Buon compleanno Raffaella, italiana d’America

Raffaella Reggi
 
di Giulia Rossi

Raffaella Reggi raggiunge oggi un traguardo molto importante nella vita di una donna. E per questo motivo non vi diremo quante candeline spegne.

Solare, piena di grinta ed energia nonostante la fatica di un’interminabile giornata fuori casa, mi concede l’ultima mezz’ora di tranquillità che la separa dal suo compleanno.

La vittoria a sorpresa nel 1981 in quello che probabilmente è il torneo a livello juniores per eccellenza, l’Orange Bowl, a nemmeno 16 anni, la porta agli onori della cronaca mondiale. È stata la prima tennista italiana a conquistare un titolo dello Slam, nel doppio misto allo Us Open targato 1986, disciplina in cui resta ancora l’unica vincitrice del nostro Paese. Ma tanti sono i successi in bacheca, dagli Internazionali d’Italia ’85 disputatesi a Taranto (sia in singolare che in doppio) al successo nel Wta a Lugano nell’86, che ci rivela essere la sua vittoria più bella. Tre volte orgogliosissima rappresentante del tricolore ai Giochi Olimpici: nel 1984 a Los Angeles, debutto in cui arrivò anche la medaglia di bronzo; nel 1988 a Seul, quando si tolse lo sfizio di battere la terribile Chris Evert; infine nel 1992 a Barcellona, dove allo stremo delle forze fisiche annunciò il suo ritiro dal tennis.

Ripercorriamo con lei le tappe di questa avventurosa carriera, che l’hanno portata a issarsi, nell’aprile 1988, fino alla 13^ piazza del ranking mondiale.

Raffaella ritorniamo indietro nel tempo. Come hai cominciato? Diventare una tennista era il tuo sogno fin da bambina?

“Ho cominciato ad avvicinarmi al tennis grazie a mio padre che frequentava il circolo Faenza, giocando il classico doppietto della domenica: mentre lo aspettavo rubavo sempre una delle sue racchette, che erano grande circa il doppio di me e tiravo contro il muro. Al mio sesto compleanno ho espresso il desiderio di ricevere un completino da tennis. Prima facevo danza classica per volere di mia madre che ha sempre voluto mi muovessi fin da piccolina: basket, atletica; ad un certo punto a sei anni ho dovuto scegliere perché la danza classica non andava più bene abbinata al tennis e con mia somma gioia, perché della danza non ne potevo proprio più, scelsi il tennis. Pensa che il primo che mi vide giocare fu Antonio Radici, quando mi iscrissi al mio primo corso di tennis durante l’estate e non avevo ancora 5 anni, quindi teoricamente non potevo frequentare il corso, ma lui mi volle prendere lo stesso. Poi a 9 anni sono passata alla Virtus Bologna con Lele Spisani e Ferruccio Bonetti, una tappa obbligata per tutti i faentini, perché a Faenza non c’era tanta continuità a livello di maestri. Tutti i giorni assieme a mia madre facevamo Faenza-Bologna andata e ritorno. Non ho mai pensato di ottenere questi risultati o di diventare una professionista, non è mai stato il mio pensiero primario, a me piaceva solo giocare a tennis. Anzi, i miei dovevano venire a prendermi sul campo e tirarmi per le orecchie per riportarmi a casa la sera. Non avevo alcuna velleità o aspirazioni di chissà che genere ma forse quella che ci credeva più di tutti in famiglia era proprio mia madre, donna molto determinata e battagliera, da cui ho ereditato la grinta in campo; ero un mix di animi forti perché anche mio nonno paterno era un boxeur molto determinato”.

Quando hai capito che invece poteva diventare il tuo futuro?

“Ho iniziato a prendere davvero consapevolezza quando sono andata da Bollettieri, non avevo ancora compiuto 15 anni ed ebbi l’opportunità di sfruttare una borsa di studio tramite Paolo Bodo, all’epoca rappresentante della Prince. Lui prese sotto contratto Gianluca Rinaldini e voleva abbinargli anche una donna e Gianluca gli disse che mi conosceva e che con me poteva stare tranquillo. Così Bodo lui mi chiese se avevo piacere di frequentare l’Academy di Bollettieri con una borsa di studio. Io ero prontissima. Mia mamma era assolutamente convinta mentre mio padre dovette dir di sì, forse ci avrebbe pensato un po’ di più, ma era mia mamma quella più determinata. Devo dire la verità, la mia grande fortuna è di aver avuto due genitori così, perché considera che non avevano mai avuto niente a che fare con lo sport mi hanno capito e mi hanno assecondato, probabilmente ero anche una bambina con la testa sulle spalle e vedendo la volontà e la passione che avevo per questo sport mi hanno sempre aperto le porte, non mi hanno mai messo i bastoni tra le ruote”.

Nel 1981 hai vinto l’Orange Bowl, forse il più importante torneo juniores al mondo. Quella vittoria si è svolta in modo un po’ rocambolesco, ce la racconti?

“Quello fu un momento molto particolare della mia vita: io avevo frequentato per tre anni il centro tecnico a Latina, quando io e la mia famiglia rendemmo noto il fatto che sarei andata negli Usa sembravano tutti d’accordo sulla scelta, mentre alla fine tanto d’accordo non lo furono. Non venni iscritta all’Orange Bowl tramite la Federazione, ma ci finii per caso. In America facevano questi tornei a weekend dove giochi 3-4 partite al giorno insieme al doppio e vincendo un torneo under 23 ottenni la wild card per giocare all’Orange Bowl. Quindi quando vinsi si creò una diatriba perché si aprì il dibattito se fosse merito della Federazione o di Bollettieri. Mia madre mi teneva sempre gli articoli di giornale e c’è un album dedicato solo a quell’episodio, ci sono delle cose che se oggi le guardo mi scappa da ridere. Ero io quella che scendeva in campo ma in realtà il merito doveva essere per forza di una delle due parti. Per me vincerlo è stato un grande motivo di orgoglio perché fino all’ultimo non sapevo se avrei giocato. Ed è stato il mio trampolino di lancio: non avevo ancora classifica mondiale e poi ebbi l’opportunità di giocare a Fort Mayers, dalle prequalificazioni arrivai ai quarti di finale e la mia prima classifica fu 127 del mondo”.

Quali sono i tuoi ricordi dell’esperienza statunitense?

“Ti racconto un aneddoto divertente sulla mia esperienza da Bollettieri. Quando arrivai a New York avevo tre ore di ritardo persi la coincidenza. Avevo 14 anni e viaggiavo da sola, dovetti prendere una camera nell’albergo vicino al Kennedy, mio padre disperato perché la bambina è lì da sola, ha perso l’aereo… La mattina dopo prendo l’aereo e arrivo a Bradenton dove mi accoglie Carolina, me lo ricordo come se fosse adesso, che lavora ancora là, parlando un po’ spagnolo perché era portoricana mi disse: “Vai a cambiarti Nick ti aspetta in campo, ti vuole vedere”. Mi cambiai, andai in campo, lui mi accolse col suo dialetto un po’ napoletano. Facemmo un po’ di cesti e dopo un quarto d’ora fermò il gioco e disse: “Vieni qui: facciamo una scommessa io e te? Alla fine dell’anno prossimo sarai tra le prime 50 del mondo”. Chiamai casa la sera e li rimproverai: “Ma dove mi avete mandato, da un venditore di fumo?” Questo per farti capire quanto ero lontana dal pensare chissà cosa. E invece ci arrivai ad aprile tra le prime 50, con qualche mese d’anticipo. Un’esperienza che rifarei a occhi chiusi”.

Qual è l’insegnamento più grande che ti ha lasciato Bollettieri?

“Per ogni cosa che ho affrontato in vita mia sono sempre partita dal presupposto che mi ha insegnato Nick: bisogna sempre confrontarsi con i più forti, anche a costo di andare in un torneo e fare un game o due. La mossa vincente, almeno per quanto mi riguarda, è stata proprio confrontarmi con i più forti perché è l’unica via che ti fa crescere, solo così capisci che devi fare determinate cose, che devi lavorare su determinati aspetti quantomeno per raggiungere certi livelli”.

Medaglia di bronzo alle Olimpiadi 1984. Cosa ti ha lasciato quell’esperienza? Ti sei sentita spaesata in una manifestazione così coinvolgente? In fondo il tennis è lo sport individuale per eccellenza…

“Quando ho avuto l’opportunità di vestire la maglia azzurra per me è stato sempre un onore. La cerimonia di inaugurazione, l’inno, la medaglia di bronzo di Los Angeles… sono ricordi che non potrò mai dimenticare. A me sarebbe piaciuto avere le Olimpiadi una volta all’anno! Mi è sempre interessato andare a vedere gli altri sport, conoscere altre discipline sportive, confrontarmi con gli altri atleti, le Olimpiadi sono una cosa che mi ha sempre intrigato molto. Purtroppo erano gli altri che guardavano i tennisti di traverso, perché avevamo una vita agiata, contratti di un certo tipo, i soldi… ma dopo un’iniziale fase di studio si faceva anche molta comunella, molti venivano a vederci giocare, noi andavamo a vedere gli altri italiani, presto si crea un particolare feeling di squadra e a quel punto il tennis smette di essere sport individuale e tu giochi per una squadra intera composta da tutti i partecipanti alle Olimpiadi. La stessa cosa che ho ritrovato nel giocare il doppio misto uno perché è divertente, due perché cambiavi un po’ aria…insomma dopo un po’ sempre con le ragazze…”

Hai vinto il doppio misto allo Us Open 1986. Ma come si trova il partner perfetto?

“Fin da subito, da quando ho avuto la possibilità di giocare gli Slam, ho giocato anche il misto e per questo devo ringraziare Vittorio Selmi, che lavorava come consulente dell’Atp, che subito mi ha detto: “Raffella perché non giochi il doppio misto? Stai qui anche la seconda settimana, ti alleni con le più forti e soprattutto le vedi giocare”. Così ho potuto incontrare tanti partner straordinari: Tim Mayotte, Steve Denton, Jaime Fillol, Owen Davidson, l’australiano mancino… e poi è capitato Sergio Casal. Io il doppio lo considero una specialità bellissima perché si deve creare un’affinità a livello caratteriale, deve cliccare subito qualcosa come in una coppia. Con Sergio mi trovavo benissimo in campo perché lui mi tranquillizzava se ero troppo esuberante, io lo spingevo un po’ di più… ci completavamo bene ed è stata una vittoria inaspettata in una finale incredibile. Pensa che gli unici due break li abbiamo ottenuti sul servizio di Fleming. Io non ho mai perso il servizio e questa forse è risultata la più grande sorpresa in assoluto del torneo! Poi l’anno seguente arrivammo in semifinale sempre allo Us Open ma sul più bello si ritirò. Fu probabilmente per non mettere i bastoni tra le ruote a Emilio Sanchez, che quell’anno giocava con Martina Navratilova, memori dell’anno passato volevano far vincere Martina. Lì mi disse: “Raffaella, devo andare a fare un’esibizione in Spagna”. E mi piantò lì. Ci rimasi malissimo”.

Secondo te esiste la settimana perfetta? Quella che ti fa vincere uno Slam?

“Io penso che un pizzico di fortuna ci voglia sempre, anche se ci sono alcuni tornei con cui provi subito un feeling particolare: questo può dipendere dai campi, dall’atmosfera… ma ci sono tante cose che devono collimare insieme, certamente ci sono tante altre componenti tra cui la fortuna di avere il tabellone aperto, una giornata no della tua avversaria, ma esistono davvero le sensazioni positive in posti particolari dove sai che, risultati alla mano, hai sempre giocato molto bene. E questo già di per sè ti da una grande fiducia”.

Quali cambiamenti attitudinali noti tra il tennis odierno e quello dei tuoi giorni?

“Io credo solo che quando noi scendevamo in campo lo facevamo col coltello tra i denti, non volevamo mai perdere per nulla al mondo ma fuori dal campo si socializzava di più, si scherzava, si andava a mangiare fuori insieme. Oggi si creano meno legami rispetto ai miei tempi, raramente ci sono amicizie fuori dal campo. Non voglio dire che ci sia meno umanità nelle tenniste odierne: ci sono esempi come la coppia Errani-Vinci che hanno una bel rapporto anche al di fuori ma generalmente adesso ognuno ha il suo entourage e con quello vive e si sposta. Certamente posso affermare che una volta c’era più spensieratezza”.

Come vedi il futuro del tennis italiano? Almeno di quello femminile.

“Dico solo che classifica mondiale alla mano le cose non mi sembrano molto rosee perché molte delle nostre saranno ritirate entro il 2016. Teniamoci aggrappate alla Giorgi, alla Knapp e alla Errani. Quello che mi preoccupa francamente è la fascia tra i 20 e i 22 anni, una generazione che sta facendo molta fatica ad uscire. Diciamocelo, nel tennis femminile non è particolarmente difficile entrare tra le prime 100. Ovviamente, se hai una buona determinazione, buone basi, tutto il contorno dev’essere di un certo tipo, devi avere la tranquillità necessaria assieme a professionisti adeguati. Io non credo che ci sia qualcosa che non si possa fare, ma bisogna avere la mentalità aperta per farlo”.

Quindi è questa secondo te la maggiore differenza tra il sistema italiano e per esempio quello americano?

“Io sono schiettamente sincera e mi sono sempre battuta per il confronto, per vedere come lavorano gli altri. Una cosa che ho sempre pensato è che se vedi che hai delle ragazze e ragazzi che lavorano bene bisogna mandarli all’estero, fare scambi culturali… non mi piace la mentalità del “nostro giardino” da cui non ci muoviamo, ma questa è in generale una tendenza italianissima”.

Ti sei ritirata a 25 anni a causa di gravi problemi fisici. Com’è allontanarsi da qualcosa che ha occupato le giornate così tanto per un tempo relativamente breve della propria vita?

“Non ho più la cartilagine alle anche, ho smesso per questo. Io credo molto che dipenda da come tu la vivi, io come ti dicevo all’inizio l’ho sempre vissuta con grande tranquillità, mi sono sempre divertita tantissimo e nel momento in cui il mio corpo mi ha dato questi segnali sapevo che non potevo fare più di quello che avevo già fatto. Ho detto basta con dei contratti ancora in essere per due anni, con la voglia di giocare ancora addosso, senza aver detto prima niente a nessuno. Dopo aver perso dalla Maleeva al secondo turno alle Olimpiadi di Barcellona ho chiamato a casa e ho detto di accendere la tv. In conferenza stampa ho annunciato che avrei appeso la racchetta al chiodo, con grande sorpresa di tutti.  Ho avuto poi la fortuna di avere una figlia due anni dopo che mi ha riempito completamente la vita e successivamente di essere capitana di Fed Cup per quattro anni, rientrando così nel mio ambiente. Il tennis era prima e resterà sempre la mia vita”.

Oggi sei commentatrice per Sky Sport a tempo pieno. Qual è stata la partita che ti ha emozionato di più commentare?

“Commentare mi piace tantissimo, anche perché devi pensare sempre che dall’altra parte c’è qualcuno che magari di tennis non ne capisce un granché devi essere sintetica, spiegare in breve tempo ma con chiarezza. Ormai sono passati 13 anni, all’inizio ero un po’ impacciata mentre ora mi sento tranquilla, si è creato anche un bellissimo gruppo con Boschetto, Elena Pero e mi sento proprio a casa, ormai si va molto tranquilli e sereni. Ti dico la verità, mi è piaciuta veramente da matti la semifinale di Wimbledon di tre anni fa tra Djokovic e Del Potro, nell’anno delle Olimpiadi che vinse Murray, perché la commentai in 3D! è stata un’esperienza spettacolare perché il tennis in 3D è qualcosa di incredibile, anche se dopo un po’ con gli occhialini ti viene la nausea. Le telecamere sono posizionate più basse e ti sembra di essere proprio in campo. Poi fu un match bellissimo e vederlo in 3D lo rese ancora più unico”.

Nel ringraziarla per la sua incredibile disponibilità che mi ha portato a rivaleggiare con Gigi Marzullo nella categoria “interviste notturne”, esplode in una contagiosissima risata bonaria, quella che solo le emiliane sanno sviscerare, aggiungendo: “Eh del resto ti chiami Giulia, come mia figlia, non potevo certo negarti nulla…”

Grazie ancora Raffaella, e auguri sinceri di buon compleanno!

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