Tanto non cambia nulla

Iperandrogeno è la parola del momento. Lo è diventata in questi giorni, quando il Tas di Losanna ha dato torto a Caster Semenya stabilendo che, per gareggiare nelle categorie femminili, dovrà prima sottoporsi ad un trattamento ormonale. Una decisione che ha provocato come immediata conseguenza un mezzo annuncio di ritiro da parte dell’atleta sudafricana, non si sa quanto dettato dalla rabbia e quanto lucido.

La parola “iperandrogeno” è odiata da molti perché ha una colpa: secondo molti spersonalizza la questione, riduce tutto a una questione scientifica e facendo dimenticare il fatto che in gioco ci sono persone, atlete pulite che vedono limitato il proprio diritto a competere. Io la vedo nel modo opposto: per me quella parola restituisce alla scienza ciò che è della scienza ed era stato usurpato dalla politica.

Un bignami per chi non ha seguito la vicenda: la Semenya è una delle migliori della storia nel mezzofondo femminile. Guardando la top 25 storica della specialità si nota che gran parte dei tempi risalgono a decenni fa: atlete dell’est ai tempi in cui andavano come un Booster truccato, dopate conclamate, qualche fenomeno come la Quirot. E poi loro. Loro chi? Beh, le atlete iperandrogene: ragazze con un livello di testosterone naturale molto alto, che non usano trucchi ma vanno mediamente più forte. Tanto più forte.

Colpe non ne hanno e umanamente meritano solidarietà: si trovano a pagare per una condizione naturale e tutto ciò stride col concetto di sport. Forse un Bubka o un Bolt sono mai stati esclusi perché troppo più forti degli altri? Siamo mica ai tempi di Binda che veniva pagato per non correre al Giro d’Italia? Eppure il problema è esteso e va affrontato, a mio avviso, in maniera lucida e se necessario anche cinica.

Nello sport ci sono le categorie: ciò che origina queste divisioni è l’idea di accorpare gruppi di persone che possano competere tra loro. Uomini e donne non corrono la maratona insieme, perché il primato mondiale femminile non sarebbe valso la top 20 maschile alle Olimpiadi di Rio. Troppa differenza. Allo stesso modo gli juniores non corrono con gli adulti e i portatori di handicap hanno le loro Paralimpiadi: gli amputati vanno più piano, gli atleti in carrozzina dal mezzofondo in su vanno più veloce. Non a caso, lo dico senza problemi, io mi opponevo anche a Pistorius alle Olimpiadi: non c’era alcuna certezza che con quelle protesi lui non facesse tempi migliori di quelli che avrebbe fatto senza handicap. Tanti mi criticavano, ma cadevano di fronte a una domanda semplice: “Se domani qualcuno corresse i 400 metri in 40 secondi con quelle protesi, omologheresti il record?”. Non rispondevano mai “Sì”.

E la risposta era “No”. Non avrebbe senso. La questione non riguarda solo la Semenya ma un contesto più ampio, visto che nella categoria delle atlete iperandrogene rientrano anche quelle transgender. Come Rachel McKinnon, mediocre ciclista da uomo, campionessa master da donna e al centro di polemiche, al punto da accusare di transfobia chi criticava la cosa. Fatemi capire una cosa: sui 1500 gli atleti in carrozzina sono mezzo minuto più veloci dei normodotati. Se dico che non possono competere assieme ce l’ho coi disabili? Certo che no.

E allora si torna alla scienza, che ci dice quali vantaggi sono tali da giustificare categorie a parte. Se domani nascessero uomini con tre gambe che corrono la maratona in un’ora e mezzo, concettualmente non cambierebbe nulla. Quando poi è possibile, tramite trattamenti, rientrare negli standard di una categoria (come nel caso della Semenya), allora viva l’inclusività. Se non è possibile, però, non solo diventa inutile ma controproducente: c’è il rischio che nazioni piccole e ricche sguinzaglino branchi di talent scout nelle comunità transgender alla ricerca di atlete che possano portare gloria e medaglie al caudillo di turno.

Per gli irriducibili oppositori delle mie tesi, mi permetto di fare un po’ di fantatletica: immaginiamo un futuro dove certe distanze siano dominate dalle atlete iperandrogene. La popolarità di uno sport dipende anche dal numero di praticanti, quindi il dominio delle iperandrogene avrebbe un impatto: perché correre se non posso sognare di vincere? A quel punto la categoria “Donne” sarebbe lasciata alle atlete con testosterone alto e le altre chiederebbero una categoria per poter correre tra loro. Sarebbe impossibile negargliela e in breve tempo quella diventerebbe, nella percezione degli appassionati, la vera categoria “Donne”, al netto del testosterone. Insomma, non cambierebbe nulla.

Qui non c’entrano sessismo, razzismo, omofobia e transfobia. Si parla solo di competizione equa e a parlare deve essere la scienza, non la politica o gli attivisti per i pari diritti. Se ne facessero una ragione, capissero che la situazione è questa anche se non è colpa di nessuno e si cominciasse a parlare d’altro.

Tanto non cambia nulla.

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