Riflessioni Doppie…

Doppio
di Remo Borgatti
Se Stephen Huss avesse messo in salvadanaio un dollaro ogni volta che il suo nome è stato accostato alla crisi irreversibile del doppio, probabilmente sarebbe milionario.
Quando nel 2005, l’australiano ebbe la malaugurata idea di trionfare a Wimbledon insieme al sudafricano Wesley Moodie eliminando, tra le altre, fior di coppie come Bhupathi-Woodbridge, Bjorkman-Mirnyi e, in finale, i Bryan, già da qualche anno ci si chiedeva come fare per ridare ossigeno vitale alla specialità.
Il ritornello è tornato d’attualità nei giorni scorsi, dopo che, sempre ai Championships, la finale del doppio maschile è stata vinta dall’austriaco Melzer e dal tedesco Petzschner sulla coppia composta dal veterano svedese Lindstedt e dal 25enne rumeno Tecau. In questo caso sono stati proprio i finalisti, che pure erano testa di serie numero 16, a far storcere il naso ai puristi, se non altro perché Melzer era appena stato semifinalista (in singolare) al Roland Garros e Petzschner (sempre in singolare) qualche giorno prima aveva fatto vedere i classici sorci verdi a Nadal.
I nostalgici, che non mancano mai, hanno sospirato rimpiangendo i tempi in cui “i semifinalisti del singolare erano i finalisti del doppio” e “i migliori singolaristi giocavano e vincevano anche in doppio”.
Così, per cercare di confutare o smentire queste dichiarazioni, ho ripercorso gli albi d’oro dei quattro major dal 1950 a oggi (in tutto poco meno di 240 edizioni), scoprendo alcune cose davvero interessanti.
FINO ALL’ERA OPEN – Quando i professionisti non potevano giocare gli slam, i migliori tennisti in circolazione si iscrivevano spesso a tutti e tre i tabelloni: singolare, doppio e misto. Ma era il tennis che si giocava prevalentemente su erba (quella vera…) con ritmi assai meno intensi e vertiginosi di quelli attuali. Basti pensare che ai cambi di campo i giocatori si fermavano un attimo a dissetarsi e via che riprendevano subito; per non parlare del fatto che, molte volte, alla fine della partita avevano ancora l’energia per saltare la rete e andare a stringere la mano all’avversario. Eppure, anche in queste condizioni, due sole volte in quasi vent’anni (dal 1950 al 1968) è successo che le semifinali del singolare e la finale del doppio vedessero in campo gli stessi protagonisti. Non a caso è successo sempre agli Australian Open nel 1957 (Cooper, Fraser, Anderson e Hoad) e nel 1965 (Emerson, Stolle, Newcombe e Roche), torneo in cui il dominio degli stessi australiani era così marcato che solo una volta, nel 1968, accadde l’esatto contrario, con Bowrey, Gisbert, Phillips-Moore e Ruffels semifinalisti in singolare e la coppia Crealy-Stone vincitrice in doppio su Addison-Keldie.
Che l’Australia costituisca un’eccezione è rilevabile anche dalla percentuale di tennisti inseriti in entrambe le tabelle: 58% contro il 37% di Parigi e appena il 23% di Wimbledon e Us Open. Ci sono poi altri due dati interessanti: quello relativo alle coppie che, nello stesso anno, hanno disputato la finale del singolare e hanno vinto il doppio e quello relativo ai tennisti che hanno alzato entrambi i trofei.
Anche in questo caso gli Australian Open comandano. In tre occasioni (1952, 1954 e 1956) accadde la prima opzione e in altre quattro la seconda. Nel 1952 i fantastici aussie Sedgman e McGregor, reduci dal Grande Slam di specialità ottenuto l’anno precedente, si sfidarono in finale (vinse Ken McGregor in quattro set) dopo aver vinto il doppio; due anni più tardi toccò a Rex Hartwig e Mervyn Rose emulare i connazionali (con Rose che vinse il singolare) mentre il 1956 di Ken Rosewall e Lew Hoad passò alla storia in quanto i due fuoriclasse ottennero questo risultato anche a Wimbledon e a Forest Hills, con Hoad che arrivò vicinissimo a completare il Grande Slam in doppio perdendo la finale di Parigi (orfano di Rosewall, partecipò insieme ad Ashley Cooper e i due furono battuti da Candy e Perry in tre partite).
Al Roland Garros non è mai successo che i finalisti del singolare fossero anche i vincitori del doppio mentre a Wimbledon e agli Us Open una sola volta (quella che ho appena ricordato, con Hoad e Rosewall protagonisti). E’ successo invece ben sei volte che un tennista abbia alzato entrambe le coppe a Parigi e agli Us Open mentre a Wimbledon accadde solo nel 1952, con Sedgman di nuovo in prima pagina.
ERA OPEN – La prima edizione di un torneo dello slam aperto anche ai professionisti risale al Roland Garros 1968 e da lì inizia il mio conteggio relativo all’Era Open che, in pochi anni, avrebbe cambiato radicalmente la situazione.
Naturalmente, con la specializzazione dei ruoli e con i progressivi aumenti dei montepremi che hanno allargato la base dei partecipanti, le possibilità che gli stessi quattro tennisti fossero protagonisti nello stesso torneo delle fasi conclusive di singolare e doppio si sono ridotte moltissimo.
L’ultima vera coppia che ha primeggiato in entrambe le specialità è stata quella, tanto per cambiare tutta australiana, formata da John Newcombe e Tony Roche, anche se il mancino ha vinto una sola delle sei finali disputate negli Slam (Parigi, 1966) mentre Newcombe ha un record di 7 vittorie e 3 sconfitte. Quest’ultimo ha vinto singolare e doppio sia a Wimbledon (1970) che agli Us Open (1973, ci era già riuscito anche nel 1967).
Per il resto, in oltre 40 anni di Era Open, sono rarissimi i casi di atleti che si sono distinti sia in singolare che in doppio. Ken Rosewall vinse entrambi i titoli ai French Open 1968 e agli Australian Open 1972; Rod Laver fece lo stesso sempre in Australia nel 1969; John McEnroe centrò tre doppiette a Wimbledon (1981, 1983 e 1984) e due a Flushing Meadows (1979 e 1981). In tempi più recenti l’impresa è riuscita a Stefan Edberg (Australian Open 1987) e al russo Kafelnikov, ultimo in ordine di tempo, che trionfò in singolare e in doppio (con Vacek) al Roland Garros nel 1996.
Con queste premesse, inutile rimarcare quanto siano crollate le percentuali di cui si parlava in precedenza. Per tutti i tornei si sono assestate sotto il 10%, con il record minimo del Roland Garros che, dal 1968 a oggi, ha premiato con la finale del doppio e almeno la semifinale del singolare nello stesso anno solo Laver, Gottfried e Ramirez (due volte ciascuno), Rosewall, Roche e Kafelnikov (una volta a testa).
I protagonisti di singolare e doppio sono, ormai da almeno 30 anni, del tutto diversi tra loro. Ma questo non significa necessariamente che il doppio non offra lo stesso spettacolo che poteva offrire quando a giocarlo erano i migliori singolaristi. Così come non ha molto significato estrapolare uno o due episodi particolari (la vittoria di outsider come Huss-Moodie a Wimbledon e Cuevas-Horna a Parigi) per strumentalizzare un concetto; quando Krajicek trionfò a Wimbledon 1996 battendo in finale Malivai Washington, nessuno parlò di crisi del singolare perché è risaputo che l’eccezione non fa regola. E anche nel doppio la regola è che spesso vincono le coppie più forti, quelle in grado di assicurare il miglior spettacolo che il tennis attuale, poco amico degli attaccanti e del gioco di volo, può garantire.
Insomma, non è detto che Federer, Nadal, Djokovic e Murray (tanto per citare i primi quattro della classifica ) sarebbero competitivi contro i Bryan, Nestor-Zimonjic, Dlohuy-Paes o Bhupathi-Mirnyi. E lo stesso discorso vale per Sampras e Agassi quando c’erano i “woodies”o per Borg e Vilas quando c’erano McNamara-McNamee e Lutz-Smith.
Vedremo prossimamente che lo stesso discorso non si può applicare al settore femminile. Per ora restiamo con Lleyton Hewitt, l’ultimo dei mohicani, che nel 2000 raggiunse le semifinali in singolare agli Us Open, dove vinse il doppio insieme a Max Mirnyi. Prima di lui, altro rarissimo esempio di sdoppiamento della personalità, ci era riuscito Todd Woodbridge a Wimbledon nel 1997. Hewitt, singolarista eccellente prestato al doppio; Woodbridge, doppista di straordinario livello per una volta capace di farsi valere anche nel campo stretto. Fenomeni destinati a restare soli, o quasi.

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