A.A.A. Mariachi con racchetta cercansi

di Marco Mazzoni

Sulla terra rossa di Acapulco si stanno scambiando le prime palle dell’Abierto Mexicano de Tenis, quest’anno nobilitato dal ritorno di sua Maestà Nadal dopo il bel successo del 2005. Un torneo davvero speciale quello messicano, per certi versi unico, la cui storia vi ho raccontato l’anno scorso di questi tempi. Nonostante il calendario lo classifichi solo come Atp 500 e Wta International, il fascino dell’evento va oltre ai numeri, per la location splendida e una dimensione umana irripetibile, che ti lascia dentro qualcosa di speciale e che solo chi l’ha vissuto può capire. Chiedete a Flavia Pennetta, che ama sinceramente questo torneo, e non solo perché l’ha vinto due volte e fatto molte finali, ma perché sulle rive del Pacifico si sente coccolata, come a casa.

Tennis e Messico. Incuriosito, scorro la lista dei giocatori in classifica per paese, ottenendo la conferma di una prima riflessione: la terra dei Mariachi e della Tequila è praticamente scomparsa. E non solo dal tennis di vertice ma anche a livello medio, quello dei Challenger, nonostante vengano organizzati da nord a sud diversi eventi, soprattutto Futures, di buona qualità media. Il primo messicano nel ranking Atp è Miguel Gallardo-Valles, questa settimana al 395 (!), e la prima ragazza è Ximena Hermoso, al 365. Di fatto un paese sprofondato nell’anonimato del panorama internazionale, per lo sconforto degli appassionati messicani, disperatamente alla ricerca di un tennista in grado di risollevare il morale e le sorti del movimento nazionale, che langue tristemente. La penuria di giocatori non è un novità, il tennis in Messico ha sempre vissuto a strappi: qualche campione immortale, alcuni buoni giocatori a riempire buchi generazionali di totale depressione. Chiaro sintomo di un paese a cui gli Dei del tennis hanno sempre guardato distrattamente, regalandogli tanto deserto e una manciata di talenti straordinari, entrati nella storia per la porta principale. Pancho González su tutti, un vero eroe nazionale (anche se di passaporto yankee), uno dei più forti di sempre; a ruota lo segue Rafael Osuna, campione nel ’63 a Forest Hills (e Wimbledon in doppio con l’altro messicano Palafox) e morto in un incidente aereo nel ’69; qualche lustro dopo fu la volta di Raúl Ramírez, baffuto attaccante e mitico doppista nei ‘70, quando il tasso di talento era il più elevato di sempre e per emergere ci voleva tecnica, fisico e testa. La lista degli eroi si ferma qua. Tra i buoni giocatori l’ultimo è stato Leonardo Lavalle, onesto lavoratore della racchetta che ha tirato la carretta nazionale per oltre un decennio. Poi il vuoto, totale. Perché?

In Messico la federazione “lavora”, ma con mezzi e denari solo per tirare avanti, senza voli pindarici. E pesca male nel pueblo. Eppure il tennis in Messico piace, ve lo dice uno che il paese lo conosce piuttosto bene. Nelle tv via cavo, un “lusso” che quasi ogni messicano (spesso anche i più indigenti) si concede, se ne trasmette parecchio; non quanto il calcio o le leghe Usa come NFL, MLB e NBA, i veri sport nazionali, però Federer, Nadal e compagnia sono conosciuti ed apprezzati, e i grandi eventi come Wimbledon seguiti anche di chi non si considera appassionato doc. C’è una relativa fame di tennis in paese di oltre 100 milioni di anime, ma la carenza grave è quella di strutture. Qua siamo assai indietro: la gente comune ha difficoltà ad accedere al tennis, che è ancora uno sport d’elite. Non ho fatto una vera statistica, ma in Messico non ci sono molti meno campi da tennis che in Italia, come numero. Il problema è che la stragrande maggioranza è concentrata nelle migliaia di strutture turistiche da sogno (vedi il Fairmont Princess dove è ospitato il torneo di Acapulco), e quindi ne possono godere solo i “gringos” (o i turisti in genere) che scendono ai tropici in tutto l’anno, a svernare al calduccio coccolati dalla straordinaria accoglienza dei messicani; o nei club deluxe, frequentati dalla fetta di popolazione che molto velocemente si sta arricchendo, staccando di anni luce il resto del paese, ancora perso nelle più dure diseguaglianze sociali.

Andiamo al cuore dello stato, la capitale Città del Messico, o il DF come più amabilmente la chiamano i chilangos (i suoi abitanti). E’ oggi una megalopoli di oltre 25 milioni di anime (sì signori, quasi metà Italia!), tutti stipati in un’area non così piccola (circa 40 x 50km nelle due direttrici), ma nemmeno sterminata, sita all’interno di un altipiano a 2300 metri racchiuso tra montagne che ne soffocano l’aria, spesso irrespirabile “por la contaminacion” degli oltre 15 milioni di autoveicoli che sfrecciano per le varie tangenziali cittadine, spesso incuranti di sensi e divieti, quasi sempre incolonnati per ore. Una città “impossibile” per una vita serena, ma che offre un mix esplosivo ed affascinante di storia, cultura, bellezze archeologiche, coloniali e umanità, il tutto in una modernità sempre più vivace e strafottente, a volte costruita a gomito coi resti dell’impero Azteco, spazzato via da Cortés in poche settimane cinque secoli fa. Girando per la città ci si imbatte in tutto ed il contrario di tutto. Si resta stupiti dalla bellezza della gente e delle opere, che contrasta in modo sfacciato col dolore profondo nel constatare disuguaglianze ataviche, impossibili da sanare. Tutti passano per un enorme imbuto, il Periferico, una sorta di autostrada a due piani (e si progetta il terzo!) che solca la città, cercando di dare regolarità ad un traffico impazzito, insostenibile per gli stessi abitanti, costretti a regolare la propria vita sugli orari delle ondate dei pendolari. Andando in giro ci si imbatte in ville incredibili, centri commerciali che i nostri in confronto paiono dei negozietti dell’angolo sotto casa, grandi parchi, viali alberati, tanta povertà a macchia di leopardo in questo puzzle senza capo né coda; ma che fascino perdersi (letteralmente) in questo piccolo universo, impossibile da descrivere senza vederlo. Questa è Ciudad de México. Ed il tennis dove sta? C’è, ma non si vede.

Moltissimi sono i centri sportivi disseminati per il DF, tutti piuttosto nuovi, dotati di strutture all’avanguardia, ma ben nascosti agli occhi indiscreti. Sono club esclusivi, dedicati all’alta borghesia o ai nuovi ricchi, che si stanno moltiplicando anche in Messico, a discapito della gente comune, sempre più lontana e in lotta per sopravvivere, con dignità e quel sorriso perenne stampato in fronte che dovrebbe farci ricordare quanto siamo fortunati. Accedere a queste strutture sportive è quasi impossibile se non sei uno di buona famiglia, magari un giovane avvocato che vive nelle Lomas o nel quartiere ricco di Polanco. Inoltre il tennis non è nemmeno l’attività principale degli sporting centre: prima viene il nuoto, il golf, le arti marziali (molto diffuso il Taekwondo), ovviamente il calcio. E chiaramente a giocare a tennis entrano manager rampanti, che tra uno scambio e l’altro firmano contratti d’affari; o soprattutto i classici “figli di papà”, per divertirsi e passare il tempo più per che diventare grandi campioni. Se hanno talento magari ci pensano pure a provarci col tennis, però è molto più comodo entrare nello studio legale di papà, o in azienda, che sputare sangue e correre come un globetrotter per il mondo, inseguendo sogni di gloria con una racchetta in mano, nel vortice d’una competizione sempre più globale, sempre più dura. E dillo poi ad un messicano doc, non perennemente pigro come dipinto negli spot tv ma che mette in cima alle sue priorità “disfrutar la vida”. Con questa mentalità, e con il tennis ancora relegato all’elite, è davvero complicato farlo diventare uno sport di massa, o almeno a cui le masse ed i giovani “affamati” possano accedere, quelli che potrebbero aver più chance di gettarsi nella mischia Atp con successo, come in Argentina per dire. Nelle scuole ci sono a volte dei campi da tennis ma languono tristemente vuoti, perché i giovani vengono indirizzati più negli sport di squadra, quelli che possono garantirgli, forse, un futuro.

La situazione di Città del Messico si ripete nelle altre metropoli messicane, Guadalajara, Puebla, Monterrey. Nei paesini fuori dalle metropoli, del tennis neanche l’ombra, oppure resta confinato nei resorts turistici. I campi pubblici sono davvero pochi, come quelli nei campus universitari; i tecnici bravi si contano sulle dita di una mano, e quelli davvero buoni sono perlopiù argentini o spagnoli che lussureggiano anche loro nei club più prestigiosi (come l’Aleman al sud del DF o il Club de France a nord, guarda caso club con nomi stranieri…), insegnando ai cummenda di turno oppure alle loro annoiate mogli.

Il problema dei tecnici è fondamentale, a detta del campione Raul Ramirez: “In Messico non ci sono tecnici bravi che lavorano con continuità all’alto rendimento e al formare i giovani migliori al professionismo internazionale, insegnando tecnica, preparazione fisica, psicologia, come oggi è necessario. Gli ex professionisti sono andati quasi tutti a vivere a Miami o negli Usa; i pochi tecnici bravi si interessano di più ad insegnare ai ricchi che possono pagare lezioni carissime e inutili a chi se le può permettere. Mancano del tutto iniziative private che creino team di alto livello, finanziati privatamente o da sponsor. I club non aiutano chi vorrebbe provarci, e la Federazione non persegue affatto progetti del genere che hanno fatto la fortuna di Spagna e Argentina. Noi abbiamo una dimensione assai più ridotta, e la Federazione non sostiene nulla di ciò e nemmeno i giovanissimi con la scusa dei soldi. In realtà pensano solo alla politica e difendere interessi clientelari, perché qualche soldo c’è ma è speso malissimo”. Andiamo bene…

I giovani che ci provano nelle università sono molto più concentrati a prendersi una bella laurea per trovare un posto di lavoro importante, che rischiare una carriera così incerta e faticosa come quella del tennista. Ad aggravare la situazione una lega tennistica nazionale piuttosto strutturata, in cui i club (ricchi) pagano piuttosto bene le migliori racchette messicane, che si siedono su questi comodi Pesos e si fermano lì, invece che cercare la via perigliosa della gloria internazionale, e della crescita professionale.

Quindi a tennis in Messico si gioca, ma non è uno sport per tutti. Nei centri commerciali abbondano materiali sportivi di ottima qualità. Anche la notissima catena Tennis Warehouse ha un negozio a Città del Messico, e vendono benone, l’ho visto coi miei occhi recentemente: attrezzi di prima qualità che arrivano dagli Usa, con prezzi molto cari per il reddito medio nazionale, abbigliamento sportivo anche ricercato, non solo robetta da discount. Però il tennis messicano pesca male, pesca in un microcosmo troppo ovattato. Solo se il fato manderà di nuovo nel paese dei Mariachi un talento fuori dal comune uscirà il campione, quello immortale, perché costruire un livello medio, quello che si crea con tempo e lavoro, sarà molto molto complicato, almeno a breve-medio termine. I soldi del comitato olimpico nazionale sono pochi, ed i vari responsabili che entrano con nuove speranze si scontrano con una realtà troppo complessa e clientelare per esser risolta in una nottata (vedi Raúl Ramírez, che dopo qualche anno mollò il timone del tennis nazionale, stufo di avere le mani legate). Forse solo un campionissimo potrebbe far scattare una vera tennis-mania, ma i poveri o quelli “non ricchi”, che hanno davvero fame e sono disposti ad una gavetta durissima ed incerta per migliorare la loro vita, al tennis non ci arrivano proprio. O magari disputano il circuito nazionale, y adios. Soluzioni a breve termine poche. Il torneo di Acapulco tira moltissimo come interesse dei media e della tv nella decina di giorni del suo svolgimento, e se passerà al cemento nel 2014 avrà forse un campo di partecipazione ancor più ricco, e sarà un bel traino. Ma sarà difficile trovare a breve non solo il campione ma anche quei 2-3 giocatori che possono far gruppo e tirare gli emergenti. Così ai messicani, se gli chiedi sul tennis nazionale, ti risponderanno con l’adagio della loro canzone popolare più famosa, il Cielito lindo: “Ahiahiahiai, canta e non piangere, perché cantando si allietano, amore mio, i nostri cuori!”. Questa la traduzione del mexican lifestyle, prendere in giro la morte, vivere con serenità e fiestas, aspettando con fiducia giorni migliori. E forse anche un altro González.

 

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