Controcanto – “Volevo solo giocare a tennis…”

controcanto
Una rubrica di Mario Polidori
PRESENTAZIONE
Controcanto, un buon titolo per una rubrica che vuole raccontare tutte quelle storie, anche non famose, che sono poi una parte considerevole delle verità che spesso vengono negate.
Sotto i riflettori anche loro, per far riflettere tutti e per dare un contributo alla conoscenza di questo sport, ma soprattutto per mettere in luce tutte le variabili che possono intervenire nella costruzione di un tennista, sia quelle “maledette” che quelle “benedette”, che spesso fanno parte del percorso esclusivamente personale di un atleta, il quale solo in parte condivide un mondo con i suoi avversari.
Forse questa la parte più intrigante, gli avversari, che nella maggior parte dei casi scopriremo non essere quelli dall’altra parte della rete.
Variabili che molti che si accingono, per fortuna o per “disgrazia” (scherzo), a portare un figlio in questo sport non conoscono e la cui conoscenza può risultare molto utile.
Le storie di atleti che non ce l’hanno fatta, e di quelli che possono ancora farcela.
Controcanto per questo, perché c’è sempre una canzone, che tutti intonano perché è di moda, perché è l’ultima realtà, ma che per diventare definitivamente una hit ha bisogno di essere arricchita.
VOLEVO SOLO GIOCARE A TENNIS
E’ il primo racconto, spero di una lunga serie, ed è la storia di un maschietto, che ha voluto rimanere anonimo, aveva le sue ragioni, ma è una bella storia che ho pensato valesse la pena di raccontare.
“Avevo più o meno otto anni e mentre mi aggiravo annoiato e curioso in casa di mia zia, finii in un ripostiglio dove, tra le altre cianfrusaglie tipiche dei ripostigli, trovai un tubo di metallo con scritto Dunlop Fort che subito attirò la mia attenzione. Era già aperto, ma da poco, perché le palline che vi trovai erano ancora praticamente nuove. Erano bellissime e provai una sensazione al tatto che non so descrivere. Sapevo che si trattava di palline da tennis, ma non ne avevo mai vista una così da vicino e nel paese in cui vivevo non c’era una diffusione tale di questo sport da evitarmi la meraviglia che mi era stata suscitata da quella scoperta. Ne rubai una, facevo spesso queste stupidaggini, rubare dico, piccoli furti per potermi aggiudicare piccoli piaceri, e la aggiunsi ai giochi della mia stanzetta, dapprima in segreto, poi, nel tempo, senza dovermi più nascondere dalla curiosità dei miei su come ne fossi venuto in possesso. Il passo successivo fu scoprire che a circa 1 chilometro da casa mia c’era un Tennis Club, modesto, con due campi in terra rossa, solo scoperti, anzi uno in terra e l’altro in erba, ma non l’erba di Wimbledon, ma in muschio prodotto dalla cattiva manutenzione, in cui però il Maestro riusciva a far lezione. Grazie alla mia bicicletta diventò il luogo dei miei svaghi da quel momento in poi. Andavo ad assistere, cercando di non farmi vedere troppo, stando defilato, ma lo facevo appena potevo, rubando, come sempre in questi casi, il tempo ad altre cose, ad altri doveri. Con la mia pallina sempre dietro. Non passò un mese che decisi di procurarmi anche una racchetta, volevo provare anch’io. Il modo fu il solito, rubai i soldi a mia madre dal borsellino, un po’ per volta, e finalmente comprai una racchetta al supermercato, una roba assolutamente improbabile, che io trovavo assolutamente fantastica. Il campo d’allenamento era l’androne ed il muro dei garage sotto il condominio. Non c’era altra attività che svolgessi oltre quella. Mi decisi, ad un certo punto, di chiedere a mio padre di mandarmi a lezione di tennis, scoprendo che anche a lui piaceva molto, mi disse però che si trattava di uno sport asimmetrico ed era meglio che aspettassi un altro po’, prima di iniziare.
Il giorno della mia prima lezione avevo 9 anni e mezzo. Il Maestro era molto simpatico, oltre che molto bravo, secondo me uno dei migliori maestri che si possano avere, e dopo una prova test, molto breve, mi inserì nei suoi corsi. Cominciai a divorare qualsiasi indicazione, insegnamento e soprattutto buco in cui infilarmi per palleggiare con chiunque fosse disposto, sul fondo del campo c’era un muro, che utilizzavo da solo, o addirittura mentre il Maestro faceva lezioni a cestino ad altri, fino a che non mi mandava via, bonariamente, perché gli piaceva la mia passione, ma doveva anche lavorare. Nel giro di due anni diventai competitivo al punto da vincere i campionati regionali e l’anno successivo, che era il primo da under 14 sarebbe stato l’anno del raggiungimento della classifica. Tutto andava per il meglio, compresi i complimenti che piovevano da tutte le parti ed il folto pubblico che riuscivo già ad attirare, finché successe l’inevitabile. Un giorno il Maestro mi prese da parte, e con l’affetto di un padre, mi disse, che lui, in quella struttura non poteva darmi altro e che da quel momento in poi, viste le mie possibilità, bisognava entrare in una logica diversa, dovevo andare in una scuola che mi permettesse di fare il salto di qualità, ed una di queste era a 600 chilometri da dove vivevamo. Gli dissi che ne avrei parlato con papà. Prima che ciò avvenisse, il giorno dopo, se ne arrivò dicendomi tutto contento che c’era la possibilità di farsi visionare da un personaggio importante della Federazione, che sarebbe stato in una città vicina, in uno Sporting più importante del nostro, per segnalare eventuali talenti. Ero felicissimo e finita la lezione corsi a dirlo a mio padre. Mi preparai al meglio e andai alla selezione. Il personaggio stava a bordo campo e intanto che i ragazzi si avvicendavano, parlava distrattamente con un suo collaboratore. Quando venne il mio turno, lui, poco prima, si allontanò, per poi tornare, quando io ormai avevo esaurito il mio turno, ed il suo collaboratore che doveva sostituirlo, faceva tutt’altro. Passamo il nostro turno senza essere visti io ed altri 5 ragazzi. Per noi l’occasione era finita lì. C’erano circa 150 ragazzi in tutto, e la conclusione fu che non ce n’era uno buono. A questo punto non avevo scelta, o andavo in quella scuola che mi era stata indicata o, in alternativa, facevo fagotto e tenda ed andavo in giro per l’Italia a fare più tornei possibili. La prima ipotesi non era percorribile per i costi, la seconda per l’età, mia madre non se la sentiva di lasciarmi andare. Andai a giocare la Coppa delle Regioni, persi 6-3 6-4 con il numero 4 italiano under 16, e quella fu l’ultima partita della mia carriera”.
Una storia, un fatto, una realtà, il caso, per non dire la fortuna, ma soprattutto le variabili in gioco.
Questo ragazzo finché ha potuto, finché era nella sua sfera di intervento ha fatto di ogni necessità virtù. Quanto si può controllare e quanto sfugge al controllo, e quanto può essere risolto anche solo da un’informazione corretta, da un incontro decisivo?
Non ricordo come si chiamasse e me ne scuso, ma il giocatore brasiliano che dovette sostituire Pelè, mi pare in una finale o comunque in una partita importante, ama dire che è entrato in campo ed ha segnato, ma poteva anche non succedere ed ora invece di un eroe sarebbe stato uno stronzo qualsiasi ☺.
In questo senso, si potrebbe tracciare una mappa di responsabilità per sapere chi deve far cosa, ad ogni incrocio che gli compete o competerebbe?
Personalmente ho delle idee, anche se non bastano mai tutte le idee del mondo.

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