Riccardo Piatti: “Senza metodo non si vince”

Riccardo Piatti pratica

di Mirco Jeraci

Il motivo conduttore della storia sportiva di Riccardo Piatti, coach e maestro di tennis di fama internazionale, sembra essere una spropositata ma lucidissima passione per questo sport. Vederlo in campo, nel pomeriggio dell’ultimo dell’anno e ancora fino alle otto di sera, impartire preziosi insegnamenti ad allievi non più che dodicenni è il motivo che mi ha spinto a intervistarlo oltre che, per me che sono un istruttore, un esempio lungimirante: “Non ero solo in campo, c’erano i ragazzi e i loro maestri, per cui condivido questa passione con loro, inoltre trovo molto divertente quello che faccio! ” ribatte prontamente Piatti alla mia prima curiosità che riguardava il suo impegno in un periodo tipicamente di vacanza.

In effetti il contesto di questi allenamenti è uno stage, organizzato dai maestri Stefano Bassetto e Patrick Prader (ex 714 ATP) nella struttura ‘Tennis Sport Center’ di Selva di Val Gardena (BZ), che ha permesso agli allievi della scuola di essere seguiti per una settimana, dal 27 dicembre al 3 gennaio, da un ospite d’eccezione: Riccardo Piatti. Per tutta risposta i giovani allievi, tra i quali spicca Verena Hofer, la campionessa italiana under 16 che a gennaio ha preso parte al tabellone junior degli Australian Open, hanno mostrato una viva partecipazione; divisi in gruppi in base alla loro età, hanno animato il grazioso circolo nel cuore delle Dolomiti in quello che, a detta degli interessati, non rimarrà un evento unico ma l’inizio di una collaborazione che mira alla crescita sportiva dei ragazzi. Mi incontro con Piatti mentre, in attesa dell’inizio degli allenamenti, si rilassa sorseggiando un the nella club house dalle ampie vetrate rivolte sui campi coperti presenti nella struttura.

Qual è stato il suo primo contatto con il tennis?
A nove anni ho iniziato a frequentare il circolo di tennis di Villa d’Este , a Cernobio, da subito questo sport mi ha appassionato. All’epoca, mio padre, un uomo molto sportivo, nel fine settimana portava me e i miei fratelli al tennis, avevamo così la possibilità di giocare con i numerosi soci presenti nel circolo.

Come è nata l’idea di fare il maestro?
Quella del maestro di tennis fu una scelta contrastata. Mio padre aveva una tessitura e in famiglia mi vedevano a lavorare con lui o al massimo a studiare giurisprudenza. Capitò che il maestro di Villa d’Este subì un infortunio e mi venne chiesto di sostituirlo. Avevo circa 20 anni ed ero classificato B1 per cui, tra allenamenti e tornei, vivevo per questo sport. Ritenevo dunque di essere in grado di insegnare il tennis per il semplice fatto di essere un buon giocatore.

E invece?
Eh … non era proprio così! Mi vennero affidati un gruppo di ragazzi senza velleità eppure questa attività mi entusiasmava ma, al tempo stesso, mi rendevo conto che non riuscivo a svolgerla con la giusta competenza. Così iniziai una ricerca, un bisogno, che ha caratterizzato una buona parte della mia vita professionale, mirata a capire a fondo questo gioco. Nel biennio ‘81-‘82 frequentai la Scuola Maestri, al tempo diretta da Antonio Rasicci; imparai molto ma sentivo che più andavo avanti, cercando di imparare, meno capivo. Su suggerimento di Gianni Clerici, comasco come me e amico di famiglia, mi recai a lavorare al campus di Bollettieri negli Stati Uniti dove mi rimasi per circa due mesi e mentre mi stavo trasferendo per un ulteriore tirocinio al’accademia di Newcombe la Fit mi propose una collaborazione in qualità di vicedirettore della Scuola Maestri.

Ecco dunque l’origine di un sodalizio con la Fit che poi l’ha portata al allenare una fortunata generazione di tennisti italiani della quale hanno fatto parte Caratti, Furlan, Mordegan e Brandi…
Reputo che il lavoro svolto con questo gruppo sia stato il più grande risultato della mia carriera; a fine ‘83, al termine della mia esperienza alla Scuola Maestri, ricevetti l’incarico dalla Federazione di seguirli presso il centro tecnico di Riano: erano under 14, non li conoscevo personalmente e li avevo visti giocare poco. Lavorammo per quattro anni e nel 1988, appena questo gruppo concluse il percorso giovanile, proseguimmo la collaborazione alle Pleiadi di Moncalieri. Il mio primo obbiettivo era farne dei professionisti, ovvero raggiungere le prime centro posizioni della classifica ATP; in effetti, Furlan arrivò 19 al mondo, Caratti 26, gli altri due nei primi 50 della classifica ATP di doppio.

Mi racconti qualcosa a proposito di Ivan Lujbicic (ex n°3 al mondo), più di ogni altro il tennista al quale si associa il suo nome e che tuttora colpisce per le qualità extra tennistiche che lo portano, per esempio, ad essere un ottimo opinionista sportivo.
Ivan arrivò alle Pleiadi all’età di 14 anni grazie a Fricky Chioatero, attuale direttore della Stampa Sporting di Torino. Proveniva da un campo di rifugiati della guerra civile jugoslava ; mi rimane impresso che, quando lo impiegavo come sparring partner, aveva sempre le scarpe bucate. Per i tre anni successivi lo seguì “a distanza” in quanto era nel gruppo di Luigi Bertino, si può dire che iniziammo fattivamente la nostra collaborazione quando aveva 17 anni e lo vidi giocare gli Australian Open junior. All’epoca non volevo lavorare con un solo giocatore; nel gruppo che allenavo stava avvenendo un ricambio generazionale con l’arrivo di giovani come Uros Vico e Igor kunitsyn. Allora mi posi come traguardo ulteriore quello di condurre un tennista nei primi dieci al mondo; ci allenavamo in maniera serrata e, cosciente dell’importanza dell’obbiettivo e deciso a raggiungerlo, ero piuttosto duro nei loro confronti.

Ma le era chiaro il percorso per costruire un giocatore di vertice?
Beh all’inizio direi proprio di no; la sola cosa che facevo era lavorare moltissimo. Sapevo di avere delle lacune per cui spesso andavo con i miei giocatori all’estero dove mi confrontavo e collaboravo con gli altri maestri. Nel periodo di Riano ho ricevuto molte indicazioni, che si sono rivelate fondamentali, circa la preparazione fisica dal prof. Dal Monte e dal prof. Matteucci della Scuola dell’Acqua Acetosa. Una persona che è stata particolarmente importante nella mia crescita e che desidero ricordare è Vittorio Roiati: era soprannominato “il Professore”per la sua grande competenza ed era molto amico con Mario Belardinelli, storico maestro di alcuni dei “moschettieri” che vinsero la Davis nel ’76. Paradossalmente il nostro primo incontro fu segnato da un’accesa discussione poiché, mentre seguivo dei ragazzi in un torneo, mi avvicinò contestando le scelte della Federazione che in quel momento rappresentavo, in seguito aprì molto la mia visione mostrandomi aspetti del tennis che mi tornarono utili nell’insegnamento. Anni dopo alle Pleiadi, con il supporto del presidente Carlo Bucciero, creammo un ambiente favorevole non solo per allenare al meglio i tennisti ma anche per una crescita e un confronto fra i tecnici con l’intento di uscire dall’ oblio nel quale il tennis italiano era caduto in quel momento storico: abbiamo cooperato con alcune persone che sono ancora punti fermi del tennis italiano quali Pino Carnovale, Giampaolo Coppo e Albero Castellani.

Quanto è cambiato il panorama del tennis italiano da allora ad oggi?
Innanzitutto bisogna riconoscere che oggi c’è una Federazione che ha prodotto risultati importanti: la conquista della Fed Cup, ottime prestazioni in Coppa Davis, risultati prestigiosi in campo individuale, un torneo di Roma che di fatto è il quinto Slam; una situazione viva di cui la Federazione, sebbene si possano discutere alcune scelte, è promotrice. Nel contesto dell’insegnamento, che mi riguarda da vicino, c’è una costante evoluzione frutto anche delle nuove tecnologie e questo è, senza dubbio, un grande vantaggio; noto però che una maggiore accessibilità ai molti argomenti riguardanti il tennis può generare una certa superficialità anche in molti addetti ai lavori…Resta importante per me sapere nel dettaglio del mio ruolo cosa fare e cercare di essere professionale nel farlo.

Ecco in merito all’insegnamento vorrei portare alla sua attenzione un esempio dal mondo del calcio: le caratteristiche tecniche del gioco del Barcellona sono un unicum e costituiscono una filosofia che viene insegnata nella “Cantera”. Non pensa che nel tennis italiano, al contrario di quanto avviene in altri paesi come Spagna e Stati Uniti, manchi una scuola di pensiero e il successo sia troppo spesso lasciato al talento dei singoli?
Non può e non deve essere così…Un momento importante nel mio percorso fu quando ci recammo con Ljubicic a Milanello per fare dei test al MilanLab. Tognaccini e Messerman erano i medici responsabili di questo progetto allora molto innovativo. Quello che mi stupì nel loro modo di lavorare fu l’utilizzo di un metodo ben preciso. Una delle frasi che spesso mi piace ripetere è “Senza metodo, ordine, volontà e fatica non c’è né genio né trionfo” in pratica non c’è miglioramento; e per migliorare è necessario che i bambini, fin dai primi anni di tennis, conoscano le tecniche di questo sport come i giocatori di vertice. Le conoscenze di base sono dunque comuni per tutti, il tipo di gioco e le relative metodologie di allenamento vanno adattate dal maestro all’età, al livello e alle caratteristiche dei singoli allievi.

A fronte della ripresa del tennis e del crescente numero di ragazzi che si iscrivono nelle nostre scuole tennis e che costituiscono una ottima base di partenza, si riscontra un problema nel momento in cui i più bravi si approcciano all’agonismo. La necessità di maggiori allenamenti e la partecipazione a tornei anche solo all’interno della propria regione fanno lievitare i costi dell’attività e costituiscono un ostacolo per le famiglie. Si genera così collo di bottiglia tra la base e l’agonismo, nella quale a rimetterci maggiormente sono i ragazzi leggermente in ritardo rispetto ai primissimi di categoria, che sono in ogni caso foraggiati dalla Federazione. Forse a parecchi giovani, pur meritevoli, è precluso troppo presto un percorso agonistico adeguato: qual è la sua opinione a riguardo?
Il problema che poni è insito nella natura di questo sport; molti giocano ma davvero pochi arrivano ai vertici, cosicché la questione si sposta nella capacità di selezionare chi davvero può ambire a raggiungere certi livelli. Per fare questo occorrono delle conoscenze, un’esperienza ed una capacità di visione che spesso va oltre i risultati che un giovane è capace di conseguire nell’immediato. D’altro canto se c’è un boom del tennis, è pur vero che alcuni nel nostro settore, facendo leva sull’entusiasmo tipico dei giovani e sulla buona fede della famiglie, prospettano obbiettivi difficilmente raggiungibili. Personalmente reputo che i ragazzi debbano girare il mondo e confrontarsi in campo internazionale ma solo se ne hanno le capacità ovvero se hanno dimostrato prima di avere la carte in regola in ambito nazionale; ripeto non tutti possono arrivare al top e il ruolo del maestro resta, in primis, quello di insegnare una disciplina sportiva. Infine il ruolo dei circoli: è chiaro che un limite può essere quello di non investire abbastanza sui giovani meritevoli ma non è ovunque così, qui a Selva di Val Gardena succede proprio il contrario.

Leggendo una tra le sue ultime interviste mi pare di aver letto che lei abbia lasciato la guida tecnica di Richard Gasquet, tra gli altri motivi cito testualmente “per completare la sue esperienza di tecnico”: questa cosa mi ha colpito poiché sembra scontato che allenare un top ten sia un prestigioso traguardo nella carriera di un tecnico e non un ulteriore punto di partenza. Quali sono dunque i suoi progetti futuri?
Voglio innanzitutto dire che Richard è uno dei tennisti ai quali sono maggiormente legato perché , nel corso della nostra collaborazione,ho instaurato con lui uno splendido rapporto; ma in questo momento, nella mia testa vorrei costruire, per usare le tue parole , il “sistema Barcellona”, un metodo uguale per tutti, a iniziare della base e vedere dove riusciamo ad arrivare; collaboro con il Bonacossa a Milano, la Stampa di Torino, la Baldesio Cremona, il Tennis Club Bordighera e altri circoli che rappresentano di fatto la mia base. In questo contesto non voglio allenare i giocatori ma lavorare e formare i maestri, un tipico esempio della direzione in cui sto muovendo i miei passi è il rapporto con Massimo Sartori; sebbene non abbia mai allenato Andreas Seppi lavoro e mi confronto frequentemente con il suo coach.

Dalle ultime righe dell’intervista si può dunque meglio comprendere, anche se non abbiamo toccato l’argomento, i ruoli interni all’angolo del campione canadese Milos Raonic, nel quale oltre al suo allenatore Ivan Lujbicic sovente, in molti tornei, vediamo la presenza di Riccardo Piatti. Chissà se questo signore dai modi pacati e dello sguardo penetrante, che si appresta a tirare le fila alla terza generazione di top player da quando ha iniziato negli anni ’80, riuscirà nel suo ambizioso progetto; quello di affermare, al pari di Sanchez in Spagna o Bollettieri in America, una “scuola italiana”; noi,nel ringraziarlo per il tempo che ha dedicato a questa intervista, glielo auguriamo di cuore.

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