Jack Sock, il working class hero

Sock batte Dimitrov RG 2015
di Alessandro Mastroluca

From the town of Lincoln, Nebraska. Il futuro del tennis Usa arriva da qui, dalla città un tempo nota per il James Dean dei serial killer, Charles Starkweather, che ha ucciso undici persone insieme a Caril Fugate in poche settimane. La sua storia ha ispirato Natural Born Killer di Oliver Stone, Badlands di Terrence Malick, True Romance (scritto da Quentin Tarantino) e la murder ballad di Bruce Springsteen, che ne ha fatto la title track di uno degli album centrali della sua carriera.

Ora c’è un altro giovane dai capelli biondi e dalla faccia pulita che finalmente cambia la reputazione di Lincoln. Lo chiamano giant-killer, ma non uccide nessuno. Al massimo, è un natural born winner, Jack Sock, che ha inflitto a Grigor Dimitrov la seconda eliminazione consecutiva al primo turno al Roland Garros.

Ha vinto in tre set, 76 62 63, ha spaccato la partita con un devastante parziale di 25 punti a 6 a cavallo fra primo e secondo set e ha chiuso con lo schema che meglio di tutti racconta il suo tennis: gran prima e drittone inside-out da sinistra. È un tennis di sostanza, semplice e concreto, da solida provincia americana. È apparsa così ancora più evidente l’inconsistenza del bulgaro, che nell’ultimo confronto diretto a Stoccolma si era lanciato in due risposte di fila da sotto le gambe diventate già un classico. La sua estetica oggi decadente si è spenta contro l’americano che ama la terra rossa, non a caso proprio nell’unico atipico torneo Usa sul rosso, a Houston, è diventato uno degli otto giocatori nati nel 1990 con almeno un titolo ATP all’attivo.

Un ragazzo che non ha tremato di fronte alla prospettiva di eliminare la testa di serie numero 10 al suo Slam numero 10, e firmare la prima vittoria contro un top-20 in un major. Perché ha dovuto imparare a mettere il tennis nella giusta prospettiva.

Nothing is better than blood on blood, recita un altro verso a suo modo storico di Bruce Springsteen. È il refrain di Highway Patrolman, che fa parte sempre dell’album Nebraska, e racconta la storia del poliziotto Joe che aiuta il fratello Franky a scappare oltre il confine canadese dopo una rissa di cui era stato accusato. Perché a volte, dice Joe, quando si tratta di tuo fratello guardi dall’altra parte.

Ecco, anche Jack Sock avrebbe voluto guardare dall’altra parte lo scorso gennaio, quando alle sei di mattina sente un rumore allarmante dalla stanza del fratello maggiore, Eric. È lui che gli ha insegnato a giocare a tennis, quando a 8 anni ha scoperto una vecchia racchetta di mamma Pam. È lui che gli ha tolto l’unico set di una carriera da high school difficilmente ripetibile, 80 vittorie su 80 partite in quattro anni alla Blue Valley North High School di Overland Park, Kansas, dove si è trasferito con mamma e fratello (il padre, Larry, consulente finanziario, è rimasto a Lincoln) senza però dimenticare le sue origini: continua ancora ogni volta che può a seguire le partite nel campionato NCAA dei Nebraska Cornhusker. In quella partita, ricorda, “Eric era avanti nel tiebreak del terzo set; è stata dura perché era il suo anno da senior e io a un certo punto non sapevo cosa fare: alla fine sono riuscito a tornare sopra e vincere 10-8”.

Eric poi ha continuato al college, alla University of Nebraska, ed è diventato coach. Jack, messo davanti alla scelta tra l’università e lo sport, ha seguito indirettamente il consiglio di Paul Goldstein, ex n.56 del mondo con una laurea in biologia a Stanford. “Un giovane che sta considerando di iniziare una carriera da pro deve rispondere a due domande” dice: “1) Sono preparato ad avere un grande impatto nel tour? 2) Ci sono sponsor che mi forniscono abbigliamento e racchette e sono disposti a sostenermi?” Se la risposta è sì, allora è il caso di abbandonare i libri. Per Jack, che ha un talento naturale in qualunque sport richieda l’uso di una racchetta -è anche uno dei più forti sul circuito a ping-pong-, la risposta è affermativa.

Diventa il primo dopo Donald Young a vincere per due anni di fila il titolo di campione Usa Under-18 ai Nationals. Nel 2010 vince gli Us Open junior, in finale su Kudla, nel primo title-match tutto Usa a Flushing Meadows nel tabellone Boys dai tempi di Ginepri-Roddick. Vive di routine e di abitudini, Jack, di piccole e grandi scaramanzie. Per tutto l’arco del torneo, per 18 sere di fila, cena sempre al Chipotle, un fast food che offre cibo messicano, e ha ordinato sempre burrito, patatine e limonata, convinto che la routine l’avrebbe portato a vincere gli Us Open junior. Il titolo lo vince sul serio, ne ricava anche una tessera a vita, ma poi comincia ad allargare gli orizzonti gastronomici. Anche se al Chipotle, diceva l’anno scorso, ci va ancora più di una volta a settimana quando torna in America.

È in America anche tra dicembre 2014 e gennaio 2015. Avrebbe dovuto essere in Australia, ma un infortunio all’inguine gli ha fatto saltare i piani. Deve operarsi a Philadelphia, la città dell’amore fraterno. E non può essere un caso. È lì che quel rumore inatteso lo sveglia di soprassalto. Eric è caduto. È da qualche giorno che non sta bene, ha mal di gola e un senso di stanchezza che non se ne va. Ma è inverno, i medici la scambiano per una normale influenza. Quel giorno però capiscono che c’è ben altro. Eric è caduto perché non riesce a respirare. Jack e la madre corrono Menorah Medical Center, nessuno ancora comprende bene cos’abbia ma deve essere portato in terapia intensiva. Finalmente il dottor Michael Monaco risolve l’enigma e gli salva la vita. Eric ha la sindrome di Lemierre, una rarissima infiammazione batterica: se fossero arrivati in ospedale il giorno dopo, dice, avrebbe rischiato di non farcela.

Rimane dieci giorni tra la vita e la morte, dieci giorni in cui delira e crede di essere l’allenatore della squadra di football dell’università. Dieci giorni in cui Jack è sempre lì, accanto a lui, perché il tennis sarà anche importante ma nothing is better than blood on blood. E quando di tratta di tuo fratello, in quelle situazioni, non ti volti dall’altra parte. Anzi, quando si riprende e vai a giocare Indian Wells, ti presenti anche con una scritta sulle scarpe, For you, Eric. I came for you, but your life was one long emergency.

Ora che l’emergenza è passata, spiega, “qualcosa è cambiato per me. In campo, gioco più libero e mi diverto certamente di più”.

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