6 ‘o core e 71 ‘a meraviglia

di Sergio Pastena

Guardateli quei due soldatini in quel film. Soldatini poi… sembrano due pulcini bagnati. Un generale e un soldatino, per la precisione: molto diversi tra loro, ma con in comune la sindrome del reduce.

Il generale ha fatto mille battaglie e ha conquistato qualunque nazione: ha invaso sette volte con successo il Regno Unito, roba che a Hitler solo a sentirlo verrebbe una sincope. Cinque volte è sbarcato nelle Americhe, con Colombo ancora lì a rosicare come un castoro. Quattro volte ha esplorato l’Australia, con James Cook a fargli da scendiletto. E dopo anni ed anni di tentativi, anche la Francia è caduta ai suoi piedi: per una volta, ma è caduta.

E che dire delle singole battaglie? Più di mille ne ha combattute e quasi mille ne ha vinte, una bulimia da lotta che manco Annibale ai bei tempi andati. Tutte al comando di un suo personalissimo esercito composto da due soli soldati: un cervello sopraffino e un braccio sovrannaturale. Un giorno, però, come sempre capita, arriva un altro generale, iberico: è più spiccio, va per la sostanza, si dice non si sia mai arreso in vita sua. Poi ne arriva un altro dai Balcani, forte quanto il primo. E il fiato delle mille battaglie si fa sentire, il generale comincia a perderle ancora, e poi ancora.

E alla fine, oltre a non conquistare più continenti, si fa strada in lui l’idea di non poter vincere più battaglie contro quei due. Più giovani, più veloci, più tutto. E la platea invoca la pensione per porre fine allo strazio.

Il soldatino, invece, continenti non ne ha mai conquistati: ha partecipato anche lui a tantissime battaglie, ma non aveva la sostanza per diventare generale. Anzi, di lui dicevano che soldato ci sarebbe morto senza prendere nemmeno una medaglia.

Gambe e polmoni, gambe e polmoni, sempre al fronte senza mai stancarsi. E senza mai incrociare il generale, ovviamente: altri campi, altre battaglie, altri eserciti. Eppure a furia di stare in trincea senza mai avere paura delle pallottole che piovevano, il soldatino non solo ha costruito una sua reputazione ma si è guadagnato anche qualche medaglia. Un asso nel suo genere, l’affidabilità fatta persona.

Poi anche per lui arriva qualche annetto di troppo: in fondo ha solo quattro mesi meno del generale. Inoltre non la può sbrigare come lui, con un rapido e deciso movimento del braccio, segno supremo di comando e controllo. Lui deve correre, correre, correre. Una parola.

Così, quando qualche crepa comincia ad emergere, la solita platea invoca la pensione anche per lui: sei stato bravo, prenditi l’applauso e lascia quel posto in trincea a qualcun altro. Tanto non conquisterai mai una fortezza importante, accontentati di quella decina di fortini che hai assaltato. Sei stato comunque eroico.

E poi?

Poi succede che un giorno il generale si sveglia di colpo e decide di battere quel giovanotto impertinente dei Balcani che troppo spesso si era preso confidenza. Il gesto incerto torna deciso, lo sguardo basso si alza ancora una volta, fosse pure l’ultima. E lui passa al contrattacco, sfanga fuori dalle retrovie, accerchia il nemico che, stavolta, deve arrendersi.

E la platea? Beh, la platea forma con la bocca una “O” di Giotto. 71, ‘a meraviglia.

Il soldatino, invece, soffre nelle retrovie come al solito: ha di fronte un osso duro, ai suoi tempi è stato uno dei migliori comandanti delle Americhe pure lui. E cosa fa? Resiste, si chiude in trincea, torna a correre e sparare da un lato all’altro come ai bei tempi. E poi, con l’incoscienza di chi stavolta non vuole fermarsi, si butta all’assalto all’arma bianca. Quattro volte, quattro. E il comandante mica se l’aspettava: arretra, vacilla e cade. E la grande fortezza per la prima volta è lì a due passi: così da vicino non l’aveva mai vista.

E la platea? Corre di nuovo al Banco Lotto, che quest’ambo è sicuro. 6, ‘o core.

Saranno anche diversi in tutto, Roger e Paolo, vero. Ma a questo giro, oltre ad avere in comune la riscossa, è giusto che abbiano in comune anche l’applauso della platea.

Clap. Clap. Clap.

 

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