte non così conosciuta perché il talento di cui erano dotati non è completamente sbocciato, oppure perché di loro sia aveva solo l’immagine sportiva, sul campo. Nel percorso che rivisita la storia di alcuni protagonisti recenti del tennis italiano, Mosè Navarra è un capitolo d’obbligo e a suo modo, un caso classico. Grande talento e occasione sfiorata. Singole imprese di rilievo realizzate, ma storia incompiuta. Una vicenda di numerose prodezze, anche se forse non mediaticamente rilevanti e di qualche errore e una fine di carriera prematura. Mosè è consapevole di questo e determinato a portare la sua esperienza ai giovani che vogliono fare tennis di alto livello, perché ne facciano tesoro.
Hai raggiunto il best ranking di 119 al mondo a 25 anni. In pratica nell’anticamera del tennis che conta a un’età non troppo tarda. Ritieni di aver fatto il massimo che potevi o hai sotto questo aspetto qualche rimpianto?
Sono una persona che guarda avanti e non si sofferma sul passato per rimpiangerlo. Fatta questa premessa, se analizzo razionalmente la mia carriera, non posso che essere consapevole che avrei potuto fare di più e meglio. Ci sono molte ragioni che mi hanno fortemente condizionato e fra queste alcune private, ma a me rimprovero di essermi a un certo punto accontentato di quanto avevo fatto,e al contempo di non aver avuto pazienza con me stesso, preferendo dire basta che adattarmi alla mediocrità e cercare di tirarmene fuori. Lo dico anche constatando che oggi, a 37 anni, mi ritrovo ancora competitivo con professionisti certamente meno stagionati di me e che difficilmente perdo una partita in serie A anche contro i B1.
Quali erano le tue caratteristiche come tennista, al di là del fatto di essere mancino?
Ero un giocatore eclettico, a tutto campo, ed estremamente istintivo. Poiché ero molto fantasioso, risultavo anche imprevedibile. A mio vantaggio posso anche dire che essere istintivo non significava essere cieco, anzi, proprio il mio istinto mi faceva percepire immediatamente il momento di una partita, quando essere aggressivo e quando variare il mio gioco, per esempio.
La tua carriera internazionale è cessata in pratica nel 2002, a soli 28 anni. Come mai una interruzione così prematura?
Ho sempre attribuito, a torto o a ragione, una grande importanza alla mia vita privata, senza fare troppi calcoli. Nel mio momento di massima condizione, invece di ponderarne bene le conseguenze, ho pensato bene di sposarmi con una ragazza indiana e di trasferirmi a vivere in India. Anche se questo non è l’unico fattore che ha pesato sul mio futuro tennistico, certamente è quello che lo ha più pesantemente condizionato. Mia moglie, come spesso capita a chi non è del mondo del tennis, non ne capiva le esigenze e desiderava che non viaggiassi molto. Il risultato era che non solo il mio impegno professionale negli allenamenti era un po’ scemato, ma soprattutto che andavo a giocare i tornei senza la mente sgombra, senza un’adeguata concentrazione e quasi più per sfuggire alla mia situazione che con il vero obiettivo di vincere. Se si aggiungono alcuni malaugurati quanto intempestivi infortuni, (compresa una pesantissima fascite plantare), si capisce come io mi sia trovato a navigare in acque (classifica atp intorno al 300) alle quali non ero abituato: non so se dimostrando coraggio o troppa impulsività, un giorno ho detto basta. Avrei certamente potuto gestire meglio la mia vita privata. Avrei forse potuto fare altre scelte che allora mi sembravano ideologicamente inaccettabili, (per esempio una carriera da doppista, in attesa di ricuperare una migliore efficienza fisica e una maggiore serenità d’animo), ma essere giovani comporta a volte avere atteggiamenti un po’ “radicali” e io ero fatto così.
Tutti ricordano il tuo match del 1996 a Wimbledon contro Albert Costa e la vittoria contro Jarko Nieminen in coppa Davis nel 2001. In realtà i tuoi “scalpi” di prestigio sono molto più numerosi e comprendono tra gli altri Ivo Karlovic, Albert Montanes e James Blake. Come mai allora la scelta di giocare prevalentemente Challengers, fatta eccezione in pratica per le quali dei tornei del Grande Slam?
In questa scelta c`è la contraddizione che mi sono portato sempre dietro, il dilemma fra il desiderio di guardare in alto secondo le mie vere possibilità e l’accettazione di qualche compromesso più comodo, vivacchiando, con il risultato finale di lasciar cadere tutto troppo presto di fronte alle prime difficoltà, con una fretta che oggi ritengo sbagliata. Un paradosso che ben rappresenta questa contraddizione è che, fatto abbastanza inusuale nel mondo del tennis che è fatto un po’ a “caste”, godevo della stima di grandi giocatori, di classifica ben superiore alla mia, ma che mi conoscevano o avevo addirittura avuto occasione di battere: per tutti Henman, di cui sono ancora ospite quando vado a Londra.
Oltre a alcune grandi vittorie, si ricorda anche una grande sconfitta: la partita giocata splendidamente, ma persa contro Mantilla a Roma? Ha avuto peso nella tua carriera quella sconfitta?
Francamente no. Le sconfitte di prestigio non mi hanno mai influenzato, né in bene né in male.
Quali ricordi hai di quel periodo, dell’ambiente e dei personaggi che hai avuto modo di incontrare?
Una premessa necessaria è che il circuito è un ambiente che dimentica in fretta. Finché ci sei puoi avere rapporti di vera amicizia, e a me è capitato, ma una volta che ne sei fuori quel mondo sparisce, inclusi i personaggi che come te hanno smesso per seguire altre strade. Capita che ci si incontri e, naturalmente, ci si saluti con grande cordialità, ma, come dire, ognuno sembra seguire un suo viaggio. I ricordi per me sono fantastici. Posso considerare come miei amici del passato personaggi straordinari: oltre a Henman, Corretja e, della generazione un po’ più giovane, Federer, (grazie anche alla mia amicizia per Lundgren, allora suo allenatore) e Safin. Con Safin, al di là del tennis, ho spartito molte serate… Tutti dicono che Safin, senza quelle serate, avrebbe avuto una carriera ancora più grande e certamente più lunga. Io dico che si sbagliano. Chiudere Safin in una stanza avrebbe significato violentare la sua natura libera. Arrivo a dire che Safin ha vinto quello che ha vinto grazie a quelle serate! Di Federer, personaggio completamente diverso, e di cui sono spesso stato volentieri sparring in allenamento, mi hanno sempre colpito la signorilità e la disponibilità. Un piccolo episodio: allenamento a Roma; su un campo Safin, sull’altro Federer, fuori un sacco di gente a caccia di autografi. Alla fine dell’allenamento Safin se ne va, Federer resta 20 minuti a firmare autografi. Gli chiedo come mai si è reso disponibile per così tanto tempo e mi risponde: “se sono quello che sono è solo grazie a loro”.

C’era un giocatore, al di fuori dell’ambiente italiano, di cui ti consideravi la “bestia nera”?
Effettivamente c`è, anche se è conosciuto solo dagli aficionados frequentatori dei tornei Challenger. È Jamie Delgado, con cui mi sono confrontato per ben 18 volte e che con me l’ha spuntata solo 2, (tra l’altro una è stata la prima volta che ci siamo incontrati). Sembrava che il destino ci calamitasse contro quasi ogni volta che giocavamo lo stesso torneo: per fortuna era lui a soffrire me e non il contrario.
Dopo la carriera, sei diventato subito allenatore? Che esperienze di vita o di tennis hai fatto prima di Cordenons? Perché hai fatto questa scelta?
Appena ho smesso, mi sono dedicato all’allenamento. Dato che vivevo in India, mi è capitata subito l’opportunità di seguire Bhupati, che in coppia con Mirnyi ha formato una delle coppie di doppio più forti al mondo, e Mirnyi stesso. L’esperienza è durata due anni, con grandi risultati, vista la finale raggiunta dai due a Wimbledon 2004. In quello stesso anno ho anche seguito come capitano l’India alle Olimpiadi 2004, quando Bhupati e Paes hanno raggiunto le semifinali battendo coppie molto forti e buttando via letteralmente l’occasione di salire sul podio. Poi mi sono trasferito, sempre con Bhupati, a Sanremo presso l’Accademia di Bob Brett, fino a che, approfittando anche del fatto che a sua volta Maes stava pensando di tornare in India, ho raccolto l’invito del Presidente di Cordenons ed eccomi approdato qui. A Cordenons ho quello che cercavo: una struttura adeguata, la possibilità di lavorare con i giovani e un po’ di competizione ad alto livello, con l’organizzazione di un bel Challenger
Ti sei dedicato ai giovani non ancora professionisti. Perché non hai optato per seguire giovani che invece iniziano la carriera professionale come coach?
È un problema organizzativo, economico (tuo o dei tennisti) o di materiale umano disponibile? Quali sono le alternative per un giovane professionista che intraprende il percorso e non può pagarsi il coach privato? Innanzitutto trovare giovani che vogliano iniziare la carriera professionale non è facile, per molti motivi: da motivazioni reali a superare le difficoltà che la carriera propone a disporre di un livello di base adeguato a cimentarsi in quel terreno. Conosco molti casi di giovani che hanno velleitariamente iniziato senza avere le armi adatte, per interrompere l’esperienza dopo poco tempo. È poi certamente vero che i costi sono proibitivi e che quindi, idealmente, se non si trova l’allenatore che crede in un ragazzo e lo “tira su”, rimettendoci del suo, occorrerebbe creare una coppia o un piccolo gruppo di neo professionisti che possano dividere le spese: anche qui, però, è fondamentale che il gruppo sia omogeneo quanto a motivazioni, livello di gioco, preferenza per una data superficie, ecc. Ci sono andato molto vicino con Riccardo Bonadio e Marin Suica, un giovane croato di grande talento e di ancor più grandi doti umane, purtroppo scomparso in un tragico incidente nel corso del 2010. Vorrei però sottolineare che anche con i ragazzi da formare c`è moltissimo da fare. In primis, per quanto mi riguarda, voglio evitare che commettano i miei stessi errori. Credo che dotarli della giusta mentalità sia il passo più importante per un allenatore tennistico che si occupa di giovani, specie in Italia, dove i modelli di comportamento offerti non sono quasi mai quelli giusti. Occorre che i giovani siano ambiziosi, ma non velleitari. Da un lato che non abbiano una fretta ingiustificata di arrivare, (i diciottenni al vertice sono sempre meno: ci sarà un motivo), dall’altro che non si accontentino di vivacchiare, quando hanno altre possibilità. Occorre infine che i giovani si prendano le proprie responsabilità, comprendendo i propri limiti e accettandoli o i propri errori e correggendoli, se del caso, e non rifugiandosi in scuse e alibi fasulli.

Oggi hai 36 anni, in pratica potresti essere un giocatore in attività o che ha appena smesso. Cosa è cambiato nel mondo del tennis in questi anni?
Tutto, e continua. L’evoluzione è di anno in anno e va nella direzione di una sempre maggiore fisicità e velocità. In realtà non cambia solo il tennis giocato, ma anche la programmazione che gli sta dietro e i materiali, dai campi alle corde, che oggi fanno la differenza, tanto vasta è l’offerta, rispetto al budello buono per tutti di mezzo secolo fa.

Leggi anche:

    None Found