Riflessioni sul caso Papasidero

Lorenzo Papasidero

di Piero Emmolo

La notizia, lo diciamo con tutta onestà, è di quelle che scuotono solo il settoriale mondo degli appassionati di tennis (non ce ne voglia male Lorenzo Papasidero). Ma puó essere importante spunto per effettuare considerazioni problematiche su più ampia scala. Ma andiamo con ordine. L’atleta italiano è stato sottoposto ad un controllo antidoping il 22 agosto 2014, durante lo svolgimento dell’Open Nazionale ad Avenza (Carrara). Ma solo ieri alle ore 15 è venuto a conoscenza dell’esito positivo delle analisi. La sostanza riscontrata nei prelievi è il pentetrazolo, farmaco usato con frequenza dai geriatri, e avente effetti di stimolante circolatorio e respiratorio. Ufficialmente non è ancora arrivata alcuna dichiarazione del tennista pisano. Tuttavia canali ufficiosi attribuiscono all’assunzione di un farmaco contro la bronchite la causa della positività dei controlli.

Il caso del tennista italiano può esserci d’aiuto per una marginale ma comunque pertinente digressione sulla normativa vigente in materia. Il CONI, all’approvazione in sede parlamentare della legge n. 376/2000, recante sanzioni penali per il consumo o la commercializzazione di sostanze dopanti, s’era fregiato di aver trovato una sorta di panacea alla lotta al doping. Errore grossolano a dir poco, visto che andrebbe prima valutata in concreto la capacità d’una legge di attagliarsi al sistema socio-giuridico in cui dev’essere applicata. E poi eventualmente decantarne il successo. Ma si sa, talvolta i titoli da dare in pasto alla stampa e qualche elezione imminente, inducono a piccole leggerezze. Unico passo in avanti, degno di sincera e schietta menzione, risiede nell’aver collocato la normativa antidoping italiana nella sua corretta sedes materiae, ossia quella della tutela della salute psico-fisica dell’atleta. Tralasciando considerazioni di opportunità politica e legislativa, di poco interesse per il target di lettori che ci segue, emerge in tutta chiarezza che è a dir poco illogico che un atleta che veleggi intorno alla posizione numero 1000 ATP e che abbia quasi del tutto interrotto la propria attività agonistica, possa cercare in maniera fraudolenta di alterare significativamente le proprie prestazioni, pur non avendo le indispensabili credenziali tecniche per effettivamente riuscirci. Né sembrerebbero pressanti le ambizioni di riuscire ad arrivare prima possibile nel tennis che conta, posto che un quasi venticinquenne in quella posizione di classifica, qualche domandina potrebbe anche razionalmente iniziare a porsela sull’effettiva esistenza di concreti margini di probabilità d’approdare a livelli più soddisfacenti per un professionista della racchetta. La normativa in casi simili è chiara. L’atleta, in condizioni patologiche documentate e certificate dal medico, può beneficiare del trattamento terapeutico prescritto (altrimenti dopante), nel rispetto dei dosaggi in ricetta e tenendo a disposizione delle autorità sportive per eventuali controlli la relativa documentazione probante. Rispettate queste condizioni, è possibile esercitare attività agonistica. Ci sentiamo di dedurre che o Lorenzo abbia agito con leggerezza, ignorando la presenza della sostanza proibita nel farmaco assunto, o che sia stato incurante delle regole in materia. Il garantismo è comunque d’obbligo.

Nè deve far pensar male la sospensione in via provvisoria comminata dal CONI. Essa ha infatti natura cautelativa e precauzionale. Il toscano figurava iscritto all’ormai tradizionale future di Santa Margherita Pula, dove al primo turno avrebbe dovuto incontrare il genovese Francesco Picco, ma ha dovuto rinunciare alla partecipazione proprio all’ultimo istante. Il caso Papasidero non può non rievocare il ricordo dello sfortunato Roberto Melchiorre, il cui caso divenne vera e propria pietra miliare nella triste giurisprudenza penale in materia di doping. Le analogie, lo chiariamo a scanso di equivoci, riguardano non le sostanze implicate nei controlli nè tantomeno l’infausto esito del processo. Melchiorre fu infatti il primo atleta italiano ad essere condannato per violazione della normativa in materia di doping, dopo che i test ematici diedero prova della presenza del metabolita della cocaina (assunta durante una notte ”leggera” e in seguito a turbolente vicende personalissime) nel suo sangue. Ineriscono bensì la cronica incapacità dei vertici istituzionali competenti ad approntare un sistema efficace e funzionale, in grado di far incappare nelle nasse degli agenti Antidoping non i pesci piccoli, ma gli squali. Ossia coloro che con libero arbitrio e mercificazione dell’essenza leale dello sport, effettivamente stravolgono gli esiti delle competizioni sportive. Con questo non intendiamo giustificare Papasidero per la (presunta) leggerezza commessa. Un rinomato brocardo latino recita che “ignorantia legis non excusat”, e pertanto è d’obbligo rimettersi alla sua secolare saggezza. La penna d’un buon narratore di fatti non deve mai farsi trasportare da eccessi giuridicamente garantisti né tantomeno giustizialisti.

Per cui, vale la pena attendere il decorso delle formalità processuali di rito. Sarebbe parimenti evidente che un approccio troppo permissivista al problema darebbe il destro ai veri disonesti di trovare zone franche nel sistema, nel quale annidarsi e proliferare la propria attività disonesta. É opportuno ri-depenalizzare legislativamente la materia de qua? Già negli anni ’80 il legislatore sportivo s’era mosso in tal senso. A questa domanda dovrebbero saper rispondere le autorità (in)competenti, la cui irritante reticenza e totale sordità a riforme adeguate, nel doping e nella giustizia dello sport in generale, costituiscono il vero male che ammorba lo sport italiano.

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