Novak Djokovic e la disperata ricerca di consenso

Novak Djokovic

di Federico Mariani

Con la non-finale appena consumata a Londra, un’altra stagione viene consegnata agli archivi. Questa è la terza che Novak Djokovic chiude come numero uno del mondo, meritando appieno lo status di leader del tennis di oggi, almeno per quanto dice il campo. Fuori dal rettangolo di gioco, infatti, le mirabili imprese del serbo non riescono per nulla a scalfire ciò che gli altri mostri del tennis contemporaneo, Federer soprattutto ma anche Nadal, rappresentano per la gente.

Non ce la fa proprio Nole ad accaparrarsi le simpatie del pubblico. Eppure sul campo e fuori è sicuramente più umano, più simpatico, più vicino alla normalità di quanto non sia Federer, inarrivabile pressoché come una divinità, o Nadal, che visti gli atteggiamenti e le movenze in campo tanto umano non è. Dalle imitazioni ai balletti post-match, passando per le simpatiche esibizioni a Flushing Meadows con McEnroe, Djokovic ha fatto veramente di tutto pur di sembrare simpatico, senza tuttavia riuscirci granché.

Che abbia un’ossessione da “prima donna” si intuiva già da tempo, e a Londra il siparietto che, di fatto, gli è costato il set (l’unico perso nel torneo) contro Nishikori ne è la conferma. Il serbo vede ostilità nei suoi confronti, quando invece è semplice tifo per l’avversario. Nella circostanza di giovedì scorso poi, altro non era che una speranza del pubblico pagante di allungare uno spettacolo che si accingeva a terminare brevemente.

Dal suo punto di vista, Djokovic si sente illegittimamente snobbato, quasi messo in ombra dalla gloria e dalla fama di Roger e Rafa, due tra i più grandi campioni della storia del gioco. Una convivenza difficilissima, ma nella quale ha saputo calarsi benissimo tanto da primeggiare. Fuori dal campo, però, occupa inevitabilmente un piano inferiore. Si prenda ad esempio il 2014: nella prima parte si è glorificata prima la tanto straordinaria quanto inaspettata vittoria di Wawrinka a Melbourne, poi il nono punto esclamativo di Nadal a Parigi. Nella seconda parte, con Rafa più fuori che dentro, si è assistito alla rinascita di Federer che ha ritrovato smalto e gioco fino ad insidiare nel finale di stagione proprio la prima piazza mondiale. Nel mezzo è passata quasi in secondo piano la vittoria di Nole a Wimbledon, il vertice della classifica ritrovato e, infine, il quarto alloro alle Finals, il terzo consecutivo. Pare quasi che il 2014 sia l’anno di tutti fuorché il suo, e ciò contrasta con quello che invece dicono chiaramente i risultati. Il campo, infatti, dice che Djokovic è stato il giocatore più forte dell’anno con sette tornei in cascina tra cui uno Slam e quattro Masters 1000.

Il forfait di Federer alla finale del Master è l’assist perfetto: ancora una volta più che del successo di Djokovic, che ha trionfato con pieno merito mettendo in mostra un tennis inattaccabile, quasi perfetto per tutto l’arco della settimana, si è discusso sulla scelta di Roger di non giocare, sulle condizioni della schiena dello svizzero, sui battibecchi reali o presunti con Wawrinka, sulle possibilità di vincere la Davis. Ancora una volta Djokovic vince, convince ma non attira.

Orgoglioso come solo un serbo sa essere, è palese che Nole soffra questa condizione e ciò si riflette anche sul suo gioco e sui risultati. Pare quasi inverosimile dirlo, ma per il livello che ha Djokovic non trae il massimo dal suo tennis perché subisce troppo la personalità ed il carisma degli altri due. La finale del Roland Garros di quest’anno, così come la semifinale sempre a Parigi della passata stagione, ne sono la prova. Da due anni almeno il suo gioco è superiore non poco a quello di Nadal, eppure quando più conta a prevalere è ancora il maiorchino come nelle sfide parigine. E lo stesso discorso vale per gli incontri con Federer dove è evidente come il serbo subisca il fatto di avere tutto il pubblico schierato dalla parte opposta.

Spesso si ha la sensazione che in campo cerchi più il consenso del pubblico che la prestazione in sé e, non ottenendolo, si irretisce quasi fosse incredulo che la gente non si renda conto che è lui il più forte. L’amore che il pubblico nutre per i suoi beniamini, però, non è proporzionale al ranking (vivaddio!) e Djokovic, arrivato a 27 anni, dovrebbe avere una maturità ed un’esperienza tale da rendersene conto. Il nome del serbo appartiene già alla storia del gioco ed ha ancora molti anni davanti a sé per dominare il circuito, visto che in questo particolare momento di ricambio generazionale non si scorge all’orizzonte chi possa realmente insidiarlo. Farsi distrarre e dissipare energie mentali nella futile ricerca di consenso potrebbe essere una scelta sciocca e controproducente.

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