Martin Klizan, talento sopraffino e (troppa) sincerità

Martin Klizan
(Martin Klizan – Foto Ray Giubilo)
di Francesco Calzetta

Che il tennis non sia più uno sport per bambini prodigio l’ha detto, di recente, anche Novak Djokovic, dominatore del circuito mondiale e ultimo enfant prodige della storia del tennis. Secondo il campione serbo, stuzzicato in proposito durante una conferenza stampa all’Australian Open, il motivo è in fondo semplice: il tennis è uno sport in cui i dettagli fanno la differenza, e in un’epoca in cui la competizione è alle stelle, e tutti sono alla ricerca del particolare che li faccia volare in campo e in classifica (basti pensare che lo stesso Djokovic ha dato la svolta alla sua carriera cambiando dieta, n.d.r.), il talento non è che il pezzo di un puzzle più ampio. Serve spessore fisico, esperienza, continuità, serietà professionale, capacità di gestire la pressione, i media, le proprie debolezze. Essere un campione in quest’epoca, secondo il suo prodotto più fulgido, non è più solo una questione di avere buoni colpi.

Doveva ignorare tutto ciò Martin Klizan, quando, sedicenne di belle speranze, fresco vincitore dei Campionati europei juniores, al culmine della gioia dichiarava: “è incredibile vedere il mio nome vicino a quello di Stefan Edberg e Mats Wilander (passati vincitori dei Campionati, n.d.r.), magari il prossimo a farcela sarò io, perché no?”.

Perché il tennis non è più lo sport dei Chang, Becker e Nadal, e Martin, che dopo i Campionati europei ha vinto anche il Roland Garros junior nel 2006, ed è stato numero uno del mondo fra i “piccoli”, è uno dei tanti che, una volta passato professionista, ha dovuto imparare questa dura verità sulle propria pelle.

Nato a Bratislava l’11 luglio 1989, dicono di lui che abbia iniziato a giocare a tennis a 3 anni, quando, con una racchetta di plastica e una palla di spugna, disputava incontri interminabili contro la porta di camera sua. Il padre, più per tornare a dormire serenamente che per rincorrere il sogno di avere un figlio campione, lo porta allora a giocare su un campo di fronte casa, dove con palle e racchetta veri Martin comincia la sua scalata verso la vetta del tennis mondiale.

Dopo quell’estate 2006 piena di sogni e speranze adolescenziali, Klizan esordisce nel circuito pro nel 2007, e la difficoltà della competizione gli si presenta subito in tutta la sua dimensione. Il giovane slovacco s’infortuna a un polso e ha dei problemi di postura che gli comportano fastidiosi dolori ai piedi (li risolverà adottando un particolare tipo di plantare), e nonostante nella prima stagione fra i grandi arrivi anche qualche risultato nei tornei minori (semifinale a Kosice, quarti a Lexington), e la prima partita vinta in un torneo ATP (a Washington, contro Kostantinos Economidis), il biennio 2007-2008 è complessivamente avaro di soddisfazioni, come dimostra la posizione numero 633 nel ranking ATP alla fine del 2008.

Fra il 2009 e il 2011, pur senza attirare particolarmente l’attenzione del grande pubblico, Klizan fa passi importanti nella sua carriera, vincendo i futures di Stupava (2009), Bolzano (2009), Casablanca (2010) e Meshref (2010), i challenger di Bratislava (2010) e Genova (2011), qualificandosi per la prima volta al tabellone principale di un torneo del grande Slam, lo US Open 2010, dove è sconfitto al primo turno da Juan Carlos Ferrero, e facendo la sua prima apparizione fra i primi 100 del mondo, anche se per poche settimane, fra settembre e novembre 2011.

Dopo cinque anni di progressi silenziosi lontano dai riflettori, nel 2012 Klizan piazza il suo primo acuto nei tornei che contano: forte di altri quattro challenger vinti (Rabat, Marrakech, Bordeaux e San Marino), e del primo match vinto in una prova del Grande Slam (11-9 al quinto contro Juan Ignazio Chela al primo turno di Wimbledon), ad agosto Martin raggiunge il quarto turno allo US Open. Sul suo cammino incontra prima Alejandro Falla, regolato in tre set, poi la testa di serie numero sei Jo-Wilfried Tsonga, che sarà il primo top ten battuto da Klizan nella sua carriera, poi ancora Jeremy Chardy, altra testa di serie, fatta fuori in tre set, e in fine Marin Cilic, che pone fine alla sua avventura nel torneo, ma non alla sua ambizione.

Della partita con Tsonga, lì per lì Martin riuscirà a dire che per lui non era stato affatto stressante affrontare un top ten, ma che era riuscito a rimanere concentrato su se stesso, e che aver raggiunto il quarto turno in un torneo del Grande Slam rappresentava l’unico vero fatto esaltante di quella giornata.

Niente male per un perfetto sconosciuto, ed è così che Martin, mentre ancora stenta a stabilizzarsi fra i primi 100 del circuito ATP, comincia a farsi conoscere per un’altra sua dote spiccata, tipica della gente della sua terra, un po’ meno del mondo del tennis: la tendenza a pensare di testa sua, e a dire quello che vuole.

Sempre nel 2012, per fare un esempio, nel corso di una sessione online di domande e risposte con i frequentatori del suo sito web personale (che oggi è chiuso, chissà se anche per questo), Martin scrive che mentre era sicuro che Djokovic fosse “kosher” (da intendersi come “pulito”), altrettanto non poteva dire di Rafa Nadal. Apriti cielo: la traduzione del suo intervento rimbalzò in un attimo in tutto il web, tanto che lui fu costretto a pubblicare, immediate, scuse e smentita di rito, ove si salvava in corner affermando che le sue erano state affermazioni generiche, estrapolate da un contesto in cui avevano un senso diverso, e che comunque non aveva mai usato le parole doping o droga.

Un battesimo interessante del modo in cui bisogna ponderare le parole nel mondo del tennis professionistico, ma una lezione che Martin, come vedremo, non ha avuto alcuna intenzione di imparare: un paio di anni dopo, quando evidentemente aveva preso maggiore confidenza con l’ambiente, affermò in un’intervista che i giocatori oltre la soglia dei primi cento del mondo sono “keen gamblers” (letteralmente, acuti scommettitori). Ancora un’affermazione poco meditata per gli usi del circuito, non per lui che da piccolo sognava di fare il poliziotto, e quando ha in mente una cosa la vuole dire.

Tornando al tennis, sempre al 2012 risale una dei momenti più simbolici della sua carriera, la vittoria nel torneo ATP 250 di San Pietroburgo, avvenuta in settembre, che sarà la sua prima vittoria in un torneo maggiore, ma soprattutto la prima vittoria da parte di uno slovacco in un torneo ATP, dopo quella di Dominik Hrbaty a Marsiglia nel 2004. A fine stagione Klizan è numero 30 del mondo, viene nominato dai colleghi “Outcoming player of the year”, e i suoi sogni sono pronti per diventare realtà.

Dal punto di vista tecnico Klizan è un giocatore difficile da inquadrare: mancino, alto e dotato di lunghe leve, il suo servizio non è tuttavia un colpo particolarmente efficace, come lui stesso afferma quando gli si chiede quali aspetti del suo gioco intenda migliorare, mentre il dritto è un fondamentale con cui, quando è nel flusso giusto, può fare la differenza contro chiunque. Nella recente semifinale di Rotterdam, contro Nicolas Mahut, è stato calcolato che una sua accelerazione di dritto abbia raggiunto la velocità di 186 km/h. Come una prima di servizio. Complessivamente dotato dal punto di vista tecnico e dell’estro (gioca spesso la palla corta anche di dritto), rovescio e volée sono anch’essi colpi su cui Martin deve tuttora migliorare, ma la caratteristica saliente del suo gioco, avercene di giocatori così, è la personalità che dimostra nei momenti caldi delle partite, unita alla tenacia e alla capacità di non mollare mai. Non è un giocatore continuo, tutt’altro, ma quando vuole sa dare battaglia anche a chi gli è superiore.

Queste sue caratteristiche non emergono nel 2013, l’anno del gambero nella sua carriera, dove non vince alcun torneo, si fa di nuovo male al polso, ed esce addirittura dai primi cento, ma gli torneranno utili nel momento di ricominciare, nel 2014, la scalata alle zone della classifica che sente di valere.

In Australia perde nelle qualificazioni, ma viene ripescato e arriva fino al terzo turno, e a Monaco di Baviera, nel mese di maggio, vince il suo secondo titolo ATP 250, dopo un percorso lunghissimo partito dalle qualificazioni, durante il quale ha saputo battere Youzhny e Haas, che allora erano numero 16 e 17 del mondo, e in finale Fabio Fognini, sua vittima già nella finale di San Pietroburgo 2012. Con questo risultato, Klizan rientra definitivamente nei primi cento del mondo.

Qualche mese più tardi, a Pechino, ottiene un risultato clamoroso, raggiungendo per la prima volta le semifinali in un torneo ATP 500, ma soprattutto battendo sua maestà Rafael Nadal (si, quello meno “kosher” di Djokovic, chissà se il maiorchino, in quel frangente, c’avrà pensato) nei quarti di finale, permettendosi anche di farlo rimontando un set di svantaggio.

Sempre a Pechino, stavolta nel 2015, Martin torna anche a mettere in mostra le sue doti di pensatore indipendente: in una settimana di polemiche dovute ai malesseri causati dagli alti livelli di smog ad alcuni giocatori, fra cui Eugenie Bouchard e Jo Wilfried Tsonga, che tuttavia non attribuirono pubblicamente all’aria irrespirabile la causa delle loro sconfitte, Martin decide invece di andarci giù pesante, comparendo con una maschera antigas in una foto su un suo profilo social, e affermando che, dopo aver vomitato la notte successiva al match perso con Fognini al primo turno, aveva deciso di non tornare più a Pechino, per tutelare da solo la propria salute, visto che all’ATP non importava niente.

La reazione dell’ATP, che ha un suo protocollo sull’uso dei social network da parte dei tesserati, comprensivo di multe a cinque zeri e squalifiche, non dev’essere stata positiva, e la foto e la relativa invettiva sono durate ben poco sulla pagina di Klizan. Martin, incapace di darsi per vinto, trovò comunque il coraggio di dire che la sparizione della foto e dei relativi commenti rappresentava il suo adeguamento al regime imposto dall’ATP. Esatto, regime.

Un rapporto particolare, come tanti appartenenti a Stati di recente formazione, Klizan ce l’ha con la sua patria, e quindi con i suoi illustri predecessori, da Karol Kucera, che è stato suo coach, a Miloslav Mecir e Dominik Hrbaty, e con la Coppa Davis. La mancanza di questi sentimenti in alcuni suoi compagni di squadra, evidentemente, non è qualcosa che va giù a Klizan, che nel 2014, dopo la sconfitta per 5-0 della squadra slovacca contro quella americana, nel play-off per risalire nel Gruppo mondiale, si rende  protagonista di un pesante sfogo che scuote tutto l’ambiente in Slovacchia, proveniente com’era dall’attuale numero uno del paese.

Martin KlizanKlizan rivela al quotidiano slovacco Sport che nella squadra di Coppa Davis c’erano giocatori che vivevano la competizione come una gita, che non avevano un minimo di professionalità, e che il capitano Mecir, che in Slovacchia è una gloria nazionale, avendo raggiunto due finali Slam ed essendo stato numero sei del mondo da giocatore, era consapevole di tutto ciò ma rimaneva indifferente. Martin rincara la dose, affermando che nella Federazione dominava il pressappochismo, che le strutture e le metodologie erano le stesse di dieci anni prima, e che fra i giocatori regnava la rivalità e la gelosia, anziché l’unione imprescindibile per essere una squadra.

La tenacia con cui Klizan difende le proprie idee non è una caratteristica isolata del suo carattere, ma si sposa perfettamente con la sua attitudine in campo, dove è stato spesso in grado di realizzare rimonte incredibili.

La famiglia di Martin non è la famiglia di Nadal, per dire, niente zio nazionale di calcio o motivatore nato: suo padre è il general manager di una compagnia di apparecchi elettronici, sua madre un’insegnante d’Inglese, sua sorella studia, e lo stesso Martin, oltre che il nostro protagonista, è uno che parla cinque lingue, e quando gli hanno chiesto cosa pensasse del fatto che per il tennis avesse dovuto abbandonare il liceo, ha risposto che l’istruzione non serve a diventare un campione dello sport, ma un po’ d’istruzione aiuta.

Eppure in famiglia un campione dello sport c’è, ed è suo cugino Radovan Kaufman. Più vecchio di lui, nel 1994 ha perso una gamba per un cancro, ma avuta salva la vita si è tuffato nello sport, ed è diventato campione paralimpico di ciclismo su pista a Sidney 2000, e detentore del record del mondo sul chilometro a cronometro.

Qualcosa di legato allo sport e alla capacità di non arrendersi c’è eccome, quindi, nel DNA della famiglia di Klizan, e Martin sembra averne ereditato qualche stilla. Non è un Ferrer, l’abbiamo detto, ma quando si mette in testa che la partita non è finita, sa tirare fuori il meglio di sé.

E allora, non senza aver ricordato il suo terzo successo in un torneo ATP su altrettante finali, ottenuto nel 250 di Casablanca nell’aprile del 2015, arriviamo alla cronaca di questo febbraio 2016, quando Martin ha dovuto ricorrere a tutto quello che aveva dentro per vincere il suo primo ATP 500.

Sul cemento indoor di Rotterdam, Klizan supera Tommy Robredo al primo turno in tre set, e Marcos Baghdatis al secondo, nell’unico match vinto in due set del suo torneo. Ai quarti perde il primo parziale contro Roberto Bautista Agut, e dopo aver annullato allo spagnolo cinque match point, si aggiudica il secondo al tie-break. Ristabilita la parità dopo aver rischiato l’eliminazione, Martin dilaga, e vince il terzo 6-0. In semifinale, il copione si ripete: primo set lottato con Nicolas Mahut, tre match point annullati nel secondo, vinto al tie-break, e show finale nel set decisivo, 6-2. In finale c’è Gael Monfils, numero sedici del mondo e recente protagonista di un ottimo Australian Open, e il francese vince al tie-break il primo set, contro un Klizan contratto e falloso. La sceneggiatura della settimana appare però fin troppo scontata, e ancora una volta, sull’orlo della sconfitta, dopo aver annullato tre palle break nel game d’apertura del secondo set, Klizan, che quel giorno si era presentato al sorteggio con la maglia di Capitan America, si trasforma nella macchina da colpi vincenti che era già stato nelle fasi conclusive dei match precedenti, e in barba alla fatica, alternando spaventose bordate di dritto a soluzioni di pura fantasia come alcune palle corte del tutto imprevedibili, strapazza il francese 6-3 6-1.

La scena è sua, e Martin, lo sappiamo, è uno che parla volentieri. Al pubblico racconta di come lui sia abituato a non mollare mai, e che se lo vedono scherzare in campo non devono fraintendere: lui è sempre concentrato. Il suo prossimo obiettivo è alzare ancora l’asticella, e perché no, puntare a vincere un Masters 1000. Quanto ai soldi del premio del vincitore, che rappresentano il più importante guadagno della sua carriera sin ora, il loro destino non è di finire in banca. Completando il suo show, Klizan dichiara senza dubbi: me li gioco al Casinò. Tutti ridono, e a Klizan piace così, ma di sicuro, quando dice di voler puntare a vincere un Masters 1000, non lo fa scherzando.

Il tennis non è più uno sport per bambini prodigio, e Martin Klizan, che a forza di piccoli progressi, grandi rimonte, ed entratacce sui temi scottanti del mondo del tennis, ha vinto il suo primo ATP 500 al decimo anno da professionista, sembra uno che ha saputo adattarsi ai tempi. E c’è un particolare da non sottovalutare: a ventisei anni, Martin è solo a metà della sua carriera, e ora che conosciamo il suo percorso di crescita, se fossimo “keen gamblers”, qualcosa su una sua ulteriore ascesa dovremmo mettercela.

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