Foro Italico, Italia.


(Foro Italico – Foto Nizegorodcew)

di Roberto Commentucci (Articolo apparso sulla rivista culturale “Memo“, numero di maggio 2012)

Da utopia di pietra a modello di modernità.

Vi sono luoghi che paiono racchiudere la natura profonda di un popolo, le sue illusioni, le sue debolezze, la sua vitalità, la sua storia. Il Foro Italico è uno di questi.

Diciamo la verità. Per tanti anni ce ne siamo un po’ vergognati. Quell’ingombrante monolite, a scimmiottare gli obelischi egizi. Quei parallelepipedi di pietra, con sopra incisi slogan imbarazzanti, infarciti di metafore da maestro elementare, piene di moschetti, aratri, spade, solchi. Quei mosaici stilizzati, recitanti le medesime frasi auliche, fatte imparare a memoria a tutta una generazione in braghette corte. Quella monumentalità fragorosa, eccessiva e in fondo fredda, triste, disumanizzante. Quei trucchetti scenografici da capomastro praticone: il bianco abbacinante dei marmi, il rosso ardesia della terra dei campi da tennis, il verde scuro dei pini. Un tricolore da pizzaiolo napoletano, quasi a scimmiottare la mozzarella, il pomodoro e il basilico della pizza margherita. Questo pensavamo, nel dopoguerra.

Ma non eravamo sereni. Troppo vicini erano i lutti, le sciagure, le vergogne, le bassezze, i tradimenti, le menzogne, le illusioni. E allora ci convincevamo – con un pizzico di delusione? – di essere sempre gli stessi. I fedifraghi, gli sleali, gli astuti, i voltagabbana, i felloni, i lacchè, “gli affittacamere dell’Europa spendereccia” come diceva D’annunzio.  No – pensavamo – gli italiani dopo tutto non sono i discendenti della romanità, quel popolo virile, sano, sportivo, muscoloso, sobrio, onesto, risoluto, pratico, meccanizzato, schietto, robusto e leale vagheggiato nelle oltre 80 statue marmoree erette intorno allo Stadio dei Marmi e disseminate nel resto del complesso. Era stato tutto un imbroglio, iscritto nella pietra. L’utopia di un visionario.

Iniziò un complicato percorso di rivisitazione. Cambiammo i nomi a luoghi, edifici e viali, e ne facemmo la cittadella fortificata del CONI, il nostro Comitato Olimpico. Il paese, intanto, mutava. Aveva una gran frenesia di agire, produrre, imparare, costruire, competere, fare figli. Era il 1960, l’anno delle Olimpiadi. Berruti e Benvenuti, Abebe Bikila e Wilma Rudolph, D’Inzeo e Gaiardoni, Armin Hary e Cassius Clay. Il terzo posto nel medagliere, l’esplosione del turismo e del prodotto interno lordo, l’Autostrada del Sole, il premio alla lira come moneta più stabile. Ci fecero riappacificare un poco con noi stessi, e con le bianche pietre. Eravamo quelli del boom.

Durò poco, purtroppo. Arrivarono le bombe, la strategia della tensione, le stelle a cinque punte e lo sfregio inflitto al più bell’edificio del complesso. La Palestra della Scherma di Luigi Moretti, orrendamente stuprata nella sua metafisica bellezza, per divenire simbolo ingombrante delle nostre contraddizioni e lacerazioni. Il processo Moro, l’aula bunker. Anni difficili, anni di piombo.

Non era finita. Mancava l’ultimo affronto, perpetuato in nome del Dio Calcio e del peculato: Italia ’90, il massacro di quello che una volta era lo Stadio dei Centomila, il capolavoro di Enrico Del Debbio, un teatro greco mimetizzato sul fianco della collina di Monte Mario, perfettamente nascosto dai cipressi. L’orrenda copertura è là, la vedi già quando arrivi in aereo, assieme  ai “tornelli” per identificare, separare i tifosi, i nuovi barbari. Simboli tangibili ed evidenti del malgoverno, delle mazzette. Della decomposizione di una classe dirigente.

Siamo senza speranza dunque?

No. Tra le nostre pietre vi è anche una storia di successo. Quella del torneo di tennis. Gli Internazionali d’Italia riscuotono sempre più seguito, proprio grazie alla bellezza del complesso, unico nel panorama mondiale degli impianti tennistici, che ne fa da sempre una delle mete preferite dai giocatori. Eppure, da più parti ci vorrebbero togliere il torneo: il Foro è bello, ma sono solo 4 ettari… troppo piccolo, troppo stretto, si vocifera, rispetto ai grandi spazi delle metropoli europee, americane, australiane… Ancora una volta, le bianche pietre assurgono a perfetta metafora del nostro paese. Un museo, uno scrigno di tesori, ma troppo lento e fragile per affrontare la spietata concorrenza internazionale?

Ebbene, vi è un’altra strada. Andate al Foro, andate a vedere il tennis, e vi convincerete che per una volta i vati di sventura s’ingannano. Andate a vedere il nuovo, magnifico campo centrale, il recupero degli arredi urbani dell’epoca di Del Debbio, i rispettosissimi restauri apportati al complesso. Un incanto, un miracolo.

E’ questa, in fondo, l’ultima delle metafore del luogo. Perché l’Italia si salva, si afferma, solo se riesce a modernizzare se stessa senza snaturarsi, coniugando tradizione e modernità.

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