Gigi Oliviero, l’uomo che filmò la Davis

Estratto dal libro ‘1976, Storia di un trionfo’ (ed. Ultra Sport, acquistabile QUI) di Alessandro Nizegorodcew e Lucio Biancatelli

Ci vogliono 23 ore di volo per arrivare a Santiago. Ma la squadra azzurra ha impiegato 76 anni per raggiungere la più celebre, la più ambita insalatiera del mondo”. La voce calda di Pino Locchi, il doppiatore di Sean Connery, ci porta in quell’avventura di quaranta anni fa con le immagini girate in pellicola da Gigi Oliviero. E’ un documento eccezionale quello del regista campano, grazie al quale abbiamo oggi le uniche immagini filmate di quella finale di Coppa Davis, montate e musicate ad arte. L’arrivo, i tifosi cileni, i nostri in allenamento e a pranzo (con le mogli sedute in un altro tavolo…), l’atmosfera colorita dello stadio, gli inni nazionali, il punto della vittoria sul quale è montata la voce rotta dall’emozione di Mario Giobbe, che per il GR2 commentava in diretta quel momento storico. Oliviero segue i nostri tennisti e il capitano Pietrangeli in ogni circostanza possibile: nel relax a bordo piscina, persino nel pullman che li porta allo stadio. Insomma, quasi un reality ante-litteram. La storia di questo documentario, e di un giovane e intraprendente filmaker che nel 1976 si autofinanziò viaggio e attrezzature, è tutta da raccontare.

Gigi Oliviero
Gigi Oliviero

Ma chi è Gigi Oliviero? E come si è ritrovato a Santiago del Cile al seguito della nazionale azzurra di Coppa Davis? Una famiglia di artisti, creativi, alla continua ricerca del bello e dell’innovazione. Nino Oliviero, padre di Gigi, è stato uno dei musicisti italiani più noti negli Stati Uniti, candidato all’Oscar nel 1964 con il famosissimo brano “More” per la colonna sonora originale del film ‘Mondo Cane’, nonché autore di numerose canzoni napoletane di successo. Gigi, ispirato dalla figura paterna, cresce e respira fin da ragazzo l’atmosfera del mondo dello spettacolo: è regista di film e documentari oltre ad essere diplomato in pianoforte al Conservatorio di Napoli. Esperto di riprese subacquee, si è specializzato negli anni anche nel settore del turismo, collaborando a lungo con la RAI. Negli anni ’70, dal nulla, racchette e palline entrano prepotentemente nella sua vita.

Il mio rapporto col tennis è nato per puro caso – racconta Oliviero – grazie al mio amico Tonino Rasicci, all’epoca direttore della Scuola maestri della Federazione Italiana Tennis. Tonino mi propose di girare una sorta di enciclopedia tennistica che fosse in grado di raccontare e spiegare la disciplina tramite immagini. La prima puntata, dedicata al diritto, fu girata in 16 millimetri e distribuita in Super 8, che era l’unico formato utilizzabile, all’epoca, per riprodurre i video in casa”. È il 1976, Oliviero ha 30 anni, e il destino vuole che proprio in quel periodo stia per capitare un’occasione unica per il mondo del tennis italiano: la finale di Coppa Davis a Santiago del Cile. La RAI non avrebbe mandato le proprie telecamere “così decidemmo di sfruttare questa imperdibile opportunità e recarci in Sudamerica. Le spese da affrontare, tra viaggio, vitto, alloggio e attrezzature, erano davvero elevatissime e alla fine fui solo io a partire”. Oliviero porta con sé la fidata (ma pesantissima) cinepresa Arriflex, con tanto di cavalletto, e solamente 1.000 metri di pellicola. “In pratica avremmo avuto la possibilità di girare immagini per un totale di un’ora e mezzo. Il mio compito era particolarmente arduo, ma allo stesso tempo ricco di adrenalina, poiché non potevo sprecare un singolo minuto di pellicola. Ricordo che rimasi venti minuti per decidere se riprendere o meno un giardiniere che stava lavorando nei pressi dei campi di allenamento”.

Dopo 24 ore di viaggio è finalmente l’ora di atterrare a Santiago del Cile. L’impatto con la popolazione, soggiogata ormai da 3 anni di dittatura del generale Augusto Pinochet, fu traumatico. “Il tassista che mi portò dall’aeroporto all’albergo, appena saputo che ero un giornalista italiano, iniziò a raccontarmi dei massacri perpetrati verso il popolo cileno, della situazione drammatica che stavano vivendo dal 1973, pregandomi poi di raccontare tutto ma solamente una volta tornato in Italia. Se avessi parlato prima, mi spiegò, lo avrebbero fatto sparire. Nei suoi occhi leggevo il terrore più puro”. Santiago del Cile accoglie la squadra azzurra e i giornalisti al seguito come nulla fosse, cercando, anzi, di far apparire la città per ciò che non era: sicura, tranquilla, serena. “Vivevamo nel quartiere più bello, serviti e riveriti, ma tutti noi cogliemmo il momento disperato di Santiago e il grido d’aiuto, soffocato, del popolo cileno”. Oliviero segue i giocatori, Belardinelli, Pietrangeli e le relative compagne in ogni momento della giornata, dalla colazione sino agli allenamenti, passando per i simpatici siparietti nella piscina dell’hotel che, essendo periodo natalizio, vede troneggiare un abete finemente addobbato a festa. Ma la curiosità è tanta e una sera, chiacchierando con alcuni giovani del luogo, Oliviero decide di lasciare l’albergo per cena. “Ero riuscito, non so come, a ‘rimorchiare’ una ragazza cilena di una bellezza incredibile, un vero capolavoro. Mi passò a prendere la sera, insieme alla madre e alla sorella minore, con un’automobile lussuosissima. Mi dissero di portare un mio amico per non lasciar sola l’altra ragazza e, dopo una conta tesissima, la riffa fu vinta da uno spagnolo. Non mi pareva vero, sembrava tutto così semplice”. Pochi istanti dopo essere saliti in macchina la ragazza si rivolge a Oliviero: ‘Adesso andiamo a casa così ti presento mio papà’. “E io che volevo solamente andare a cena fuori, mi ritrovai quasi promesso sposo. La casa di questa famiglia era in quella che potremmo definire la ‘Santiago bene’ e il padre, amante della musica napoletana, si innamorò di me quando scoprì che alcuni dei suoi dischi preferiti erano di mio padre. Poco dopo accompagnò noi quattro ragazzi in un locale dicendoci che sarebbe tornato a prenderci alle 2, dato che alle 2.30 sarebbe scattato il coprifuoco”.

Il docu-film di Gigi Oliviero è intenso, emozionante, riesce a trasmettere le sensazioni all’interno dell’Estadio Nacional. Le immagini sgranate danno quel tocco in più di storia, di momento unico e irripetibile. La voce di Pino Locchi e le musiche di Nino Oliviero impreziosiscono questo vero e proprio gioiello della cinematografia e della documentaristica. “È uno dei lavori a cui sono più legato, insieme a ‘I record nel silenzio’ su e con il grande apneista Enzo Majorca, e rivederlo mi riporta indietro negli anni. Ricordo che fu una sorta di impresa, perché riprendere il tennis, quando hai a disposizione appena un’ora e mezzo di pellicola, è praticamente impossibile. E non potevo permettermi di arrivare al match point senza spazio a sufficienza per girare. Io il materiale devo portarlo a casa, sempre, e così ho fatto”. Il film riesce a far vivere l’emozione del viaggio in pullman verso l’Estadio Nacional, l’appassionato tifo cileno sugli spalti, i sorrisi, la tensione, l’inconfondibile voce di Mario Giobbe, la coppa, gli abbracci, la vittoria finale, senza dimenticare le scene di tennis, dal nervosismo di Barazzutti nei primi giochi contro Fillol, alle volée di Panatta sino al doppio decisivo con Bertolucci protagonista. “La partita fu piuttosto semplice e anche i cileni sapevano di avere pochissime possibilità di vittoria. Non sono riuscito a godermi lo spettacolo tennistico perché ero intento a portare a casa le immagini necessarie per il film. Se avessi avuto la telecamera 4K di oggi avrei girato Avatar in confronto, ma probabilmente il bello di questo documentario è proprio tutto quello che vi è dietro, le immagini non eccezionali, la voglia di emergere di un giovane e appassionato regista, il tennis”.

Mentre Mario Giobbe urla in radiocronaca ‘Momenti di emozione a Santiago, l’Italia ha vinto la Coppa Davis!’, Oliviero si precipita in campo per riprendere le immagini del trionfo, noncurante di aver lasciato la sua macchina fotografica Laica ed altri oggetti sulle tribune. “I cileni sono simili ai miei concittadini napoletani. Pensai: e adesso che ci ritrovo? Mi catapultai ugualmente in campo, perché non sarò il miglior ‘cinematografaro’ del mondo, ma di sicuro sono uno vero. Scavalcavo le reti, mi precipitavo ovunque vi fosse una scena importante da riprendere, per fermarmi dovevano spararmi con una 44 magnum”. Sulle immagini dei festeggiamenti si perdono le note di ‘Je M’en Fu’, altro brano di Nino Oliviero tratto dalla colonna sonora di ‘Mondo Cane’, e scorrono i titoli di coda. Gli occhi di Gigi sono emozionati ed emozionanti, lo sguardo è vivo e allo stesso tempo assorto, come se per alcuni istanti fosse tornato lì, all’Estadio Nacional, ad inseguire i giocatori, a “rubare” momenti di vita e di storia a quei quattro grandissimi campioni. “Sicuramente non è stato il lavoro più importante della mia carriera – chiosa Oliviero – ma questo film rappresenta un momento indimenticabile, un pezzo di cuore, che porterò con me per sempre”.

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