Daniel Panajotti: “Ecco la mia visione del tennis”

Daniel Panajotti non ha bisogno di presentazioni. Il coach argentino, che ha portato Francesca alla consacrazione nel gotha del tennis, si è gentilmente concesso ai microfoni di Spazio Tennis. Daniel ci ha raccontato dei suoi anni alla guida della Leonessa, del lavoro di allenatore tra grandi soddisfazioni e numerose difficoltà (in Italia e non), senza tralasciare ovviamente il suo attuale lavoro nella sua accademia di Verona.
Daniel Panajotti
Intervista di Alessandro Nizegorodcew
Allora Daniel, ringraziandoti per la disponibilità, vorrei iniziare parlando con te del tuo attuale lavoro all’Accademia di Verona, dove il tuo ruolo è quello di Direttore Tecnico. Come nasce questo tuo progetto e come è organizzato?
“La mia accademia nasce dal desiderio di estendere la mia esperienza internazionale verso i giovani. Desideravo condividere il mio Know-How e i fattori di successo della scuola di Tandil. L’idea fondamentale è quella di riprodurre la filosofia della scuola di Tandil a Verona. Ho scelto di stare in una struttura importante e centrale come l’Associazione Tennis Verona, che ha un passato storico importante ed è il circolo più antico di Verona. Il mio desiderio è adesso quello di iniziare a passare questi concetti ed aiutare i giovani per quanto riguarda un’educazione sportiva di qualità elevata.”
Come è strutturata l’accademia?
“La mia Academy è organizzata in una struttura con 8 campi in terra battuta, una club house e la palestra. Abbiamo anche una struttura vicina d’appoggio che ha due campi coperti in cemento con struttura fissa, oltre a palestra, piscina e foresteria. C’è anche un pulmino con 9 posti per le trasferte. Per quanto riguarda lo staff, ci sono io che ogni giorno sono in campo, più il preparatore fisico Jorge Di Pasquale che allenava Francesca Schiavone insieme a me. Ci sono in totale altri quattro Maestri e un altro preparatore fisico. Tutti i nostri giocatori sono under 18 e quattro sono dei seconda categoria. In questo momento sto lavorando con i giovani, anche giovanissimi (classe 2001 e 2002).”

Ora facciamo un salto indietro nel tempo. Come è iniziata la tua carriera di allenatore?
“Io lavoro da quando ho 16 anni (ho iniziato come aiutante maestro di Raul Perez Roldan). Posso dire di aver messo in mano la racchetta e insegnato la tecnica di base a Juan Monaco e insegnato la tecnica di base insieme ad altri maestri a Mariano Zabaleta. La mia carriera da coach (con giocatori professionisti) è iniziata nel 1994 alla Van der Meer Tennis University di Marlengo, dalla quale sono stato contattato per seguire Claudio Pistolesi. L’ho allenato per una ventina di giorni, ma Claudio aveva dei problemi fisici e alla fine decise di operarsi e smettere. Rimasi a Marlengo come coach del gruppo di giocatori allenati da Luigi Bertino. Nel 2000 mi sono trasferito da Renato Vavassori, sempre attraverso Claudio Pistolesi, che ormai faceva il coach e voleva inserirmi con qualche suo giocatore (Savolt, Sanguinetti, Smashnova, Husarova, Girardi, ecc) e alla fine sono rimasto con Renato a lavorare insieme ai giovani. Sempre nel 2000 Francesca Schiavone ha chiesto uno sparring partner per il periodo di natale. Ho accettato e abbiamo lavorato insieme per un settimana, rimanendo comunque in contatto. Poco prima del torneo di Roma del 2001 Francesca mi ha chiamato, bisognosa di qualcuno con cui allenarsi (problemi con il suo coach). Abbiamo lavorato un altro paio di settimane, dopo le quali arrivò nei quarti sia al Foro che a Parigi. Alla fine del rapporto con il suo coach (2002) mi ha chiamato e abbiamo cominciato a lavorare insieme.”
Quali sono le maggiori difficoltà che hai riscontrato nel tuo lavoro?
“Le difficoltà che ho trovato sono state relative all’ambiente in generale. Spesso Francesca mi raccontava che la chiamavano certi personaggi dicendole di non lavorare con me. Io cercavo di portare avanti un progetto e qualcuno mi metteva i bastoni fra le ruote; ma non mi sono lasciato distrarre e sono andato avanti per la mia strada. La cosa che mi dava più fastidio è che si fa tutto alle spalle e quando vai da qualcuno faccia a faccia nega tutto, facendo magari l’amico, per poi darti addosso in maniera più pesante. In Argentina si chiama tradimento!”
Hai allenato per tantissimi anni Francesca Schiavone. Quali sono le tue sensazioni ripensando a quel lungo periodo?
“Ripensando al lavoro fatto con Francesca, credo che io sono stato quello che l’ha resa competitiva ad alto livello e le ha insegnato a giocare sulle superfici veloci. Il mio preparatore le ha insegnato cosa vuol dire lavorare ed allenarsi sodo e capire che i limiti erano aldilà di quello che lei pensava; le abbiamo insegnato a superare i propri limiti e ora lei riesce a gestirsi in maniera autonoma. Grazie a questi insegnamenti adesso lei sa quando fermarsi. Parlando degli inizi della nostra collaborazione, Francesca tecnicamente non era all’altezza delle sue aspirazioni (sopratutto di diritto, servizio e tatticamente) e fisicamente era allenata al 20%. E’ tutto documentato. Tutti sanno che nel 2002 lei non aveva il livello attuale e molti addetti ai lavori mi sconsigliarono di lasciare il mio lavoro da Vavassori per seguire lei. Non scorderò mai una sua frase, agli inizi del nostro rapporto lavorativo: “Corro e non sbaglio”. Serviva le prime ad una media di 160 km/h, di diritto non riusciva a giocare incrociato, il rovescio lo “steccava” sempre e giocava a 3 metri dalla riga da fondo; la racchetta era ingiocabile e la tensione delle corde a 26/27.”
Daniel Panajotti e Francesca Schiavone
C’è stato un bel lavoro da fare insomma…
“Tutto il suo gioco era impostato sul suo rovescio, ma io lavorando tecnicamente sul diritto le feci capire che lei era forte di diritto e quindi tutto il suo gioco andava modificato tatticamente. Dalla parte del rovescio le insegnai a fare correttamente il top-spin e anche lo slice e a non perdere campo da quella parte; le voleè erano disastrose, giocava tutto di polso e si allungava per prendere la palla. L’ unico colpo naturale ed eccezionale era invece lo smash. Le insegnai a giocare il turno di servizio e cosa doveva fare subito dopo, lavorammo tanto sul potenziamento della parte superiore del corpo per velocizzare il servizio e le cambiai la racchetta e abbassai la tensione a 22/23 con corde mono-filamento. Il risultato? 197 km/h di velocità massima a Sydney, ma sopratutto la media intorno ai 177 km/h. La seconda veniva attaccata da tutte, quindi migliorammo anche lì. Le statistiche la mostravano fra le migliori nel turno del servizio, sia come velocità, sia come percentuale di punti vinti con la prima, ecc. Prima non era così, anzi tutto il contrario. Il lavoro fondamentale però riguardava il lavoro di automatizzazione; oggi Francesca fa tutto naturalmente (tecnica e tatticamente) grazie a tutto questo. Ma era anche annoiata pesantemente e questo la portava a ribellarsi e a cercare sempre di sfuggire a questo tipo di allenamento. Io sapevo che per lei era fondamentale e quindi anche se lei si “rompeva” lavoravo sulle routine e le ripetizioni con continuità. Siamo stati costanti per tanti anni, cosa non facile, perché Francesca ha un carattere difficile, perciò il lavoro è stato svolto con grande fatica per entrambi. Il lavoro realizzato insieme con il mio preparatore fisico durante i sei anni mirava ad alzare sempre il livello e continuando a migliorare sempre. Noi abbiamo fatto formazione con un atleta di 22 anni e lei ha continuato ad ottenere risultati, cosa non facile. Il buon lavoro si è visto dal fatto che io lavoravo sempre sulla tecnica e la tattica, ma lei continuava a vincere, a differenza di tanti che quando fanno dei cambiamenti vanno in crisi e non riescono più a vincere. Ho sempre scritto tutto, giorno per giorno, e mi fa impressione verificare tutto ciò che ho insegnato a Francesca. Ho continuamente lavorato per alzare il suo livello, anche quando c’erano tornei importanti. Come si fa a cambiare tante cose e continuare a ottenere risultati? È il mio piccolo segreto e quindi rimarrà tale. Conservo il progetto che ho presentato a Francesca all’inizio della nostra collaborazione.”
Cosa prevedeva?
Ecco qui lo schema che avevo preventivato:
2003 1° anno top 20 (ranking fine anno 20)
2004 2° anno riconferma (ranking fine anno 19)
2005 3° anno avvicinarsi alle top ten (ranking fine anno 13)
2006 4° anno riconferma (ranking fine anno 15) best ranking 11
2007 5° anno top ten

Per lei top 20 era il massimo, quasi non ci credeva. Per i primi anni tutto è andato come da programma, ma il quinto anno andò in crisi non riuscendo ad arrivare dove volevamo. Troppa gente intorno a lei iniziò ad influenzarla e lei perse leggermente la strada. Andò per 2 mesi a Roma e poi tornò; lavorammo insieme e finalmente vinse il suo primo torneo (Bad Gastein), che è stato fondamentale per tutto ciò che è successo dopo.”

Quali sono state le tue emozioni al momento della vittoria di Francesca a Parigi?
“La vittoria di Francesca al Roland Garros mi ha prodotto una gioia immensa, perché dentro di me c’è la consapevolezza di aver messo un grosso mattone nella sua crescita e so che questo risultato avrebbe potuto raggiungerlo anche prima, ma lei non era ancora matura per farlo. Rimane anche il fatto che è la giocatrice più forte della storia del tennis italiano; l’ho allenata per sei anni e conservo tutto un dossier con il lavoro fatto, cosa che credo nessun altro possieda di Francesca. Per confermare ciò che dico e capire veramente il lavoro di un coach bisogna aspettare la fine del secondo anno, secondo Tiriac è allora che si vede il vero lavoro e si può dire di aver effettivamente influenzato il tennis del giocatore. Con Francesca due persone hanno lavorato a lungo, Barbara Rossi e me, gli altri allenatori dei quali si parla hanno lavorato poco tempo e non sempre con continuità; quindi Francesca è stata formata da junior da Barbara Rossi e Pro da me. Al di là di ogni ragionamento, rimane il fatto che questa vittoria è sua, ho sempre detto che è il giocatore a fare la differenza, perché è lui a colpire la palla e a giocare, non l’allenatore. L’allenatore ha il compito di insegnare e di aiutare il giocatore a trovare soluzioni per risolvere i problemi, ma i problemi li deve risolvere il giocatore stesso.”
Quali sono oggi i tuoi obiettivi personali nel tennis?
“Il mio obbiettivo personale è sempre stato quello di formare il numero uno del mondo che possa vincere i tornei dello slam. In parte è stato colmato con le vittorie di Francesca in Fed Cup, e dopo che ci siamo lasciati, la vittoria a Roland Garros.”
Secondo te come mai in Italia facciamo fatica (nel settore maschile) a tirare su professionisti di grande livello?
“Bella domanda… I giocatori maschi italiani fanno fatica perché credo non siano competitivi rispetto ai primi della classe; giocano bene ma negli appuntamenti importanti, o dove veramente conta, non ci sono. Comunque mi piacerebbe lavorare con un tennista maschio e vedere cosa riesco a fare, ma il settore maschile è monopolizzato e quindi c’è poco spazio per me. Una cosa la posso dire: è ridicolo che siano le donne a cercare allenatori spagnoli o argentini, visto che in questi paesi il tennis femminile è peggiore di quello italiano, mentre i maschi non cercano esperienze altrove, dove si ci sono grandi campioni (Spagna in particolare, ma anche Argentina). E un altra, ma questa è cattiva: troppa gente che vuole partecipare senza avere la conoscenza e la formazione necessaria e anche tante figure superflue attorno ai giocatori che li condizionano pesantemente; desiderano essere lì perché si vogliono fare belli nei momenti di gloria. Ci sono anche tante persone che pensano di sapere già tutto e quindi non vanno avanti nella conoscenza del tennis.”
Se dovessi dare un consiglio ad un giovane allenatore che inizia adesso a girare il circuito con un suo allievo, cosa gli diresti?
“Prima di tutto di sottoscrivere un contratto e registrarlo; creare un team di lavoro con preparatore fisico di fiducia, medico e fisioterapista e, laddove sia necessario, anche il preparatore mentale, ma sempre di molta fiducia. Cercare anche un punto di riferimento esterno come aiuto personale, come ad esempio qualche coach o ex giocatore di esperienza (Io ho avuto come mentore Raul Perez Roldan e dopo, come punto di riferimento e consigliere, Guillermo Perez Roldan, ex numero 13 Atp e l’allenatore di Justine Henin, Carlos Rodriguez), poi filtrare ogni informazione all’atleta evitando così di fare confusione. Aprire bene gli occhi e farsi i propri affari nel circuito, facendo attenzione ai venditori di fumo e ai tanti personaggi che destabilizzano. Bisogna farsi le ossa girando molto ed essere sempre disponibili. Quindi farsi pagare adeguatamente, lasciando da parte il fatto che allenare un giocatore sia prestigioso e quindi evitare la tentazione di regalare il proprio lavoro. Tenersi sempre aggiornato e sopratutto cercare di capire tutto ciò che è già stato inventato per evitare di pensare che si stia scoprendo l’acqua calda.”
AT Verona
Quanto, a tuo avviso, un coach deve studiare ed aggiornarsi con nuove metodologie? Quanto è importante confrontarsi con i colleghi?
“Un coach secondo me dovrebbe prima cercare di prepararsi imparando ciò che è già stato inventato e collaudato, ed è già tanto. Per fare questo bisogna avere accesso alle informazioni di gente come Bollettieri, Tiriac, Pilic, Brett, Perez Roldan, Sanchez, Pato Alvarez, ecc. Ho sentito negli anni, nei vari simposi e conventions, tanti allenatori presentare delle novità e grandi scoperte che però avevo già sentito quindici anni prima dal mio grande maestro Raul Perez Roldan (Infantino lo può confermare); quindi attenzione alle novità, potrebbero essere cose vecchie o bufale. Riuscire a conoscere correttamente il tennis dipende dalla formazione tecnica di base e a chi ci si rivolge per ricevere informazioni. Il confronto con i colleghi è fondamentale, per capire ed imparare bisogna confrontarsi, porsi domande e cercare risposte. Isolati dal mondo o chiusi in se stessi è difficile andare avanti ed ottenere risultati.”
Come lavori sul lato psicologico e mentale dei tuoi giocatori?
“Pato Alvarez dice: “tenista = 70% cabeza, 20% piernas y 10% corazon”
La parte psicologica la lascio nelle mani di uno specialista. Il giocatore ha sempre tanti dubbi, paure e tanti problemi da risolvere fuori dal campo e solo un esperto può aiutare. La parte mentale la lavoro in campo, le paure di vincere e di perdere, i dubbi sul gioco e i colpi, la mancanza di disciplina nei momenti importanti, vanno risolti lavorando molto su una parte del subconscio che è troppo lunga da spiegare e che voglio conservare come piccolo segreto. Il lavoro mentale si svolge anche durante la preparazione fisica, ripetendo continuamente sempre lo stesso messaggio: lavorare sodo perché soltanto attraverso lo sforzo quotidiano si ottengono risultati. Il tennis è uno sport nel quale la parte emotiva è determinante, quindi il lavoro mentale e psicologico è molto importante. Lo psicologo o preparatore mentale deve essere, mi ripeto, di assoluta fiducia.”

Ringraziandoti per questa interessantissima intervista, ti chiedo se vuoi aggiungere un messaggio finale per i nostri lettori…
“Se qualcuno vuole lavorare per giocare ad alto livello, io sono a Verona, non prometto niente, prometto soltanto di insegnargli a lavorare duramente per raggiungere i propri sogni”

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