Wild Wild Cards

 

di Sergio Pastena

Quando sono a casa, d’estate, adoro sedermi in mutande coi piedi sulla scrivania. Chi vive al sud potrà capirmi, l’afa è una brutta bestia. Anche chi è del nord, comunque, non troverà la cosa tanto strana, giusto? Ma cosa pensereste se io vi dicessi che una volta sono andato ad una cena elegante e, quando mi han detto “Faccia come se fosse a casa sua”, mi son tolto i pantaloni e ho poggiato i piedi sul tavolino? Come minimo pensereste che sono impazzito. Ecco, a Dubai non solo l’han fatto, ma hanno anche sparato un rutto siderale per far capire che avevano gradito la cena.

Si parla di wild card, o meglio delle tre wild card del torneo degli Emirati: Sergei Bubka, Omar Awadhy Behroozian (nella foto a sinistra) e Marko Djokovic. Su Bubka poco da dire: l’ha onorata al meglio giocando un gran match contro Lacko, perso al tie-break del terzo. Ci è andato vicino, l’ucraino, che non è un fenomeno ma, oltre ad essere il figlio dello zar e il boyfriend della Azarenka, ha anche qualità sue: ad esempio una reattività fuori dal comune (buon sangue non mente) e un gran servizio. A 25 anni è al top e la wild card, anche se figlia dei suoi agganci (a Doha e Dubai è di casa) ci può stare. Ci può stare anche quella di Awadhy, sforzandosi: è un mediocre tennista da Future, ma da junior ha sfiorato i Top 100. Perde nettamente, però sa tenere una racchetta in mano e l’anno scorso ha preso un dignitoso 6-4 6-2 da Stakhovsky (l’ha affrontato di nuovo stamattina, ma Sergiy stavolta andava di fretta: 6-1 6-2). Considerando che è di Dubai la sua presenza è tollerabile anche perché, come vedremo, i tornei arabi sono teatro di scempi maggiori.

Ma Marko Djokovic? No, dico, non bastavano le wild card al torneo del fratello? Evidentemente no. Chiariamo un punto, anzi due. Marko Djokovic non è proprio indecente: ha alle spalle una finale Future, è stato condizionato da un infortunio al polso, ogni tanto trova qualche soluzione brillante. Questo è il primo punto. Il secondo è che per decantarne le immense qualità tennistiche o bisogna essere darwinisti fanatici o prendere degli allucinogeni: il ragazzo ha dei limiti grandi come una casa. Ieri ha perso 6-3 6-2 con Golubev: punteggio non proprio tremendo, ma solo perché il kazako (che non è in un gran momento) è entrato in campo in versione “bello addormentato”. Quando si è svegliato, Novakkino non ha visto palla. Ecco, wild card del genere sono il risultato dell’involuzione del tennis su questo fronte. Torniamo indietro di qualche decennio.

La genesi delle wild card “fantasiose”

L’avvento, nel 1990, dell’Atp Tour segnò una rivoluzione: il tennis avviò un percorso di globalizzazione che si concentrò prima sul sud-est asiatico e poi, dopo la crisi di quel mercato, sul Golfo Persico e sull’Estremo Oriente. Già da prima il Tour si concedeva qualche vezzo, come il torneo di Hong Kong, ma gallina beccami se avevano mai dato una WC per il main draw ad un tennista locale. Erano troppo scarsi.

La prima eccezione fu il signore a sinistra: Michael Walker detto Mike, direttore dell’omonima Academy sul cui sito sbandiera la nazionalità britannica e i suoi trascorsi in Davis. Beata ambiguità: chi legge lo immagina al fianco di Henman e ovviamente Mike non dice che giocava per Hong Kong e ha perso, tra gli altri, dal thailandese Thongkhamchu e dal cingalese Wallooppillai. Roba da far tremare le vene ai polsi. In realtà non era neanche un abominio, Walker: una volta, grazie alle sue radici british, ricevette una WC per Wimbledon. Nel biennio 1991-92 ne ebbe due ad Hong Kong perdendo dignitosamente da Mronz e Damm.

Wild card, molto wild…

Se Hong Kong aprì la strada, potevano mai rimanere ferme Kuala Lumpur o Jakarta? Intendiamoci, parliamo di nazioni che avevano qualche tennista “decente”: il malesiano Malik nel 1994 arrivò addirittura ai quarti, alcuni indonesiani fecero soffrire gente come El Aynaoui o Tarango. Trovandosi a fare, però, gli organizzatori tirarono dentro tennisti come tale Ramachandran: due wild card, un game in totale. Complimenti vivissimi.

Hong Kong, intanto, aveva perso Walker e lo sostituì con tennisti non importati che raccoglievano, puntualmente, quell’aborto della sportività che è il game della bandiera. In generale, però, si cercava di mantenere una certa decenza, di non perseverare se un atleta risultava improponibile. Oppure, invece di prendere uno della nazione organizzatrice, si prendeva uno della zona. Tra i tornei dell’epoca giocati in nazioni emergenti, l’unica eccezione fu Singapore: mai una wild card ad atleti di casa, massacri evitati.

La perdita dei freni inibitori

L’inesorabile declino delle WC non si ebbe, come molti potrebbero pensare, con l’arrivo dei tornei cinesi: vero, a Pechino non han prodotto ancora grandi tennisti, ma in Cina sono un miliardo e uno competitivo si trova sempre. Non beccavano 6-0, i cinesi, e qualcuno ogni tanto passava persino un turno. Il problema è nato quando è cresciuta l’importanza dei petroldollari e paesi come Dubai o Doha, che all’inizio ringraziavano sentitamente per il privilegio di avere un torneo ed evitavano di mettere in tabellone il giocatore del circoletto, han cominciato a mettere i piedi sulla scrivania e a sbracare vistosamente.

Il primo è stato proprio Awadhy, arrivato alla nona WC a Dubai. Il tennista emiratino faceva pochi games: ogni tanto assieme a lui invitavano il kuwaitiano Ghareeb, uno decisamente più consistente che ha strappato un set a Berdych e Simon e ha fatto sudare persino Federer. Un anno quei burloni di Dubai piazzarono tale Al Baloushi, che fece due games contro Ledovskikh. Intanto a Doha giocava il terribile Sultan Khalfan, che vedete a destra: nome da sanguinario ma stessi score del compare Omar, con qualche exploit (un anno costrinse a un tie-break Ramirez-Hidalgo). Nel 2004 la svolta: Awadhy becca un 6-0 6-0 dal francese Carraz.

I qatarioti non digerirono l’onta e si misero a cercare uno più scarso con impegno. Provarono Abdulla, che fece quattro games contro Verdasco: troppi. Quindi fu la volta di Hajji: non siamo sicuri che sia lo stesso che sul profilo Facebook ha una foto in una piscina sulla vetta del Burj Khalifa, ma se fosse lui si spiegherebbero tante cose. Ad ogni modo Hajji era scarso al punto giusto: tre games contro Devilder, due contro Berrer, uno contro Rochus, il ragazzo si applicava. Non era abbastanza, però: così quest’anno è arrivato Jabor Al Mutawa (foto a sinistra), sosia arabo di Di Mauro, che contro il nostro Cipolla ha raccolto il tanto ambito 0-6 0-6 e, udite udite, è rimasto in campo undici minuti meno di Awadhy contro Carraz. Il Qatar vince ai punti, con grande invidia degli Emirati che, per vendicare l’onta, l’anno prossimo probabilmente daranno una wild card al bibitaro dello stadio.

Son fatti così, gli arabi: amano le biciclette.

Le wild card 3.0, ovvero: “famo quello che ce pare”

Il resto è storia di questi giorni: messe da parte le velleità di riservare WC ad atleti “seri”, gli accessi in tabellone vengono sempre più spesso divisi tra amatori locali, tennisti ben inseriti e “figli o fratelli di”. E manco la dessero a Gerald Melzer, che almeno si rompe le ossa nei Futures africani per salire in classifica. Obiezione: le wild card le scelgono gli organizzatori e non bisogna metterci becco. Vero, in teoria è così. Però vorrei chiedere cosa ne pensa a Vicini, tennista sanmarinese che quando il suo paese era sede di un evento Atp non ha mai ricevuto WC ed era più competitivo dei compari arabi. Oppure lo chiederei a Lisnard, che pur essendo forte ha dovuto aspettare fino a 25 anni per un ingresso a Monte Carlo. O a Balleret, che nel Principato è arrivato al terzo turno ma si è visto confermare il pass solo per un anno.

Il senso è questo: gli eventi con una certa tradizione e serietà hanno sempre mantenuto un basso profilo sulle wild card. Se c’erano atleti di casa competitivi si invitavano altrimenti si tralasciava. Si chiama “senso della decenza” e non è difficile da spiegare: una cosa è far fare esperienza a un junior promettente, un’altra è mandare in campo un amatore per poter dire “C’eravamo anche noi”. Non serve a far maturare i giovani, non serve a far crescere un movimento, non serve assolutamente a niente.

Non c’è modo di intervenire, vero: tutto resterà com’è e qualche fortunato beccherà dei bye che, nel caso di Dubai, frutteranno ben 45 punti. Non sono pochi, per alcuni possono significare qualche accesso diretto in più ai tornei maggiori e son cose che possono falsare le classifiche. Per capirci pensate al 2011 di Bolelli: se non fosse stato ripescato come lucky loser al Roland Garros e a Wimbledon ora sarebbe quaranta posizioni più indietro. Io, personalmente, continuerò a guardare questi dilettanti allo sbaraglio non come elementi folcloristici ma come simboli viventi dell’incontinenza organizzativa dei nuovi ricchi.

A questo punto, a Vienna, farebbero bene a dare la WC a Bode Miller…

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