Tennis Diaries (Puntata 5)

di Luca Brancher

Tennis champions are made, not born. I campioni si possono costruire, non nascono per disposizione divina.

Io ne ho sentite dire di ogni tipo, da quando seguo il tennis, che un top-100, in fondo, lo puoi creare seguendo, dentro e fuori dal campo, un giocatore sin dai suoi primi passi nell’attività agonistica, che la capacità di una federazione è determinata dal numero di giocatori di un certo livello che riesce a produrre, non tanto da quanti campioni sforna, perché questi ultimi, insomma, possono essere dei regali che il Creatore dispensa a fortunate nazioni, non possono essere fabbricati in una qualche accademia del tennis. E se Boris Becker fosse nato a Merano, se Federer fosse nato poco più a Sud e quant’altro…L’Italia ora? I campioni, quelli veri, sono calati dall’alto, ma i buoni giocatori possono essere costruiti. Io, ad essere onesto, questo concetto l’ho sentito dire in mille maniere differenti, ma sempre questo rimaneva. Non sapevo che, tutte le volte che veniva ripetuta, quella frase, nelle sue migliaia di declinazioni, tradiva il principio cardine della vita tennistica di un personaggio influente del tennis yankee del XX secolo, morto, a 88 anni, nel 1994: Dick Skeen.

Dick Skeen (nella foto a sinistra) rimane un personaggio ineguagliabile nella gerarchia del tennis a stelle e strisce e, senza esagerare nella sua rappresentazione, potremmo quasi definirlo uno dei padri fondatori, dal momento che ha impartito lezioni a giocatori che sono poi andati a dominare il mondo; spinto da questo, nel 1940, ha composto l’opera che porta il titolo proposto come incipit di questo articolo. I campioni non nascono tali, si costruiscono. Frase sicuramente forte e d’impatto, ma che a rileggere la vita di Skeen non è nemmeno così campata in aria od esagerata. Nei primi anni ’30, per esempio, quando stava per fare il suo esordio sul circuito internazionale, ma di stanza stava al L.A. Tennis Club, si vide arrivare un ragazzino da Las Vegas, Nevada, che dopo diversi tentennamenti comprese di avere la passione e la voglia per fare del tennis la sua vita. Non appena lo visionò, Dick decise di cambiare la sua impugnatura e di sporcare un pochino i suoi movimenti classici, inserendo maggior spin. Nel giro di qualche mese questo giovincello si sarebbe laureato campione nazionale under-15 in Indiana – siamo nel 1936 – ma soprattutto, 11 anni più tardi, come spesso ricordato e citato da Rino Tommasi, avrebbe dominato il tennis mondiale come mai nessuno era stato in grado di fare in precedenza, o avrebbe fatto successivamente, cedendo appena 37 giochi nella sua corsa solitaria verso il titolo a Wimbledon. Stiamo naturalmente parlando di Jack Kramer, anche lui morto ad 88 anni, nel 2009, il cui palmares non lo celebra a sufficienza, vuoi per la II Guerra Mondiale, vuoi per la suddivisione professionista-amatore che gli impedì di prendere parte ad un grandissimo numero di prove dello Slam.

C’era poi una bambina dell’Oklahoma che a 4 anni, e ci collochiamo quindi nel 1927, con la famiglia si trasferì a Bervely Hills e cominciò a prendere lezioni da Dick, che le insegnò un gioco sommariamente classico, con un’arma segreta, un servizio in kick che non aveva eguali negli anni ’40-’50. Questa tennista avrebbe in seguito portato a casa qualcosa come 35 titoli dello Slam tra singolo e doppio, fallendo il Career Grand Slam nella disciplina più ambita solo per essersi fermata, in tre occasioni, nelle semifinali dell’Open parigino, mentre a Wimbledon, oltre ai 4 titoli in singolo ed ai 5 in doppio, si fregia di essere stata protagonista, tra il 1946 ed il 1955, in 21 delle 30 finali disputate nelle tre discipline in cui una donna può gareggiare. Giocatrice longeva e tutt’ora viva, a 90 anni suonati, stiamo parlando di Louise Brough (nella foto a destra), altro prodotto di Dick, così come Frank Kovacs, figlio di profughi ungheresi, che a differenza di Kramer e Brough (o Brough Clapp) non deve la propria fama ai titoli conquistati, per quanto fosse un giocatore altamente competitivo – sia Skeen sia Kramer lo hanno definito il giocatore col più bel rovescio che abbiano mai visto – ma alle sue uscite estemporanee in campo che lo hanno reso uno dei giocatori più eccentrici della storia di questo sport. Per esempio, in occasione di un match point, servì tre palle per aria, andando a colpire quella centrale, con la quale mise a segno un ace, oppure non mancava, qualora il suo avversario lo mettesse k.o. con una giocata degna di nota, di correre tra il pubblico per tributargli un applauso, fino a, per giustificare la pesantezza di alcune palline, strappare coi denti la pellicina in eccesso e masticarla come fosse un chewing-gum. Tutta questa teatralità lo ha però distratto da quello che doveva essere il suo compito principale in campo, ovvero vincere le partite, tanto che Frank verrà ricordato come un giocatore che ha raccolto sicuramente meno di quanto avrebbe potuto, perché non pensava alla strategia per vincere un punto, finendo immancabilmente sorpreso dall’avversario, pur meno dotato. Sotto le sapienti mani di Dick Skeen, però, passarono non solo futuri campioni di questo sport, ma anche altri personaggi famosi, ovvero quelli che lavoravano poco distante dal circolo di Dick e, tra una pausa e l’altra, si dilettavano nella pratica di questa disciplina. Gente come Errol Flynn, Gary Cooper, Cary Grant o Kirk Douglas, ovvero gli attori che hanno reso grande Hollywood.

Robert “Bob” Addie è stato, nella storia del giornalismo sportivo americano, uno dei cronisti più fedeli ad una squadra, nel suo caso i Washington Senators della MLB. Quando nel 1961 lasciarono la città per andare a stabilirsi in Minnesota, Bob fu “salvato” dalla creazione di una secondo team, eccezionalmente chiamato come il precedente, sempre Senators, ma quando anche questi ultimi, nel 1971, decisero di abbandonare la capitale americana per volare verso il Texas, il povero Bob, dopo 20 anni in cui mai si era sognato di mancare una singola battuta, si ritrovò senza la squadra di cui conoscevo tutto, dalla vita dei giocatori agli aneddoti più stravaganti, e cominciò così ad interessarsi ad altri sport, come il golf. Bob Addie ha una figlia, che diventerà famosa come poetessa mutando però il suo cognome in una versione più italianeggiante, ovvero Addonizio, Kim Addonizio, che oltre ad aver scritto versi è anche la madre di una giovane attrice di film di seconda fascia e di sfortunate serie televisive, Aya Cash. Bob, Kim ed Aya sono inoltre rispettivamente il marito, la figlia e la nipote di Pauline Betz, recentemente scomparsa, una delle tenniste più rappresentative degli Stati Uniti della metà dello scorso secolo: anche lei, come Kramer, come Brough, fu iniziata alla pratica da Dick Skeen. Nata nel 1919 a Dayton, nell’Ohio, Pauline Betz (nella foto a sinistra) si ritirerà, o meglio passerà al professionismo all’inizio del 1947, mettendo fino a quel momento in cascina cinque prove del Grande Slam, 4 negli Stati Uniti e l’edizione del 1946 di Wimbledon. Pauline viene però ricordata negli annali per un altro motivo, accaduto nella finale del Tri State Champion del 1943 – l’anno in cui avrebbe confermato il primo titolo di campionessa degli US Open ottenuto la stagione precedente – manifestazione che ricalca, per importanza e ambientazione, l’attuale torneo di Cincinnati. Pur giocando contro una tennista del calibro e dell’esperienza di Catherine Wolf – cinque volte campionessa nella Queen City – Pauline mise a segno il primo golden set della storia, ponendo fine alla contesa con un perentorio 6-0 6-2: unico caso di set “netto” vinto prima dell’avvento dell’Era Open. Successivamente, come abbiamo imparato a conoscere, ci sarebbe riusciti anche Bill Scanlon e Yaroslava Shvedova, ai danni della nostra Sara Errani, meno noto è quello che vide invece protagonista la danese Tine Scheuer-Larsen ai danni dell’atleta dello Botwsana Mmaphala Letsatle, ma si trattava di un incontro della Zona Euro-Africana di Fed Cup.

Quattro sporadici casi negli ultimi 70 anni danno l’idea di quanto il golden set nel tennis sia un avvenimento perlopiù casuale, o quantomeno non preventivabile. Per quanto ci possa essere divario, è difficile pensare che il più forte non commetta alcuna una sciocchezza o il giocatore meno dotato non metta a segno nemmeno un vincente. Se tante volte, quando in presenza di un avversario che non può minimamente consentire una minaccia, ci si crogiola nel decidere se, una volta avanti, sia meglio concedergli un gioco oppure finirlo senza alcuna pietà – che si lega al “fermarsi o meno” del calcio quando c’è il preludio ad una copiosa goleada – la possibilità di lasciare senza un 15 il proprio avversario non è minimamente presa in considerazione, perché le variabili, per ottenere un simile scalpo, sono a tal punto numerose che non basta giocare nettamente meglio per accarezzare l’idea di avvicinarsi a questo traguardo. E’ singolare che possa accadere quanto capitato lo scorso anno a Yaroslava Shvedova contro Sara Errani, che, in un quarto d’ora di tennis pazzesco, mise a segno 14 punti vincenti e non diede praticamente la possibilità alla romagnola di controbattere, dato che gli errori dell’azzurra si fermarono clamorosamente ad 1. Un caso, che non può nemmeno fare luce sulle differenti potenzialità delle due atlete in campo, dato che nel secondo set, pur vinto dalla kazaka per 6-4, la Errani era presto salita 2-0, dando tutt’altra linfa all’intera partita. Uno scenario analogo è stato vissuto dal tedesco Julian Reister nel challenger di Como 2012, contro l’elvetico Yann Marti: vinta la prima partita col parziale punti di 24 a 1, Julian per poco non fu sorpreso dall’avversario, che lo costrinse al tie break nel secondo set, andando molto vicino ad allungare la contesa. Comunque vinta. Ma è pure capitato che qualcuno perdesse, dopo un largo dominio.

Memphis 2006. Secondo turno della Cellular South Cup: Amy Frazier, testa di serie numero 6, viene tramortita all’inizio dell’incontro da una giocatrice est-europea, che si aggiudica i primi 23 punti. Avanti 5-0 40-0, col servizio a favore, questa ragazza, dopo aver sbagliato la prima palla, decide di forzare la seconda, per portare a casa il punto. Probabilmente non si era resa conto di essere molto vicina ad un’impresa storica, per cui rischia tutto senza remore. Doppio fallo. Il gioco lo perderà, ma riuscirà comunque a portare a casa il set per 6-1. Un’occasione fallita, di cui probabilmente è venuta successivamente a conoscenza, anche se a rendere stupefacente la situazione è che da quel momento in poi la nostra protagonista uscirà completamente dall’incontro, chissà se abbattuta per il mancato record ottenuto, e non racimolerà più un singolo gioco. Per sua fortuna, però, dovrà attendere poco più di 6 anni per ottenere il riservatissimo titolo, perché quella tennista est-europea altri non era che Yaroslava Shvedova (nella foto a destra). I campioni si potranno costruire, come diceva Dick Skeen, ma le attitudini per portare a casa certe imprese probabilmente le devi sentire dentro, non te le insegna mica nessuno.

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